La rispettabilità era un completo di lana nero

«L’unica vera cosa rilevante successa nella moda in tempi recenti parte dal cosiddetto mondo dello streetwear, per sua natura antisistemico e radicale, vicino alle subculture e in origine lontano dalle logiche commerciali, e si struttura come un vero e proprio sistema di segni opposto alla moda europea, quella dei designer e dei marchi del lusso»

Il designer Virgil Abloh durante la sfilata uomo Louis Vuitton A/I 2019-2020 a Parigi, il 17 gennaio 2019 (Pascal Le Segretain/Getty Images)
Il designer Virgil Abloh durante la sfilata uomo Louis Vuitton A/I 2019-2020 a Parigi, il 17 gennaio 2019 (Pascal Le Segretain/Getty Images)
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Century 21 è uno storico outlet di New York, il primo nel suo genere negli Stati Uniti, che durante la pandemia ha dichiarato fallimento ma che, grazie alla magica capacità di risorgere dalle proprie ceneri tipica dell’imprenditoria statunitense, ha prontamente riaperto. Contrariamente agli outlet a cui siamo abituati, pieni di uno strano mix di collezioni passate di marchi più o meno famosi, Century 21 rappresenta il cliente americano medio, conformista e spaventato dalle novità, e, sul piano dedicato alla moda maschile, è un lungo susseguirsi di felpe e t-shirt che vanno da Balenciaga a Ralph Lauren ma sempre felpe e t-shirt restano.

Aggirandomi per i tristi rack traboccanti di vestiti monocromatici, mentre ero a New York la settimana scorsa, noto un’area particolarmente affollata e anche particolarmente colorata, piena di giubbotti fluo, pantaloni cargo stampati e camicie ricamate. Vedo anche un’altra cosa che mi sembra strana: intorno a quel preciso angolo del negozio ci sono solo giovani uomini afroamericani. Nessun bianco si avvicina a quei cinque metri quadri.

Sugli stand stanno appesi i costosissimi (anche se scontati) abiti di Off-White, il marchio di culto del designer afroamericano Virgil Abloh, ex direttore creativo di Louis Vuitton uomo, scomparso a fine 2021 a soli 41 anni per una forma rara di tumore, ed entrato nella leggenda.
L’impressione chiarissima è che in quel piccolo spazio il fracasso dell’outlet si acquieti e si trasformi in un silenzio ammirato tipico di un luogo di culto riservato ai soli appartenenti a una fede che ha i tratti di una dottrina rivelata.

Qualche sera dopo vado al Lincoln Center a vedere il concerto di Natalie Merchant. Il Lincoln Center è uno spettacolare centro per le arti performative costruito negli anni Sessanta grazie al contributo privato di ricchissime famiglie newyorkesi tra cui i Rockefeller. Questi enormi spazi in cui nella stessa sera si può assistere a una rappresentazione della Traviata, a un concerto di Sting, a uno di musica elettronica sperimentale e, appunto, a uno di Natalie Merchant sono privati, come quasi tutto quello che riguarda la cultura negli States, e rappresentano esattamente la strutturazione della società americana con tutte le sue contraddizioni.

Natalie Merchant è una cantautrice molto impegnata politicamente che usa un registro folk come base narrativa per testi molto profondi e che ha un seguito di fan adoranti da quando, negli anni Ottanta, faceva parte del gruppo dei 10,000 Maniacs. Mentre ascolto Merchant cantare accompagnata da una gigantesca orchestra sinfonica, guardando la sala che ospita almeno duemila persone, mi rendo conto che, incredibilmente, non c’è neanche una persona nera. Continuo a scandagliare incredulo la platea ma niente, vedo solo facce bianchissime. Tutte di mezza età e bianchissime.

La definizione in base al colore della pelle è una cosa che geneticamente non ha nessun senso ma da un punto di vista culturale negli Stati Uniti viene presa molto sul serio, talmente tanto che su Pornhub, il sito porno più visitato al mondo, esiste una specifica categoria denominata interracial in cui uomini e donne con colori di pelle diversi si accoppiano in amplessi che di specifico hanno solo il fatto che i colori della pelle degli attori sono diversi.

Anche l’autorappresentazione di ogni minoranza etnica o culturale negli Stati Uniti segue una determinazione che per noi è molto difficile da capire. Riconoscersi in codici immediatamente percepibili è stato ed è ancora, soprattutto per i gruppi discriminati, un modo per sopravvivere. La comunità afroamericana nello specifico ha elaborato, a partire dagli anni Ottanta, un modo di vestirsi inconfondibile, sviluppato intorno al fenomeno dell’hip-hop e della musica rap. I successi commerciali delle collezioni di artisti come Kanye West o Travis Scott, entrambi rapper di successo, non sono l’ennesimo esempio di merchandising di celebrity ma il tentativo riuscito di strutturare un’offerta in termini di abbigliamento che non segua più i codici della storia della moda europea, bianca, razzista e colonialista, ma ne inventi di nuovi.

Questo cambiamento, lento ma inesorabile, ha restituito una valenza politica alla moda, prerogativa che, a partire dagli anni Settanta, le è stata tolta per favorire logiche di mercato sempre più penetranti e ossessive.

Uno dei modi più efficaci in cui, storicamente, il mondo bianco ha affermato la propria superiorità e si è visibilmente separato dalle minoranze sottomesse e perseguitate è stato attraverso il meccanismo del buon gusto, un insieme complesso di regole che si è strutturato a partire dall’Ottocento in Europa e che è stato interiorizzato dal mondo intero come una cosa vera in sé, senza mai, fino a tempi recenti, essere messo in dubbio. L’esempio più forte di questo schema estetico è l’abito formale maschile composto da giacca, pantaloni, camicia, cravatta e scarpe stringate. Quale avvocato, commercialista, uomo d’affari, bancario o banchiere oserebbe andare al lavoro senza questa uniforme protettiva che lascia intuire bontà d’animo, professionalità e approccio etico al lavoro ma anche alla vita?

In realtà l’abito maschile nasce proprio per essere un separatore tra la nuova classe imprenditoriale borghese assetata di potere e visibilità e i vecchi ex ricchi aristocratici che nella vita non avevano mai dovuto faticare per guadagnare soldi e che per questa ragione erano caduti nella categoria dei derelitti. La nuova fiammante uniforme serve per andare a stipulare contratti milionari a Wall Street ma anche per tagliare il nastro inaugurale del Metropolitan Museum, esattamente come faceva Robert Owen Lehman. Sì, quello della Lehman Brothers. La rispettabilità passa anche attraverso un completo di lana nero.
Il resto della società civile e politica degli Stati Uniti, soprattutto quella afroamericana che esce dalla segregazione solo nel 1965, farà molta fatica a trovare simboli altrettanto potenti per farsi riconoscere, rendersi visibili ma anche mostrare il proprio potere e, se possibile, amplificarlo.

La metropolitana di New York è da sempre, come dimostrano centinaia di film e serie televisive, il luogo in cui si incontrano le contraddizioni estetiche e sociali della società americana. Personalmente ero abituato a uno sconquasso variegato di stili, di individualità, di subculture che rappresentavano il mitico multiforme censo americano, ne raccontavano la coesistenza ma anche la grande iniquità.

Questa volta, dopo quattro anni che non ci andavo, la mia impressione è stata molto diversa. La differenza tra i due grandi gruppi etnici americani, bianchi e neri, è molto più chiara e gli elementi identitari di ognuno non si manifestano più attraverso i tratti della ricchezza e del buon gusto da una parte e degli outcast dal cattivo gusto dall’altra. Si è costruito un equilibrio che certo non corrisponde ancora a una parità sociale ma che dimostra come si sia formato un linguaggio alternativo a quello borghese bianco, ugualmente nobile e potente.

Un suit maschile grigio portato con delle sneaker da baskeball e una cuffia gigantesca, una tuta aderente arancio fluo decorata con ruche e Swarovski, un giubbotto varsity in pelle oversize stampato palme messo su dei jeans enormi strappati, una felpa tie-dye con un logo imprecisato aperta su una t-shirt con un altro logo imprecisato, tutto in colori che ogni esistente senso del buon gusto rifiuterebbe a priori. Fino a qualche tempo fa di fronte a questa scena avrei sollevato leggermente l’angolo della bocca con un’espressione di rifiuto giudicante mentre questa volta ho provato un senso di apertura liberatoria, di accettazione di canoni diversi, di storie diverse.

Questa straordinaria novità, l’unica vera cosa rilevante successa nella moda in tempi recenti, parte dal cosiddetto mondo dello streetwear, per sua natura antisistemico e radicale, vicino alle subculture e in origine lontano dalle logiche commerciali, e si struttura come un vero e proprio sistema di segni opposto alla moda europea, quella dei designer e dei marchi del lusso. Negli ultimi dieci anni il mondo del denim, delle felpe, delle sneakers e del workwear che nelle nostre menti releghiamo di solito a qualche costoso capriccio di un figlio adolescente è entrato nei salotti buoni della moda con personaggi come Virgil Abloh diventato direttore creativo di Louis Vuitton, il marchio del lusso che fattura di più al mondo o come Pharrell Williams, cantante e produttore musicale, che a partire dal prossimo luglio ne prenderà il posto.

Attraverso il loro lavoro e quello di molti altri una cultura che fino a poco tempo fa non aveva voce è arrivata ai vertici del mondo della moda di fatto completando una lunga marcia rivoluzionaria e creando una visione e un metodo progettuale unici e mai visti prima. Ma fornendo anche degli strumenti precisi che stanno nella categoria del gusto a chi prima non li possedeva.

Oggi la diversità nella moda è diventata un concetto potente e dinamico che è riuscito a penetrare con il suo potere trasformativo negli strati più ampi della popolazione americana e di quella mondiale. È una rivoluzione che equivale a quella della minigonna di Mary Quant negli anni Sessanta, vera e propria arma di lotta femminista, e i cui effetti abbiamo appena cominciato a vedere.

Come tutte le grandi trasformazioni esiste però un lato problematico che si chiama, in questo come in molti altri casi, appropriazione culturale. Per quanto il linguaggio dello streetwear non appartenga per nascita alla comunità afroamericana, è stata questa stessa comunità a elaborarlo e a renderlo popolare e dalle sue radici sincere e nobili il rischio è che venga strappato, decontestualizzato, digerito e risputato come mero prodotto di consumo.

“Si chiama capitalismo, bellezza”, e le grandi corporation del lusso non vedono l’ora di trasformarlo in una commodity come hanno fatto con molti altri temi, svuotandoli della loro valenza sociale. Può accadere e forse sta già accadendo ma intanto c’è una parte di mondo che ha imparato a raccontarsi attraverso una lingua che prima non esisteva, che ha creato a sua immagine e somiglianza e che potrebbe avere le caratteristiche eterne di un linguaggio universale.

Andrea Batilla
Andrea Batilla

Dopo aver collaborato con alcuni dei più importanti marchi del Made in Italy come Romeo Gigli, Trussardi, Aspesi, Cerruti, Les Copains, Bottega Veneta, si occupa di consulenza strategica per aziende del lusso ed è investment consultant per il gruppo Mayhoola. Per cinque anni è stato direttore della scuola di moda dell’Istituto Europeo di Design di Milano, sviluppando una stretta collaborazione con Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia. Il suo ultimo libro Come Ti Vesti (Mondadori, 2023) è un saggio sul significato storico e culturale del modo di vestire occidentale. Ha un profilo Instagram con più di 80 mila followers che si occupa di divulgazione e critica di moda. Ha co-diretto il semestrale PIZZA e scritto per Domani, Dust Magazine, Il Corriere della Sera, Il Post.

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