Storia delle televisioni di Silvio Berlusconi
La prima fu una piccola emittente via cavo da cui poi nacquero Canale 5 e l'idea di aggirare la legge per trasmettere su tutto il territorio nazionale
La prima rete televisiva di Silvio Berlusconi fu Telemilano. Era il 1976, Berlusconi la acquistò da Giacomo Properzj, imprenditore e politico del Partito Repubblicano Italiano e poi sindaco di Segrate, e Alceo Moretti, giornalista e politico, anche lui del PRI. Properzj raccontò di aver ceduto la tv per la cifra simbolica di una lira a Berlusconi, che si accollò però anche 18 milioni di debiti che Telemilano aveva soprattutto per affitti non pagati a Edilnord, una società immobiliare dello stesso Berlusconi.
Telemilano trasmetteva da un condominio di Milano 2, il quartiere residenziale fondato da Berlusconi a Segrate. Era una televisione via cavo collegata a 5 mila utenze e che raggiungeva circa 20 mila spettatori. Properzj e Moretti la fondarono nel 1974 dopo che la Corte costituzionale aveva reso possibile creare televisioni private. La Corte si era espressa in seguito alla vicenda di una via cavo piemontese, Telebiella, fondata da un ex regista della Rai, Peppo Sacchi, quando le trasmissioni private erano di fatto illegali per via di un DPR (Decreto del presidente della Repubblica) del 1973.
Nel rispetto di quel decreto il governo, con un decreto del 9 maggio 1973, impose la disattivazione dell’impianto di Telebiella. Sacchi non obbedì, venne denunciato e i cavi di Telebiella vennero scollegati. Iniziò un procedimento legale contro il titolare della rete che venne però interrotto da un pretore, Giuliano Girzi, che espresse dubbi di incostituzionalità (il pretore era un figura dell’ordinamento giudiziario italiano che venne abolita nel 1998, in sostanza un giudice con competenze territoriali limitate). Nel luglio del 1974 la Corte costituzionale dichiarò illegittimi alcuni articoli del DPR che riservavano alla tv di Stato il monopolio televisivo. La riforma della Rai del 1975 autorizzò poi le trasmissioni via cavo e la ripetizione sul territorio nazionale delle reti estere (Svizzera, Telemontecarlo, Koper).
L’acquisto di Telemilano fu la prima operazione imprenditoriale di Berlusconi nel settore dell’editoria e dello spettacolo. Nel 1977 entrò poi nel consiglio di amministrazione del Giornale, quotidiano fondato da Indro Montanelli, e nel 1979 rilevò il teatro Manzoni, celebre teatro milanese che rischiava la chiusura per fallimento.
Nel 1978 poi Berlusconi acquistò il canale 58 di Tv One: Telemilano abbandonò le trasmissioni via cavo e iniziò a trasmettere via etere sul canale 58 UHF (“frequenza ultra alta”). Due anni dopo nacque Canale 5 a cui si affiliarono cinque emittenti del Nord Italia (da qui il nome) e poi cinque del Sud. A Camilla Cederna che l’aveva intervistato nel 1977 Berlusconi aveva spiegato: «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni, la mia sarà una tv ottimista».
Il primo successo televisivo Berlusconi lo ottenne convincendo Mike Bongiorno a lasciare la Rai e a impegnarsi con Canale 5. Bongiorno all’epoca era famosissimo: Rischiatutto, il programma che aveva condotto sulla Rai negli anni Settanta, aveva avuto una media di 21 milioni di telespettatori. Anni dopo raccontò che Berlusconi gli offrì 600 milioni di lire all’anno mentre la Rai lo pagava due milioni a puntata per un totale di 26 puntate all’anno. Dopo Bongiorno arrivarono Claudio Lippi, Claudio Cecchetto, i Gatti di Vicolo Miracoli e molti altri.
In Italia in quel periodo le televisioni private non potevano trasmettere in diretta su tutto il territorio nazionale. Nel 1979 nacque l’idea di aggirare questo divieto con il cosiddetto “pizzone”, cioè una cassetta registrata che veniva spedita a 50 emittenti in tutta Italia che mandavano così in contemporanea gli stessi programmi e gli stessi spot senza che però fossero tecnicamente in diretta. L’idea portò molti soldi nelle casse di Canale 5 e soprattutto di Publitalia, la concessionaria pubblicitaria fondata nel 1980 con Marcello Dell’Utri. Molti inserzionisti pubblicitari che rimanevano esclusi da Carosello, cioè il programma in cui la Rai concentrava le pubblicità, aderirono all’iniziativa di Canale 5.
Ennio Doris, amico e socio di Berlusconi e fondatore della banca Mediolanum, raccontò: «Molti anni fa ad Arcore, Berlusconi e Dell’Utri accoglievano gli inserzionisti ai quali si dovevano vendere gli spazi pubblicitari e tra di loro scommettevano su chi era più bravo a fare i complimenti. Ma con un’unica regola vincolante: il complimento doveva essere fatto immediatamente, alla presentazione, in pochi secondi, e doveva essere sincero, cioè doveva essere fondato su una reale qualità della persona alla quale lo si rivolgeva. Berlusconi era imbattibile. Trovava in pochissimi secondi un pregio, una capacità, un dettaglio positivo, un punto di forza in ciascuno». In quel periodo nacque anche lo slogan musicale divenuto poi celebre: «Corri a casa in tutta fretta c’è il biscione che ti aspetta». Il biscione era il simbolo di Canale 5.
Alla fine del 1980 Canale 5 acquistò i diritti del “Mundialito”, torneo calcistico tra le nazionali vincitrici di almeno una edizione del campionato del mondo che si svolse a Montevideo, in Uruguay. L’avvenimento fece un certo scalpore perché era la prima volta che un evento sportivo veniva sottratto al controllo della Rai. Seguì quindi una difficile trattativa, Canale 5 cedette i diritti alla Rai in cambio però di poter trasmettere le partite, tranne la finale, in diretta in Lombardia e in differita nelle altre regioni.
Nel 1982 Berlusconi acquistò Italia 1 dall’editore Edilio Rusconi e due anni più tardi Rete 4 da un altro editore, Arnoldo Mondadori.
Negli anni Ottanta gli ascolti delle televisioni di Berlusconi crebbero progressivamente. Alcune serie acquistate negli Stati Uniti come Dallas prima e Dynasty poi ebbero enorme successo. Moltissimi artisti lasciarono la Rai e accettarono proposte dalle tre reti di proprietà di Berlusconi.
Tra il 13 e il 16 ottobre del 1984 Canale 5, Rete 4 e Italia 1 vennero oscurate dai pretori di Roma, Torino e Pescara perché avevano illegittimamente trasmesso su tutto il territorio nazionale. I pretori, Giuseppe Casalbore di Torino, Eugenio Bettiol di Roma e Nicola Trifuoggi di Pescara, avevano agito dopo un esposto presentato dall’Associazione nazionale teleradio indipendenti (ANTI). Secondo i pretori la diffusione simultanea attraverso videocassette di programmi in tutta Italia violava il DPR del 1973 che puniva chi «stabilisce o esercita un impianto di telecomunicazioni senza aver prima ottenuto la relativa concessione o l’autorizzazione».
Berlusconi aveva l’appoggio di Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano e in quegli anni presidente del Consiglio. Era suo amico personale ma soprattutto era un suo sostenitore, sostegno che poi divenne sempre più evidente negli anni successivi. Craxi era in visita ufficiale a Londra quando i pretori oscurarono le reti di Berlusconi. Subito dopo averlo saputo convocò un Consiglio dei ministri per il giorno del suo rientro, il sabato successivo. Disse Craxi ai giornalisti: «Mi ha dato un certo fastidio, come utente televisivo, vedere quegli spazi neri». Walter Veltroni, allora responsabile del Partito Comunista Italiano per l’informazione, disse: «Ci sono poi anche le abitudini degli utenti, consolidate in anni di utenza televisiva, che non possono essere ignorate. Non è con il black-out che si risolvono i problemi del mondo televisivo».
Il Consiglio dei ministri approvò un decreto che legalizzava in via provvisoria la cosiddetta “interconnessione funzionale”, cioè il metodo della cassetta registrata mandata alle varie emittenti. Il decreto avrebbe dovuto essere convertito in legge entro 60 giorni, ma non superò l’esame di costituzionalità della Camera dei deputati. A opporsi fu soprattutto la Democrazia Cristiana di Ciriaco De Mita, per certi versi un rivale politico di Craxi nonostante il suo partito fosse al governo insieme al PSI.
Dopo la bocciatura della Camera i pretori minacciarono una nuova sospensione delle trasmissioni. Rispose la stessa presidenza del Consiglio con un comunicato molto duro. Il 6 dicembre, dopo aver fatto un accordo con la Democrazia Cristiana, venne varato il “decreto Berlusconi bis”, detto anche “Berlusconi-Agnes” (Biagio Agnes era il direttore generale della Rai). Il decreto, oltre a legalizzare il “pizzone”, aumentava il potere dello stesso direttore generale della Rai. Nel decreto venne scritto che era valido solo per sei mesi, «sino all’approvazione della legge generale sul sistema radiotelevisivo».
Ma la legge non fu fatta e venne così varato un terzo decreto, il “Berlusconi ter”, che concesse una proroga fino a fine anno. La proroga venne poi estesa a tempo indeterminato.
Di proroga in proroga si arrivò a una legge generale solo nel 1990, la cosiddetta “legge Mammì”. Viene chiamata così perché fu scritta dal ministro delle Poste e delle telecomunicazioni Oscar Mammì, esponente del Partito Repubblicano Italiano. Nella sua formulazione iniziale la legge citava due articoli della Costituzione, il 21 e il 41, cioè la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di iniziativa economica.
La legge si attenne a quello che era lo stato di fatto, sancì l’esistenza di un sistema televisivo misto a carattere pubblico e privato, di fatto un duopolio. Inoltre riconobbe il diritto dei privati ad accedere alle frequenze su scala nazionale, ma solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione dallo Stato. Vennero istituiti il Garante per la radiodiffusione e l’editoria e il Registro nazionale delle imprese radiotelevisive. Furono fissati per la prima volta limiti sulla pubblicità, che non poteva superare il 4 per cento dell’orario settimanale di programmazione e il 12 per cento di ogni ora per la tv pubblica (che ha una fonte di finanziamento nel canone), mentre per i concessionari privati il limite era stato fissato al 15 per cento dell’orario giornaliero e al 18 per cento di ogni ora. La legge Mammì stabilì anche per la prima volta una garanzia per la concorrenza. Dice il primo comma dell’articolo 15:
Al fine di evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi è fatto divieto di essere titolari:
a) di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura annua abbia superato nell’anno solare precedente il 16 per cento della tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia;
b) di più di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura superi l’8 per cento della tiratura complessiva dei giornali in Italia;
c) di più di due concessioni per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b.
Grazie alla legge Mammì, il 13 gennaio 1992 cominciarono le trasmissioni del Tg5, allora diretto da Enrico Mentana. Nel gennaio dell’anno precedente, in concomitanza con la guerra in Iraq, era nato Studio Aperto, su Italia 1, diretto da Emilio Fede, mentre il Tg4 aveva iniziato le trasmissioni nel luglio del 1991, diretto da Edvige Bernasconi.
Dopo l’approvazione della legge Mammì Berlusconi cedette le sue quote del Giornale al fratello Paolo. La proprietà del quotidiano restò così in famiglia, anche se formalmente non era più proprietà di Silvio Berlusconi.
Dopo che Berlusconi entrò in politica e dopo la sua vittoria alle elezioni del marzo 1994, in Italia si iniziò a parlare di conflitto di interessi. In sostanza, le opposizioni di sinistra contestavano il fatto che un politico, tantomeno un presidente del Consiglio, potesse essere proprietario di emittenti televisive, visto che nel suo ruolo avrebbe avuto già un’ampia influenza sulla tv pubblica. Fu lo stesso Berlusconi nel 1994 a voler presentare una legge che venne approvata dalla Camera ma mai dal Senato, perché il governo cadde nel 1996 e furono indette elezioni anticipate.
Il 22 aprile del 1998 la Camera approvò una legge che conteneva il divieto ai membri del governo di possedere azioni di società quotate in borsa. Il testo arrivò in Senato 14 mesi dopo e lì restò fermo soprattutto per iniziativa del gruppo politico guidato da Clemente Mastella, l’UDR (Unione democratica per la Repubblica), che propose di estendere il vincolo oltre che ai membri del governo anche al capo dell’opposizione. Nel 2001, quando al governo c’era di nuovo Berlusconi, il ministro Franco Frattini preparò un testo di legge che fu approvato dalla Camera. L’opposizione per protesta abbandonò l’aula, ma la legge fu approvata in via definitiva nel 2004.
La legge stabilì che i titolari di cariche pubbliche non possono «esercitare compiti di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale, partendo quindi dalle aziende individuali; ricoprire cariche o uffici pubblici diversi dal mandato parlamentare; cariche o uffici in entità di diritto pubblico; esercitare qualunque tipo di impiego o lavoro pubblico o privato, anche autonomo; esercitare attività professionali in materie connesse con la carica di governo».
Di fatto la legge non cambiava nulla: impediva semplicemente a Silvio Berlusconi di avere cariche operative ma restava di fatto proprietario delle sue aziende e la sua influenza sul sistema radiotelevisivo rimaneva intatta.
Quanto alla questione strettamente radiotelevisiva, la Corte costituzionale dichiarò già nel 1994 la legge Mammì «incoerente e irragionevole», non adatta a mantenere il pluralismo. Nel 1995 fu anche indetto un referendum per l’abrogazione di alcuni punti della legge. Il referendum chiedeva l’abrogazione delle norme che consentono di essere titolari di più di una concessione televisiva nazionale, ma la proposta fu respinta con il 56,9 per cento dei voti.
Nel 1997 poi fu approvata la “legge Maccanico”, dal nome del ministro delle Poste e delle telecomunicazioni del governo Prodi, che vietava a uno stesso soggetto di essere titolare di concessioni o autorizzazioni per trasmettere più del 20 per cento delle reti televisive analogiche in ambito nazionale. Nel 1998 fu approvato il Piano nazionale delle frequenze dall’Autorità per le garanzie delle comunicazioni, l’Agcom. Furono rilasciate sette concessioni nazionali a Canale 5, Italia 1, TELE+ bianco (l’emittente satellitare da cui poi sarebbe nata Sky), Telemontecarlo, Tmc 2, Europa 7 ed Elefante Telemarket. Restava fuori Rete 4 che però grazie a una serie di proroghe continuò a trasmettere fino all’emanazione della “legge Gasparri”.
La situazione da allora è rimasta invariata. Le tre reti sono ancora controllate da Mediaset, la società fondata da Silvio Berlusconi nel 1993. L’attuale presidente è lo storico amico di Berlusconi, Fedele Confalonieri. L’amministratore delegato è il suo secondogenito, Piersilvio Berlusconi.