Storia del mio occhio di vetro
«Decisero di cucirmi le palpebre per tenere l’occhio riposato. Ma gli occhi si muovono insieme, quindi era un po’ una stupidaggine, allora cucirono anche l’altra palpebra, ma era insopportabile non poter vedere. Ricordo che nell’angolino dell’occhio buono c’era un buchino e io, quando nessuno mi vedeva, guardavo da quel buchino aiutandomi con le mani per ingrandirlo un po’ e poi contorcevo il corpo fino a vedere quello che volevo vedere»
Era maggio, avevo otto anni e volevo fare la prima comunione e la cresima per indossare quel bel vestito bianco con la cuffietta e le roselline bianche sul bordo che avevano già indossato le mie cugine e mia sorella Egidia. E mi piaceva da matti quella fascia che ti mettono sulla fronte, tipo quella degli indiani se ci infili una penna! Ora finalmente toccava a me. Ma prima dovevo andare a lezione di catechismo al Cenacolo, perché lì ci sarebbe stata la cerimonia. Le lezioni erano tenute da una suora davvero brutta e antipatica, così iniziai a disturbare chiacchierando e attirando l’attenzione degli altri bambini con una miriade di boiate e delle gran schifezze. Un giorno la suora fermò la mamma e le disse che molte mamme si erano lamentate e che non ero pronta a ricevere il Signore.
Volevo scappare dalla paura, invece mamma le disse che voleva parlare con padre Chiappati: era da lui che avrei ricevuto la comunione, come mia sorella e le mie cugine. Mamma sosteneva che a otto anni nessuno è pronto, ed essendo io già una bambina diversa, non fare la comunione sarebbe stata una grande delusione che avrebbe rinforzato le mie problematicità. Padre Chiappati disse a mamma che aveva assolutamente ragione.
Nonostante il bel vestito, il giorno della cerimonia c’era qualcosa che non andava. Sapevo che non meritavo di ricevere Gesù e avevo una gran paura che l’ostia mi volasse via dalla bocca. Durante l’elevazione, quel momento in cui suona un campanello, pregai: «Signore, fammi morire… No no no, mi piace vivere… Fammi fammi fammi perdere un occhio, però non farmi volare via l’ostia dalla bocca».
Il campanello suonò di nuovo, ormai avevo chiesto, era finito il tempo. Non so perché chiesi di perdere un occhio. Forse perché il babbo ne aveva perso uno a 18 anni: durante una gara, il suo sci di legno si era spezzato urtando una radice e la punta gli era entrata nell’occhio destro, ma lui era riuscito a non cadere e ad arrivare al traguardo su uno sci solo e senza un occhio.
Padre Chiappati iniziò a distribuire le ostie, e il mio terrore era insopportabile. Quando arrivò il mio turno, ritirai la lingua con l’ostia più veloce di un geco con la zanzara. Ma subito dopo mi voltai con la bocca serrata, e caddi in una spirale buia. Mi svegliai nel mio letto due giorni dopo. Non ricordavo nulla, un vuoto assoluto, erano però tutti contenti di rivedermi sveglia. Mi dissero che ero svenuta in chiesa e che mi era venuto un gran febbrone. Il mio corpo era pieno di puntini rossi, avevo il morbillo. Mi dispiaceva non aver fatto la cresima, ma ero contenta di non dover andare a scuola per un bel po’ e per le vacanze estive che presto sarebbero iniziate. Purtroppo uno di quei puntini rossi mi finì nell’occhio destro e mi fece un gran male, ogni giorno di più.
Mi portarono da un oculista, amico dei miei genitori. Disse che mi era venuta una cheratite erpetica da virus sulla cornea e quindi consigliava una cura sperimentale che consisteva nel prelevarmi del sangue, frullarlo fino a creare del siero da mettere in gocce nel mio occhio. Così facemmo, il siero andava tenuto nel frigo e ovunque io andassi dovevo portarmi una piccola ghiacciaia con dentro il mio collirio.
Arrivarono le vacanze. Andammo sul Lago Maggiore, a casa della nonna Egidia che aveva un pollaio ed era sempre una grande gioia quando le uova si rompevano e uscivano i pulcini. Se diventavano galli, la nonna non aveva problemi a tirargli il collo. Mi faceva un po’ impressione, ma mi piaceva vederla col grembiule, afferrare un pollo, sedersi sulla sedia, attorcigliargli un po’ il collo e – trac – una tirata e il pollo stecchiva senza sofferenza, almeno così mi raccontava. Subito gli faceva un taglietto sul collo, lo prendeva per le zampe e il sangue scendeva in un piatto fondo. «Questo è una mano santa per voi bambini, questa sera sanguinaccio, voglio vedervi crescere forti e sani». Poi lo spennava, gli tagliava la testa e le gambe che servivano per fare un buon brodo.
Dopo il lago tutti andammo all’isola d’Elba. C’era il problema di tenere al freddo il frullato di sangue, ma potevo fare il bagno, anche se solo con la maschera e senza assolutamente bagnare l’occhio. Quando partimmo, io ero al settimo cielo. Fu un’estate strana, sempre con l’occhio bendato, quintali di scotch sulla faccia, grandi maschere e gocce da mettere anche nove volte al giorno. Mi divertii ugualmente anche se ero seccata di non potermi buttare di testa dagli scogli alti come mia sorella, i miei genitori e i miei amici. Potevo solo tuffarmi di piedi tenendo la maschera schiacciata con la mano sulla faccia.
Quando ritornai a Milano la situazione era peggiorata e i miei genitori decisero di cambiare medico. Mi portarono dal Prof. Valerio, una persona molto austera, un gran bravo medico, con me sempre gentile. Per fortuna, perché per i futuri cinque anni sarebbe stata una delle persone che vidi di più. La sua infermiera, che sembrava una suora, mi regalava ogni volta una caramella al miele. Ho aspettato ore e ore in sala d’attesa, ho assistito a ore e ore di conversazione su come migliorare una situazione ormai molto compromessa. L’herpes continuava a distruggere la mia cornea, non vedevo più nulla.
Decisero di cucirmi le palpebre per tenere l’occhio riposato. Ma gli occhi si muovono insieme, quindi era un po’ una stupidaggine, allora cucirono anche l’altra palpebra, ma era insopportabile non poter vedere. Ricordo che nell’angolino dell’occhio buono c’era un buchino e io, quando nessuno mi vedeva, guardavo da quel buchino aiutandomi con le mani per ingrandirlo un po’ e poi contorcevo il corpo fino a vedere quello che volevo vedere. Alla fine decisero di riaprire quello buono. Era poco prima di partire per la montagna e io ero felice di ritornare a Celerina a sciare.
Mi ricordo che un giorno sull’ovovia con la mamma c’era un signore svizzero che non la smetteva di guardarmi. Iniziò a darmi davvero fastidio e allora cominciai a fissarlo come faceva lui con me. Mi chiese perché avessi l’occhio cucito e io, senza smettere di fissarlo, gli dissi che mi piaceva tanto avere un occhio cucito e per quello me l’ero fatto cucire. La mamma rimase di stucco e si scusò con una faccia che significava: «Non ci faccia caso, mia figlia non è mica tanto normale».
Quando ritornammo a Milano, iniziai la prima media al Parini dove mia sorella frequentava la terza. La mia classe, anzi, tutte le classi avevano dei luridi vecchi banchi di legno doppi con le due seggiole a ribalta attaccate. Un giorno, durante l’intervallo, invece di scendere con gli altri in cortile, tirai fuori dalla mia cartella tre pezzettoni di carta vetrata di tre spessori diversi e iniziai a scartavetrare il mio banco con la più grossa, poi con quella media e per finire con la più sottile fino a farlo diventare legno chiaro perfettamente pulito e liscissimo. Suonò la campanella di fine intervallo. Mi raddrizzai per guardare il mio lavoro da un po’ più lontano e ne ero soddisfattissima. Entrò la prof. Pinna di lettere col suo solito passo da generale, ma quando arrivò alla cattedra, si arrotolò su sé stessa. Non riusciva più a respirare. Mi accorsi che tutta la classe era in una nuvola di polvere di legno.
Chiamammo la bidella che aprì tutte le finestre, uscirono gli insegnanti delle altre classi e arrivò la preside. La Pinna respirava a fatica e la faccia era come un pallone. Non capivo cosa potesse essere successo a quella povera donna. Arrivò l’ambulanza e la portò via. La polvere era andata dappertutto, le mie compagne spolveravano i loro quaderni, la bidella guardava sgomenta. Entrò la preside, tutte ci mettemmo sull’attenti, ma lei venne diretta da me con una faccia terrorizzante: «Che cosa hai fatto?». «Ho pulito il banco». «No, hai distrutto una classe e la prof. Pinna è allergica al legno». Mi sospesero per tre giorni e fecero pagare ai miei genitori una multa di ben 5 mila lire, allora erano tanti.
A casa mi punirono e mi vietarono di uscire dalla mia camera. Ero convinta che una grande ingiustizia si fosse abbattuta su di me. Come potevano dire che avevo rovinato un banco? Come potevano far pagare tutti quei soldi ai miei genitori per aver fatto diventare il mio banco il più bello della classe, anzi della scuola? Avevo solo 15 minuti per scartavetrare e l’avevo fatto velocemente e a testa bassa per finire in tempo. Non avevo calcolato la polvere, ma come facevo a sapere che la prof. era allergica alla polvere del legno? Doveva scriverlo sulla porta.
La mattina del quarto giorno, quando con mille raccomandazioni ritornai a scuola, entrai un po’ prima e andai direttamente dalla preside. Mentre riponeva il suo paltò sull’appendino, le dissi che avevo avuto una bella idea per risolvere il problema del mio banco diverso: li avrei puliti tutti, naturalmente dopo la scuola, quando non c’era la prof. Pinna. Avrei tolto anche tutta la polvere. L’avrei fatto gratis, però mi sarebbe sembrato giusto restituire le 5 mila lire ai miei genitori. Notai le narici della preside dilatarsi, mi spaventai, non capivo a cosa fosse allergica. Mi diede altri tre giorni di sospensione che passai chiusa in camera, poi rientrai nella mia classe silenziosa, ma felice di rivedere il mio banco spettacoloso.
Intanto il problema dell’occhio, delle medicine e degli esperimenti che facevano su di me continuava. Un giorno pensarono che il virus sarebbe potuto morire a una temperatura di 40/42 gradi e così decisero di farmi un ciclo di punture in vena per farmi salire la febbre altissima. L’oculista parlò col mio pediatra e un giorno, a casa, arrivò il dott. Carletto a farmi la puntura endovenosa. Piano piano sentii le mie ossa spezzarsi, un dolore terribile e un mal di testa sempre più forte. Avevo paura, mi sembrava di impazzire. Dopo quattro ore vomitai l’anima per l’immenso malessere, era il culmine, la febbre era arrivata a 41, ma piano piano scese e quando, dopo altre quattro ore era pronto in tavola, avevo una fame bestiale. La settimana dopo arrivò la seconda iniezione e io pregai il Carletto con pianti e urla di non farmela. Ma mamma diceva, se il prof. Valerio ha detto di farla, bisogna farla. Punto e basta. Uguale alla prima: un ricordo truculento e indelebile. Arrivarono la terza e la quarta, ma il Carletto, vedendomi sempre più terrorizzata, decise di tornare nel momento culmine. Quando mi vide in quel terribile stato, scoppiò a piangere, mi chiese scusa e mi promise che non le avrebbe mai più fatte, né a me né a nessuno. Ecco, anche quella sera avevo una fame bestiale, ma ero felice, così felice che voi non lo potete neppure immaginare. In meno di quattro settimane con quelle punture e quel male terribile alle ossa ero cresciuta di 10 centimetri, ma all’herpes non avevano fatto un baffo di niente.
Si cominciò a parlare di trapianto. Essendo io molto giovane ero la più idonea per questa prima sperimentazione. In un ospedale a Milano c’era un malato terminale che aveva deciso di donare la sua cornea. L’operazione sarebbe stata fatta dal prof. Valerio, subito dopo la morte di quel signore. Mi fecero gli esami del sangue e le radiografie varie per l’anestesia, poi mi avrebbero cucito la cornea a mano. A ottobre mi ricoverarono, e mi tenevano sempre leggera col cibo nel caso il signore morisse. Passò una settimana, niente, due settimane, niente, arrivò novembre e io sempre in ospedale ad aspettare il momento. Ero super annoiata, imparai a fare stelle e fiori da un libro di origami che mi aveva regalato la mamma. Li cucivo insieme facendo ghirlande di tutti i colori e grandezze con cui riempii la mia camera. La voce si sparse e iniziai a ricevere ordini da tutti i reparti. I pazienti che riuscivano a camminare venivano a trovarmi per scegliere, avevo il campionario completo, ma anche i medici me ne ordinavano tante. Insomma iniziai a lavorare per tutto il giorno ed ero davvero contenta perché era Natale e tutto l’ospedale era zeppo delle mie ghirlande. Le vedevo alle finestre, nei corridoi, nelle camere dei medici, ovunque.
Al mio donatore non ci pensavo quasi più. Ma una notte, era ancora buio, sentii un gran trambusto, entrarono in camera infermieri: era arrivato il momento. Saltai giù dal letto e scelsi una delle mie ghirlande preferite. Mi vestirono per la camera operatoria e arrivò una barella con le ruote. «Non puoi portare la ghirlanda in camera operatoria», mi disse la mamma. «Solo nel viaggio fino a là», le risposi salutandola. Con due infermieri che spingevano la mia barella, prendemmo un grande ascensore e scendemmo. Un altro lungo corridoio, grandi porte che si aprivano. Quando arrivai, notai che c’era un’altra barella. Capii che era di quel signore e che era morto. «Per piacere, infermiera, questa la voglio regalare a lui. Gliela puoi mettere vicino?».
Mi svegliai nella mia camera con due cuscini di sabbia sui lati della testa e gli occhi completamente fasciati. Mi facevano fare la pipì e la pupù in una padella, non potevo assolutamente muovere la testa. Dopo qualche giorno, iniziai a scalpitare. Mi calmò solo poter ricominciare a fare le stelle che mi riuscivano anche senza guardare per tante che ne avevo fatte prima. Dopo una settimana decisero di lasciarmi libero l’occhio buono, con la promessa di restare tranquilla. Ero felice di rivedere la faccia di mamma e di babbo, e anche delle mie adorate infermiere a cui volevo un sacco di bene e che mi davano un sacco di ordinazioni di stelle da tanti nuovi ricoverati.
Dopo un paio di giorni, però, sentii che qualcosa non andava nel mio occhio operato. Un dolore sempre più forte, insopportabile. Chiamarono i dottori e dissero che avevo una crisi di glaucoma acuto. Il mio occhio diventava una palla dura per una pressione interna troppo alta. Il dolore si irradiava dentro la testa ed era pericoloso per la mia cornea appena cucita perché si sarebbe potuta strappare. Ma tra una medicina e l’altra, e con crisi sempre alla stessa ora del pomeriggio, mi mandarono a casa con mille proibizioni. Quando salutai le infermiere piansi, ma non vedevo l’ora di rivedere mia sorella, i miei cugini, la mia camera e di sentire il profumo di casa. Fu una grande gioia ma il male si ripresentava alla stessa ora e io ero sola con lui. L’unico piacere era scivolare sul pavimento vicino al Sunny, il nostro cagnolone, e girarmi su un lato della faccia in cerca delle piastrelle fredde.
Non potevo muovermi bruscamente, non potevo correre, non potevo saltare, non potevo fare niente delle cose che mi piacevano. La mia vita era diventata davvero limitata. Quell’estate mi mandarono con la nonna Isotta a Celerina, perché andare all’Elba senza poter fare i bagni, correre sugli scogli, tuffarmi, sarebbe stato una tortura. Mi ricordo che andavo su un pratone che risaliva fino a dei meravigliosi larici e lì mi fermavo felice a guardare la vista. Un giorno mi accorsi di un cerbiatto che mi guardava. Cercai di concentrarmi per comunicargli di restare lì. Lui sembrava sentire i miei pensieri e si accucciò tranquillo senza perdermi di vista. Il giorno dopo il mio cerbiatto tornò, mi concentrai per fargli capire che gli volevo un sacco di bene e lui si accucciò un po’ più vicino e alla fine diventammo grandi amici.
Ma un giorno la nonna volle fare una passeggiata fino al lago di Statz. Ci incamminammo verso la stazione, poi nel bosco, passammo la casetta dei nani e arrivammo al ristorante pensando ai buoni rösti e ai tubetti di maionese e senape Tommy da spalmare sul bradwürstel. C’era un gran bel sole. Mentre la nonna aspettava il suo café creme, iniziai a gironzolare intorno al ristorante e conobbi un bambino. Non capivo la sua lingua, ma mi portò dove c’era un’altalena. Mi fece segno di sedermi da una parte del tronco, mentre lui si sedette dall’altra. Venni sollevata in alto, poi cercai di far forza e lui si sollevò dall’altra parte. Diventavamo sempre più bravi a bilanciarci. Certo, quando a sollevarsi era lui, io battevo a terra veramente forte e lo sapevo che era proibito perché non potevo prendere colpi, il mio occhio poteva scoppiare, ma non volevo scendere perché quel bambino mi era simpatico da matti e ci stavamo divertendo tantissimo. Ci salutammo con un grande sorriso, quando sua mamma lo venne a prendere.
Al ritorno avevo un gran male e al momento di mettere le gocce a casa, ci accorgemmo che l’occhio era terribile. Arrivarono i miei genitori e ritornammo tutti a Milano. Il mio oculista volle un consulto con un famoso oculista di Lione, il prof. Pofique. Partimmo col treno il prof. Valerio, babbo, mamma e io. Arrivammo a Lione in una bella giornata di sole. Dopo un’accurata visita il prof. Pofique parlò in francese con il prof. Valerio e con i miei genitori. Io capivo a spizzichi e bocconi. Consigliava di togliermi l’occhio per proteggere l’altro perché si poteva ammalare. Il pensiero mi preoccupò tantissimo. Quando fummo sul treno di ritorno, chiesi a loro tre di promettermi di dirmi se l’altro occhio fosse stato in pericolo. Per consolarmi pensai che sarei diventata come mio padre: in quattro in famiglia, avremmo avuto sei occhi.
Quando dissero a mia sorella Egidia che mi dovevano togliere l’occhio, ci rimase proprio male e io non sapevo come consolarla. Facevo la buffona e le parlavo in ostrogoto, la nostra lingua inventata. «MEngher GLIrighiz Omper COmper SÌrighiz SAngher RO’mper LIrighiz BEngher RAuf» («Meglio così sarò libera… e mi potrò tuffare di testa come voi e non userò più i cerotti e la maschera … che bello!!!!»). La abbracciai nascondendo un grande groppo in gola. Ma era ora di andare in tavola, c’erano i malfatti di ricotta e spinaci, mia sorella e io ne andavamo ghiotte.
Mi tolsero l’occhio il 13 dicembre 1963, il giorno di Santa Lucia, la santa che protegge gli occhi. Erano passati cinque anni dall’inizio della malattia. Mi pareva di toccare il cielo con un dito: mi ero liberata delle medicine, del dolore, del non fare questo, non fare quello. E avevo 13 anni. Per qualche mese tenni una benda da pirata che mi piaceva da matti ma una volta che la cavità fu perfettamente assestata, andai a Lucerna col babbo a fare il mio primo occhio di vetro. Il babbo ne approfittò per rifare il suo, perché ogni tre/quattro anni andavano sostituiti.
Il signor Müller aveva scatole di palle di occhi di tutti i colori. Scelse, mettendolo vicino a quello buono, la palla col colore più simile. Poi con una fiamma continua attaccò una cannuccia di vetro alla palla e iniziò a soffiare e a modellare, aggiunse dei puntini gialli all’iride per farla più simile e delle lineette rosse al bianco, per disegnare piccolissimi vasi sanguigni. Chiacchierò in continuazione, in italiano con forte accento svizzero tedesco, continuando a soffiare nella cannuccia mentre modellava il mio occhio fino a farlo diventare una mezza palla concava. Infine mise l’occhio nell’acqua fredda. Me lo provò e sembrò soddisfatto del suo lavoro. «Il primo», mi disse, «è sempre il più difficile». Poi ci sarebbe stato un modello da seguire. Mi porse lo specchio. A me sembrò un po’ più piccolo dell’altro, però avevo due occhi.
Sopra i sedili dello scompartimento del treno del ritorno a Milano c’era uno specchietto: mi sedevo e mi rialzavo per guardare il mio occhio nuovo, e continuai a farlo per tutto il viaggio. Avevo 13 anni. A casa tutti vollero guardarlo e mi dissero che era bellissimo, però io mi stufai e lo coprii con la mia benda da pirata.
Un giorno babbo ritornò a casa tutto eccitato. Tirò fuori da un sacchetto di carta due batterie quadrate con due sottili linguette di metallo. Mi fece vedere che se le toccavi insieme con la lingua, sentivi una scossetta acida. Prese due lampadine piccolissime da decorazione di albero di Natale, un rotolino di filo elettrico trasparente e sottile, e mi disse: «Guarda, Ludo, ora ti faccio vedere quello che facevo da ragazzo. Non sai quanto è divertente e come sono contento di poterlo fare con te».
Attaccò alle due lampadine due pezzetti di filo lunghi circa 60 cm, divise in due il pezzo finale del filo e liberò dall’involucro gli ultimi tre centimetri. «Ora guardami e fai come me». Si tolse l’occhio, mise la lampadina all’interno e reinserì l’occhio. «Il filo devi farlo uscire dal lato esterno, così lo fai passare dietro le orecchie. Non si deve vedere…». Mi tolsi l’occhio. Feci come lui: «Brava, perfetto, ecco, bene, il filo dietro l’orecchio, da un po’ di fastidio, ma non fa male, vero, Ludo?» Passammo il filo all’interno del golf, uno dei due filetti finali lo attaccammo a una linguetta della batteria, l’altro lo lasciammo libero e andammo in guardaroba dove c’era uno specchio lungo. Il babbo spense la luce e, contatto, nel buio vidi l’occhio di babbo accendersi di rosso e lui vide accendersi il mio e poi ci guardammo nello specchio e vedemmo tutti e due gli occhi illuminati. Potevamo anche farli lampeggiare. Ridemmo come dei matti, fu veramente un esperimento straordinario, solo il mio babbo e io lo potevamo fare.
Un giorno Babbo mi disse che potevamo andare al cinema Tonale di Milano a fare questo gioco. Scelse un film un po’ di paura – mi sembra fosse L’uomo dagli occhi a raggi X di Roger Corman, che uscì in quel periodo – e appena le luci si spensero, fingendo indifferenza, ci preparammo.
– Pronta?
– Sì babbo, prontissima.
– Bene al tre, contatto, e giriamoci a guardare quelli seduti dietro. Uno, due tre…».
I nostri occhi si accesero e le persone dietro di noi cominciarono a urlare. Alcune si alzarono e corsero via. Questo proprio non potevo immaginarlo. Mi vergognai.
– Babbo, andiamo via ti prego, andiamo via subito prima che si accendano le luci».
Scappai fuori, il babbo dietro di me:
– Ludo, lo scherzo è riuscito perfettamente. Perché sei scappata?
– Sì, Babbo, però al cinema questo scherzo non lo faremo mai più.
Mi ricordo che togliemmo la lampadina dall’occhio e andammo a mangiarci un buon gelato, di fragola e limone il babbo, di nocciola e cioccolato io.