L’importanza delle “lepri” nell’atletica leggera
Cioè le persone pagate per correre tenendo un ritmo utile ad altri: per qualcuno sono imprescindibili, per altri sono «la peggior cosa che sia mai capitata all'atletica leggera»
Nelle prove di corsa di fondo e mezzofondo, quindi dagli 800 metri fino alla maratona, ci sono spesso persone ingaggiate per aiutare qualcuno a correre più veloce. In gergo sono note come “lepri” e il loro ruolo è correre una parte di gara a un certo ritmo, così da evitare a qualcun altro di doverci pensare. Di fatto, le lepri sono pagate per andare fortissimo per poco tempo, poi mollare e quindi perdere, motivo per cui la loro presenza è vietata alle Olimpiadi, ai Mondiali e anche a molte grandi maratone. In altri eventi, come i principali meeting mondiali dell’atletica leggera, continuano invece a essere molto presenti: perché sono ormai quasi imprescindibili per chi vuole battere certi record e perché, in un anno preolimpico come questo, possono dare un notevole contributo nel far raggiungere ad altri i tempi necessari a qualificarsi.
Nella corsa le lepri esistono almeno dalla prima metà del Novecento, quando era già ben chiaro il contributo che potevano fornire a chi correva dietro di loro. Non è invece del tutto chiaro perché si chiamino proprio lepri (e liebres in spagnolo, e lièvres in francese) o in inglese rabbits, cioè conigli. Una possibilità è che il loro ruolo fosse inizialmente associato a quello delle lepri (spesso meccaniche, cioè finte) usate nei cinodromi per stimolare la corsa dei cani. A differenza di lepri o conigli, nei prati o nei cinodromi, le lepri dell’atletica devono però correre a un ritmo il più costante possibile, senza dover staccare chi le segue: motivo per cui in inglese si parla anche di pacers, pacemakers o pacesetters.
Se per qualcuno le lepri sono «eroi ed eroine di cui si parla troppo poco», persone il cui ruolo è per molti versi assimilabile a quello dei gregari del ciclismo su strada, per altri rappresentano invece un problema pressante e al contempo piuttosto antico, presentato addirittura come «la peggior cosa che sia mai capitata all’atletica leggera».
Non c’è modo di sapere quando si iniziò a correre dietro ad altre persone con l’obiettivo di andare più veloce, ma è probabile che lo si iniziò a fare empiricamente, prima di studi che ne dimostrassero e addirittura ne calcolassero l’utilità. Il primo consistente ricorso alle lepri, o comunque il più ricordato, fu fatto dal mezzofondista britannico Roger Bannister, che nel 1954 beneficiò del contributo dato da Chris Brasher e Chris Chataway per diventare il primo uomo a correre un miglio (un chilometro e 609 metri) in meno di quattro minuti, in quello che era stato per anni un insuperabile “muro” della corsa.
Dopo Bannister il ricorso alle lepri si diffuse molto, per qualcuno pure troppo. Alla fine degli anni Sessanta la IAAF, l’Associazione internazionale di atletica leggera, fece approvare infatti una regola in cui si diceva che un record non era valido se fatto attraverso il ricorso alle lepri (si parlava di «tempo ottenuto grazie all’andatura di un concorrente verosimilmente designato per aiutarne un altro a raggiungere un record»).
La regola però non si impose: fu perlopiù trascurata e dopo qualche anno eliminata. Ne restano le tracce solo nel fatto che non si considerano tali i record femminili fatti in competizioni miste, in cui un’atleta può sfruttare il ritmo di corridori maschi.
In termini pratici, la presenza di qualcuno che dia ritmo e andatura ha diversi vantaggi, alcuni più psicologici, altri più legati all’aspetto fisico della corsa. Dal punto di vista psicologico, correre dietro a qualcuno – sapendo che quel qualcuno farà un ritmo determinato e costante – toglie pensieri a chi deve seguire. È quello che succede, in misura ridotta, a eventi podistici o maratone in cui esistono pacer (in genere ben visibili grazie ad apposite magliette o palloncini che si portano appresso) che corrono a un certo passo, non necessariamente veloce, ma costante, per aiutare altri a fare un determinato tempo finale.
In contesti più agonistici, quando il passo diventa parecchio più intenso e le velocità si fanno più elevate, anche il semplice fatto di stare in scia dietro a qualcun altro ha poi i suoi vantaggi fisici. È stato calcolato, per esempio, che a un passo inferiore ai tre minuti al chilometro (quello che serve per correre una maratona in un paio d’ore) e in condizioni normali, quindi senza vento, permette di guadagnare fino a un secondo ogni 400 metri, che nel caso di una maratona diventano oltre un minuto e mezzo. I vantaggi aerodinamici delle lepri si videro molto bene nel 2019 quando il keniano Eliud Kipchoge corse una maratona in meno di due ore, in quello che fu un risultato storico ma non un vero record mondiale, poiché ottenuto in condizioni troppo particolari (oltre ad altri corridori a fargli da lepri, c’erano per esempio diverse auto davanti a lui).
Per poter fare la lepre ad alti livelli serve quindi anzitutto saper andare piuttosto forte, anche se ovviamente solo per una parte della gara: per esempio il primo giro di pista nel caso degli 800 metri o alcuni chilometri quando si tratta invece di una maratona. Bisogna poi accumulare esperienza e affidabilità nel saper correre al ritmo richiesto. In certi contesti (come nel caso di Kipchoge), tra le lepri ci sono atleti di altissimo livello, in altri (come quando si cerca di battere un record nazionale o fare il tempo minimo per qualificarsi a un determinato evento) tra le lepri ci sono atleti di livello alto ma non altissimo, per cui fare la lepre è un lavoro a tempo pieno.
«Diventare una lepre fu un modo per continuare a correre ed essere pagato per farlo» raccontò qualche anno fa Matt Scherer, un buon quattrocentometrista e ottocentometrista, che era tra i migliori venti negli Stati Uniti, quindi bravo ma non abbastanza bravo per poter pensare di arrivare alle Olimpiadi. A seconda dei casi, a pagare le lepri sono gli organizzatori degli eventi o perfino gli atleti in cerca di record.
Nelle maratone le lepri non sempre sono accettate: tra quelle più importanti, le cosiddette Major, sono ancora consentite a Londra, mentre a New York smisero di esserlo nel 2007 e a Boston non lo sono mai state. In particolar modo nelle maratone, la presenza di lepri rende spesso meno tattiche, e quindi meno avvincenti, le prime decine di chilometri: anziché confrontarsi direttamente con attacchi o cambi di ritmo, i migliori si limitano infatti a seguire il passo imposto dalle lepri, che spesso sono corridori interessati a spostarsi verso distanze più lunghe o maratoneti a fine carriera.
È molto raro, ma talvolta succede che pur essendo entro certi termini pagate per aiutare altri a vincere le lepri vincano. I casi più citati hanno per protagonisti Tom Byers, che nel 1981 vinse a Oslo una gara sui 1.500 metri in cui era stato ingaggiato come lepre, e Paul Pilkington, che da lepre vinse la maratona di Los Angeles del 1994. Pilkington avrebbe dovuto correre a un certo passo soltanto la prima metà di gara, ma si trovò talmente in vantaggio (oltre che in forma) che proseguì, e vinse.
Nella maggior parte dei casi le lepri fanno invece il loro lavoro, o magari non lo fanno a pieno ma solo perché non sempre, soprattutto ad alti livelli, riescono a tenere il passo richiesto. E la loro presenza è talmente diffusa che è ormai difficile pensare di poterne fare a meno, anche perché diventerebbe parecchio complicato migliorare senza il loro aiuto record fatti anche grazie alle lepri. Inoltre, non sempre è facile determinare con certezza se e quando qualcuno sta effettivamente facendo da lepre a qualcun altro e se può farlo: se per esempio succede a una gara olimpica, tra atleti dello stesso paese, il confine tra il gioco di squadra e il ricorso alle lepri sarebbe molto sottile e incerto.
Mentre le lepri tradizionali sembrano ben lontane dall’estinguersi, nelle piste di atletica leggera si stanno affermando da qualche tempo quelle di cui talvolta si parla come di “lepri luminose”. Sono quel che in termini più tecnici si definisce sistema wavelight, cioè l’insieme di led luminosi messi sul bordo interno delle piste, che illuminandosi uno dopo l’altro permettono a chi corre di tenere un determinato ritmo, per esempio quello del record mondiale da battere. Non aiutano a livello di scia ma servono ad avere un costante riferimento sul proprio ritmo: fin qui sembrano poter essere piuttosto d’aiuto agli atleti, motivo per cui non tutti gli esperti le gradiscono.
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