Capiremo mai come ragionano gli animali?
Le ricerche sulle analogie tra la mente umana e le abilità di altre specie inducono a considerare i limiti della nostra comprensione e ridiscutere gli approcci tradizionali
In uno studio pubblicato a maggio sulla rivista Scientific Reports un gruppo di ricercatori e ricercatrici di neuroscienze e psicobiologia all’Università di Barcellona e all’Università di Lipsia ha dimostrato che le giraffe, animali con un cervello relativamente piccolo, sono in grado di prendere decisioni basate su informazioni statistiche: come fanno gli esseri umani – già da un anno di età – e diversi altri primati. Nell’esperimento centrale dello studio sono stati mostrati a cinque diverse giraffe due contenitori trasparenti con un misto di pezzi di carote e zucchine: uno conteneva più zucchine, l’altro più carote.
Lo sperimentatore prelevava due pezzi, uno da ciascun contenitore, e li offriva alla giraffa nascosti nelle mani chiuse, in modo che la giraffa non potesse vedere quale dei due tipi di verdura contenessero. Tutte le giraffe dell’esperimento sceglievano stabilmente la mano che aveva afferrato un pezzo dal contenitore con più carote, a loro più gradite delle zucchine, dimostrando di aver capito che più carote c’erano nel contenitore, più era probabile che venisse raccolto un pezzo di carota anziché uno di zucchina.
Un insieme crescente di esperimenti e studi scientifici pubblicati negli ultimi anni ha approfondito le conoscenze riguardo alle abilità percettive e cognitive degli animali, stabilendo numerose e sorprendenti analogie tra quelle abilità e il modo di ragionare degli esseri umani. Ma se da un lato questi studi confermano un’attitudine nota a utilizzare le abilità degli uni come misura di quelle degli altri, dall’altro lato i risultati che producono incrementano l’incertezza riguardo a quali dati biologici e criteri possano definire differenze fondamentali e stabili tra gli esseri umani e gli animali non umani. E allo stesso tempo non riducono una sostanziale inaccessibilità umana alle diverse percezioni ed esperienze del mondo nel regno animale.
Gli esperimenti inducono a riconsiderare in generale molti dei presupposti tradizionalmente utilizzati – le dimensioni del cervello, per esempio – per stabilire cosa gli animali siano capaci di fare e cosa no. Le scoperte non riguardano infatti soltanto specie come gli scimpanzé o la nocciolaia di Clark, ma anche altre dotate di un cervello molto più piccolo di quello dei primati o degli uccelli in rapporto alle dimensioni del corpo, come appunto le giraffe. E un’idea condivisa tra diversi scienziati e pensatori è che il modo probabilmente più utile e appropriato di pensare agli animali non umani – in un certo senso l’unico possibile – sia di immaginarli come “alieni”, esseri dotati di menti completamente diverse e difficilmente confrontabili con quella umana, senza rischiare di perdere di vista nel confronto ciò che le caratterizza e distingue.
La storia evolutiva delle capacità intellettive dei cefalopodi (polpi, calamari e seppie), radicalmente diversa da quella delle capacità dei primati, è oggetto del libro di successo del 2016 Altre menti del filosofo della scienza e divulgatore australiano Peter Godfrey-Smith. La mente di questi invertebrati è talmente complessa e diversa dalla nostra, secondo Godfrey-Smith, da rendere il nostro tentativo di esplorarla quanto di più simile a un incontro con un alieno intelligente. Infatti, mentre umani e scimpanzé condividono un antenato comune risalente a circa 6 milioni di anni fa, il più recente antenato comune tra gli umani e i polpi è una creatura simile a un verme che si ritiene sia vissuta circa 600 milioni di anni fa.
Nella loro interazione con il mondo, scrive Godfrey-Smith, i polpi mostrano molta flessibilità, «uno stile opportunistico ed esplorativo», curiosità verso le novità e una costante inclinazione all’adattamento: tutte attitudini associate anche alla mente umana. Il loro rapporto con l’imprevisto è rilevante perché una delle ipotesi che tenta di spiegare la coscienza umana fa proprio riferimento ai comportamenti che emergono a fronte della necessità di esplorare oggetti che distolgono l’attenzione dell’individuo da routine inconsapevoli e, in una certa misura, “automatiche”. E le risposte del polpo davanti a stimoli nuovi non sono sempre prevedibili, osserva Godfrey-Smith: «sono associate a volte alla prudenza e a volte a una sconcertante temerarietà».
Dato che la loro mente si è evoluta in un modo completamente diverso dal nostro, fatichiamo però a immaginare come i polpi facciano esperienza del mondo. La maggior parte dei loro 500 milioni di neuroni – più o meno la stessa quantità presente nei cani – non si trova nel cervello ma nei tentacoli, che sono in grado non soltanto di toccare gli oggetti ma anche di annusarli, gustarli e compiere altre azioni complesse. In un certo senso per noi difficile da comprendere, è come se ogni tentacolo fosse una mente a sé stante.
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Oltre che di numerosi esperimenti scientifici, il modo in cui gli animali non umani percepiscono il mondo è stato oggetto di molte riflessioni filosofiche. Una tra le più note e rilevanti della seconda metà del Novecento fu l’esperimento mentale posto dal filosofo statunitense Thomas Nagel nell’articolo del 1974 Cosa si prova a essere un pipistrello?. Scegliendo appositamente un animale noto per avere un apparato sensoriale molto diverso dal nostro, Nagel sostenne che la possibilità di vivere l’esperienza soggettiva di un pipistrello sia in sostanza preclusa agli esseri umani. È possibile per loro immaginare come sia volare muniti di patagio, o magari trascorrere molto tempo appesi a testa in giù: ma sarebbe comunque immaginare cosa provi un essere umano a essere un pipistrello, non come sia per un pipistrello essere un pipistrello.
L’impossibilità di accedere all’esperienza soggettiva di un animale non è soltanto una questione di sensi. Anche nei casi in cui l’esperienza che alcuni mammiferi hanno del mondo sembra in teoria più facile da intuire o immaginare per gli esseri umani di quanto lo sia quella di un polpo o di un pipistrello, gli esperimenti mostrano comunque profonde differenze nel modo in cui quel mondo viene percepito tramite sensi di cui anche gli umani siano dotati. L’olfatto è notoriamente molto sviluppato in specie che basano sugli odori molta parte dell’esperienza che gli umani ricavano invece dalla vista o dall’udito.
Nel 2007 uno dei più famosi studi della ricercatrice inglese Lucy A. Bates sui mammiferi di grandi dimensioni mostrò che gli elefanti africani hanno una percezione costante della posizione dei membri del gruppo, ricavata non dalla vista ma dall’olfatto. In una serie di esperimenti condotti nel Parco nazionale di Amboseli, una riserva naturale protetta in Kenya, Bates prelevò dal terreno umido l’urina di elefanti che si trovavano in coda a un gruppo in movimento. Viaggiando in auto attraverso la savana, sparse poi quell’urina in punti da cui prevedeva sarebbe passato quello stesso gruppo di elefanti o un altro.
Scoprì che gli elefanti ispezionavano sempre l’urina presente sul terreno, ma se l’urina proveniva da elefanti di un gruppo familiare diverso dal loro la ignoravano. Se proveniva da un membro dello stesso gruppo familiare ma che non stava camminando con loro mostravano più interesse. E se infine l’urina proveniva da un elefante che faceva parte dello stesso gruppo in movimento e camminava dietro di loro, gli elefanti apparivano particolarmente incuriositi e smarriti. In un certo senso, osservò Bates, era come se per loro quell’elefante si fosse teletrasportato o fosse presente in due posti differenti nello stesso momento.
Altri animali molto diversi dai primati sono stati oggetto di ricerche recenti che associano alcune loro attività a facoltà tipiche degli ominini, tra cui la capacità riscontrata nei corvidi di pianificare il futuro. Ma anche la capacità di sognare, per esempio, è stata attribuita nel 2018 a una specie di uccello passeriforme, il diamante mandarino, che mentre dorme muove i muscoli delle corde vocali – e attiva determinate aree del cervello – allo stesso modo di quando canta a voce alta da sveglio: come se sognasse di cantare, ipotizzano i ricercatori.
Uccelli di altre specie hanno mostrato in diversi esperimenti qualità specifiche come la pazienza e l’autocontrollo: in particolare la capacità di rinunciare a piaceri immediati in vista di maggiori guadagni futuri. In un esperimento di uno studio del 2015 la psicologa ed etologa statunitense Irene Pepperberg, nota per i suoi studi sulla cognizione animale, dimostrò insieme ad altre due ricercatrici che i pappagalli cenerini sono in grado di rinunciare a una porzione di cibo in attesa di un cibo a loro più gradito. Le ricercatrici notarono anche alcuni comportamenti particolari dei pappagalli durante l’attesa della ricompensa, come per esempio lisciarsi le piume o, come capita di vedere anche nei bambini, rovesciare la scodella con la prima porzione di cibo a loro servita.
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Le scoperte più recenti sulle abilità degli animali stanno contribuendo a modificare il modo in cui gli esseri umani li hanno considerati nel corso dei secoli: qualcosa di profondamente diverso dagli umani, eppure oggetto di continuo confronto. Tradizionalmente, come scrive nel libro Filosofia dell’animalità il docente di filosofia del linguaggio Felice Cimatti, ogni definizione dell’essere animale è «una definizione in negativo rispetto alla definizione dell’umano». Gli animali sono esseri viventi che, a seconda dei casi, presentano o mancano di caratteristiche a noi note: pollice opponibile, linguaggio, ragione o altre, di volta in volta.
In questo senso gli animali rappresentano un’unica sterminata categoria di cui non sappiamo davvero niente, a parte il loro non essere umani: una categoria che raccoglie tutto «in un unico enorme e confuso sacco in cui troviamo vermi e balene, prioni e cavalli, galline e scimpanzé», scrive Cimatti. E quando si parla di animali, in realtà è di tutt’altro che si parla: di come pensiamo che siano le loro vite, le loro emozioni, la loro mente. «L’animale che conosciamo, e forse l’unico che possiamo conoscere, è la somma di quanto non riconosciamo come umano»: ma un animale ideale di questo tipo non esiste, «perché nessun vivente riunisce in sé tutti gli altri».
Secondo Cimatti non ha molto senso occuparsi di esseri viventi soltanto per chiedersi se hanno o non hanno determinate caratteristiche come il linguaggio. E chiedersi se un castoro abbia o non abbia qualcosa di un altro animale è un po’ come chiedersi se l’Homo sapiens abbia o non abbia le piume o le branchie. Questo approccio, presente tanto nella filosofia quanto nella scienza, rende complicato farsi un’idea di cosa gli animali siano e di cosa siano o non siano in grado di fare. Di volta in volta si ipotizza che siano “quasi” come noi, prendendo in considerazione emozioni, mente o capacità di ragionamento, ma non ci si mette mai d’accordo su come e dove tracciare il confine. E questa incapacità, che influenza a sua volta anche il modo in cui riflettiamo sui nostri stessi limiti, genera frustrazione: perché inevitabilmente, come scrive Cimatti nel libro A come animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, «sappiamo molto più delle galassie distanti anni luce che dei desideri di un pesce».
Gli esseri umani hanno tradizionalmente desunto la loro superiorità intellettiva a partire dal loro predominio su altre specie: il fatto che siano in grado di allevarle o tenerle in cattività, e non sia vero il contrario. Secondo la filosofia classica greca gli umani sono i soli esseri dotati di ragione (“λόγος”): cosa che non ha tuttavia evitato guerre, genocidi e devastazioni all’interno della specie umana, o la totale estinzione di altre specie, e che anzi ha in una certa misura permesso e favorito tutti questi eventi. «Un progetto che si basa esattamente sulla separazione, nell’umano, della componente razionale da quella vitale e animale», scrive Cimatti, non può che produrre esclusione, tracciare costantemente un confine tra chi rientra nell’umanità e chi ne è escluso: a partire dagli animali.
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Per una lunga parte del Novecento l’attitudine a rintracciare negli animali abilità umane è rimasta sostanzialmente estranea agli approcci scientifici più ortodossi, pesantemente influenzati dalla figura dello psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner, uno dei maggiori esponenti del comportamentismo (lo studio scientifico degli aspetti esteriori, direttamente osservabili e misurabili, del comportamento). Tramite rinforzi positivi come le ricompense di cibo e rinforzi negativi come le scosse elettriche, Skinner dimostrò di poter modificare il comportamento dei ratti, per esempio. Ma questo approccio fu in seguito contestato da altri psicologi, perché scoraggiava lo studio di altri processi non facilmente spiegabili soltanto in termini di apprendimento skinneriano.
Quando negli anni Sessanta la famosa etologa inglese Jane Goodall cominciò a studiare gli scimpanzé in Tanzania la sua pratica di dare nomi ai singoli scimpanzé anziché numerarli, come invece era abitudine all’epoca, fu inizialmente considerata non scientifica, perché rischiava di favorire similitudini e associazioni con gli umani. «Non puoi condividere la tua vita con un cane, come facevo io a Bournemouth, o con un gatto, e non sapere perfettamente che gli animali hanno personalità, menti e sentimenti», disse in seguito Goodall, sostenendo che anche gli scienziati lo sapessero «ma poiché non potevano provarlo, non ne volevano parlare».
In seguito l’approccio di Goodall diventò popolare, e oggi è molto comune parlare di animali utilizzando nozioni come mente, emozioni e coscienza. Skinner è considerato perlopiù un modello negativo di riferimento. Nel suo libro del 2016 Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? l’etologo e primatologo olandese Frans de Waal cita un esperimento del 1955 durante il quale un gruppo di scienziati comportamentisti in un centro di ricerca sui primati in Florida, applicando i metodi di Skinner con i ratti, tentò di addestrare gli scimpanzé privandoli del cibo, in un tentativo fallimentare durato due anni.
Il direttore del centro e la maggior parte del personale disapprovarono i lunghi periodi di digiuno imposti dagli scienziati agli scimpanzé, e non mostrarono alcun interesse per gli obiettivi della ricerca. A un certo punto circolò l’ipotesi che nutrissero gli scimpanzé di nascosto: gli scienziati, sentendosi sgraditi e non apprezzati, lasciarono il centro e abbandonarono l’esperimento perché, come disse in seguito Skinner, «colleghi dal cuore tenero vanificarono i [loro] sforzi per ridurre gli scimpanzé a uno stato di privazione soddisfacente». È difficile immaginare un esempio più chiaro «di come l’arroganza della ragione porti alla crudeltà», ha scritto di recente sul Guardian lo scrittore e critico statunitense Adam Kirsch, commentando l’esperimento raccontato da De Waal.
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A partire dagli anni Ottanta la caratteristica distintiva degli esseri umani è stata individuata da molti psicologi e studiosi di scienze cognitive nella capacità di attribuire credenze, intenzioni, desideri ed emozioni a sé stessi e alle altre persone: ciò che in ambito accademico viene solitamente definita “teoria della mente”. L’esperimento classico utilizzato in psicologia per verificare lo sviluppo di questa capacità è il cosiddetto test della falsa credenza (o test di Sally-Anne), descritto tra gli altri dal giornalista scientifico inglese Philip Ball nel libro The Book of Minds: Understanding Ourselves and Other Beings, From Animals to Aliens.
Il test prevede di mostrare al soggetto una scena di finzione in cui sono presenti due persone, Sally e Anne, che hanno rispettivamente una cesta e una scatola. Sally esce di scena dopo aver riposto nella sua cesta e coperto con un panno una palla. Mentre Sally è assente, Anne prende la palla dalla cesta e la nasconde nella sua scatola. A quel punto Sally rientra in scena con l’intenzione di giocare con la palla, e l’esaminatore chiede al soggetto dove si aspetta che Sally cercherà la palla, se nella cesta o nella scatola. Indicare come risposta la cesta e non la scatola è considerata una prova della capacità di attribuire ad altre persone credenze diverse dalle proprie: capacità che negli esseri umani comincia a emergere più o meno a partire dai quattro anni, mentre prima di quell’età i bambini di solito presumono invece che Sally sappia dove è stata spostata la palla.
La ragione del successo della teoria della mente tra molti scienziati risiede nel fatto che è servita a tracciare per lungo tempo un confine tra umano e non umano, dal momento che nessun animale ha dimostrato in modo chiaro e inequivocabile di possedere questa capacità. In recenti tentativi citati da Ball di replicare il test con diversi primati, alcune prove che scimpanzé e bonobo siano in grado di superarlo sono state considerate ambigue. Visto che gli animali non parlano, i ricercatori utilizzavano infatti come misura delle aspettative dei primati i loro movimenti oculari: una risposta facile da fraintendere.
Se anche si scoprisse che altre specie possiedono una teoria della mente, ha scritto Kirsch sul Guardian, probabilmente questo non metterebbe comunque in discussione una superiorità, considerata ovvia, dell’intelligenza umana su qualsiasi altra. Finché creazioni tipicamente umane, dalle piramidi ai missili balistici intercontinentali, saranno considerate una misura dell’intelligenza, è ovvio che gli esseri umani resteranno sempre in cima alla scala. «Ma abbiamo ragione, in primo luogo, a pensare all’intelligenza come una scala?», si è chiesto Kirsch.
Pensatori come Ball, De Waal, Godfrey-Smith e altri suggeriscono che il modo più appropriato di parlare di intelligenza degli animali sia non stabilire gerarchie e considerare ciascuna delle loro menti uno degli innumerevoli modi di comprendere il mondo e farne esperienza: qualcosa che potremmo cioè non essere in grado di immaginare. Nel cercare di definire lo spazio di tutte le menti possibili, secondo Ball, «attualmente non siamo in una posizione migliore di quella degli astronomi che prima di Copernico misero la Terra al centro dell’Universo e disposero tutto il resto in relazione a essa». E finché non saremo in grado di comprendere quali tipi di menti siano possibili, definire quella umana come standard di eccellenza è sostanzialmente un atto di arroganza.
Questo approccio tradizionale, secondo Kirsch, è peraltro all’origine di una sorta di «claustrofobia metafisica»: la sensazione che un Universo privo di menti simili alla nostra sia insopportabilmente piccolo. Che è anche la ragione per cui fin da tempi preistorici gli umani hanno attribuito altre intelligenze a svariate creature mitologiche, pari o superiori a loro per bontà, saggezza o altre qualità. Il bisogno di questo tipo di compagnia nell’Universo non è mai scomparso, ma lo spazio delle menti possibili di cui scrive Ball è stato perlopiù riempito cercando altre intelligenze fuori dal pianeta, o più recentemente nelle evoluzioni, sia reali che fantascientifiche, dell’intelligenza artificiale.
Il crescente interesse per le menti degli animali, ha scritto Kirsch, può essere considerato un tentativo di riempire quel vuoto metafisico cercando negli spazi a noi più vicini, popolati da esseri che abbiamo sempre considerato inferiori a noi per intelligenza o rispetto a particolari abilità. E questo nuovo approccio potrebbe «aiutarci a fare pace con i nostri limiti».
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