A che punto siamo con i tentativi di acquistare la rete di Tim
KKR e Cassa Depositi e Prestiti hanno presentato altre due offerte venerdì, ma sembrano ancora troppo basse
Venerdì la società di telecomunicazioni Tim ha ricevuto due nuove offerte per l’acquisto della sua rete infrastrutturale: una da parte del fondo statunitense KKR e una presentata congiuntamente da Cassa Depositi e Prestiti – ossia l’istituto finanziario controllato dal ministero dell’Economia – e dal fondo australiano Macquarie. La società si è impegnata a valutarle nel corso della prossima assemblea dei soci, ma secondo indiscrezioni giornalistiche Vivendi, gruppo di telecomunicazioni francese e azionista di maggioranza di Tim, avrebbe già giudicato queste offerte come «inconsistenti» e sostanzialmente uguali ad altre rifiutate in passato, proprio degli stessi offerenti.
Da circa due anni l’azienda sta ricevendo proposte di acquisto della sua rete, ma finora sono sempre state considerate insufficienti, nonostante sia opinione diffusa che Tim abbia bisogno di venderla per ripianare i suoi debiti. Il tutto è reso ancora più complicato dal fatto che il governo è parte attiva di quello che è chiamato in gergo lo “scorporo della rete”, un processo ritenuto necessario da tempo che prevederebbe la separazione tra le infrastrutture di telecomunicazioni di interesse strategico nazionale e l’azienda privata che oggi le possiede, ossia Tim.
Da anni è al centro di un complesso negoziato perché la rete di telecomunicazioni di proprietà di Tim ha un notevole interesse nazionale. Semplificando molto, è tutto l’insieme di strutture che ci permettono di parlare al telefono e di usare la connessione internet. È quindi essenziale per il funzionamento dei servizi e dell’economia, e per la vita quotidiana di tutta Italia, e include vari tipi di reti, come quella mobile, quella per la telefonia fissa, la fibra ottica e così via. Gran parte della rete italiana di telecomunicazioni è di proprietà di Tim, che è un’azienda privata solo dal 1997: prima di allora era pubblica, si chiamava Telecom Italia e arrivò a quotarsi in borsa dopo la decisione del governo di Romano Prodi di privatizzarla, sulla scia di una tendenza internazionale di privatizzazione del settore delle telecomunicazioni.
Le ultime offerte presentate a Tim puntano all’acquisto di NetCo, una nuova società che includerà tutta l’infrastruttura di rete di Tim, le attività di FiberCop (azienda che si occupa dello sviluppo e della posa dei collegamenti in fibra ottica, di cui Tim è la principale azionista e di cui KKR ha già il 37,5 per cento delle quote) e una partecipazione in Sparkle (società che gestisce infrastrutture di rete internazionali, di proprietà di Tim). KKR, Cassa Depositi e Prestiti e Macquarie avevano già fatto varie offerte a Tim negli scorsi mesi, ma sono state rifiutate perché ritenute insufficienti. Tim non ha specificato l’entità delle nuove offerte: secondo il Sole 24 Ore quella di KKR dovrebbe valere circa 23 miliardi di euro (2 miliardi più alta della precedente) e quella di Cassa Depositi e Prestiti e Macquarie sempre 19,3 miliardi (uguale alla precedente ma con condizioni contrattuali migliori).
L’operazione è molto complicata innanzitutto per una questione di soldi: il gruppo francese Vivendi – ossia l’azionista di maggioranza di Tim – stima che tutta la rete valga circa 30 miliardi. Finora le offerte sono state nettamente inferiori, intorno ai 20 miliardi. Secondo le ricostruzioni uscite sui giornali, è probabile che anche in questo caso le offerte non saranno accettate soprattutto perché Vivendi non le ritiene congrue.
Gli offerenti hanno entrambi interesse ad aggiudicarsi la rete di Tim perché sono già in qualche modo coinvolti nelle telecomunicazioni italiane.
KKR è un fondo d’investimento statunitense che esiste dalla metà degli anni Settanta e si è specializzato nell’acquisto di società, solitamente molto indebitate, tramite prestiti forniti dalle banche, che ricevono come garanzia i beni della stessa azienda oggetto dell’operazione finanziaria. KKR è azionista per il 37,5 per cento di FiberCop, una delle due società che stanno costruendo la rete di fibra ottica in Italia e che è di Tim per quasi il 60 per cento.
Cassa Depositi e Prestiti possiede invece il 60 per cento di Open Fiber, la principale rivale di FiberCop. Un acquisto di quest’ultima porterebbe molto probabilmente quindi a una fusione delle due società, per creare un’unica infrastruttura di rete italiana, che tornerebbe quindi sotto il controllo del parte del governo, tramite appunto Cassa Depositi e Prestiti.
Oltre al mancato accordo sul prezzo, a rendere complessa la trattativa c’è tutta una serie di questioni legate alla concorrenza, che emergerebbero soprattutto se fosse accettata l’offerta di Cassa Depositi e Prestiti. La prospettiva di una eventuale fusione di Open Fiber e FiberCop infatti richiederebbe con ogni probabilità una pronuncia del Commissario europeo per la concorrenza, per valutare che non ci siano violazioni delle regole antitrust: questo allungherebbe molto i tempi, mentre l’offerta di KKR sarebbe efficace da subito.
Tutta questa intricata vicenda societaria si inserisce nel contesto dei tentativi di molti governi di ottenere nuovamente un controllo pubblico in un settore molto strategico per il paese: dalla rete passano tutte le comunicazioni, essenziali per la maggior parte delle attività; inoltre un controllo pubblico potrebbe garantire che l’arrivo dell’infrastruttura nelle zone che oggi non sono coperte o che sono servite male.
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Negli anni ci sono stati quindi molti tentativi da parte dei governi di “scorporare” la rete dal gruppo Tim. Uno degli ultimi ci fu quando era presidente del Consiglio Matteo Renzi, il cui governo promosse la creazione della società Open Fiber, che avrebbe dovuto imporsi come concorrente delle infrastrutture di Tim nell’ambito della fibra ottica. L’obiettivo era poi di unire le reti con un progetto di “rete unica nazionale”, cosa su cui hanno spinto anche il secondo governo di Giuseppe Conte e il governo di Mario Draghi. Oggi il governo di Giorgia Meloni punta intanto a ottenere controllo della rete di Tim tramite l’offerta di Cassa Depositi e Prestiti, mentre il progetto di rete unica, che è ben più ambizioso, è destinato eventualmente a un secondo momento.
Sullo sfondo ci sono poi le vicende finanziarie del gruppo Tim. Come ricorda l’Economist il gruppo viene da una gestione piuttosto altalenante e discontinua: si sono succeduti cinque diversi amministratori delegati in sette anni e ha accumulato un debito netto di circa 25 miliardi di euro, diventando di fatto la più indebitata società europea di telecomunicazioni. Nel piano industriale dell’attuale amministratore delegato Pietro Labriola ci siano vari scenari alternativi per il rilancio dell’azienda, ma molti ritengono che la strada migliore sia proprio la vendita della rete, che consentirebbe di ripianare in buona parte i conti. In un’intervista al Corriere della Sera lo stesso Labriola ha ammesso che «per Tim la riduzione del debito è un tema soprattutto industriale» e che se il debito non si riducesse anche tramite la vendita di alcuni asset, come la rete, «sarebbe di sicuro un’azienda con meno opzioni sul tavolo».