Le tante facce del Manchester City
Per la seconda volta in tre anni, cambiando molto tra una stagione e l’altra, la squadra modellata da Pep Guardiola è a un passo dal vincere tutto
di Pietro Cabrio
Alla fine della stagione 2020/2021 l’attaccante argentino Sergio Aguero giocò la sua 275ª e ultima partita con il Manchester City. Nei dieci anni passati in squadra, Aguero era diventato il giocatore più simbolico e determinante nelle vittorie con cui il City aveva ribaltato gli equilibri del campionato inglese e della sua città, prendendo il posto del Manchester United come squadra di riferimento grazie agli enormi investimenti della sua proprietà, l’Abu Dhabi United Group.
Alla fine dell’ultima partita di Aguero a Manchester, il suo allenatore Pep Guardiola venne intervistato e ripetè commosso: «Non possiamo sostituirlo, non possiamo». Poi Aguero è stato rimpiazzato dal centravanti norvegese Erling Haaland, il cui acquisto un anno fa ha reso il City un squadra completa e forse definitiva. Haaland ha giocato una stagione da record in cui è stato capace di segnare 52 gol in 52 partite, ma oltre ai gol e al dominio fisico che dimostra ogni volta che gioca, ha permesso a una squadra già vincente di diventare la miglior espressione di sé stessa: se sabato sera dovesse battere l’Inter in finale di Champions League diventerà l’ottava squadra nella storia del calcio europeo ad aver vinto le tre più importanti competizioni a sua disposizione, il cosiddetto treble o triplete.
Già nel 2021 il City allenato da Guardiola aveva avuto la possibilità di vincere tutto in una stagione, ma perse la finale di Champions League, a cui era arrivato facendo fronte a molte difficoltà. In quella stagione aveva giocato di fatto senza centravanti di ruolo. Per Guardiola non era una novità, visti i successi ottenuti a Barcellona con il cosiddetto “falso nove”, ruolo che ideò abbassando la posizione di Lionel Messi per dargli la possibilità di puntare le difese prendendo velocità e liberando spazi per gli inserimenti di esterni e trequartisti.
Al City però non si era trattato di una scelta tecnica, ma di una necessità. Tra infortuni e positività al coronavirus, i due veri attaccanti di ruolo, Aguero e Gabriel Jesus, erano riusciti a giocare soltanto poche partite senza mai entrare veramente in forma. Guardiola allenò quindi la squadra a fare a meno delle punte, in un campionato inglese che fino a lì non era mai stato vinto senza, e in contrasto con tutte le sue principali rivali, che invece si affidavano molto ai loro centravanti (il Tottenham con Harry Kane, il Liverpool con Firmino, lo United con Cavani, l’Arsenal con Aubameyang).
Nel ruolo di centravanti il City usò sei giocatori diversi, ma nessun centravanti di ruolo. Riyad Mahrez, Phil Foden, Bernardo Silva, Ferran Torres, Kevin De Bruyne e Ilkay Gundogan si alternarono tra di loro. Gundogan — non il più offensivo dei sei — fu il miglior marcatore della squadra con 17 gol e gli altri cinque arrivarono a segnarne almeno dieci a testa. In questo modo, anche se nella classifica dei marcatori della Premier League Gundogan era soltanto il decimo giocatore, il City vinse il campionato con 13 punti di distacco dalla seconda.
Senza punte il gioco del City cambiò, pur mantenendo sempre lo stesso sistema in cui tutti i giocatori gestiscono spazi e movimenti in modo da essere sempre collegati l’uno con l’altro. L’intensità del pressing offensivo diminuì leggermente, per esempio, e ci si concentrò di più sull’interruzione delle linee di passaggio avversarie, per poi presentarsi già in attacco con varie possibilità a disposizione.
Anche senza centravanti, tuttavia, il City alla fine pagò il suo sbilanciamento offensivo. Nella finale di Champions League contro il Chelsea fu messo in grossa difficoltà dagli avversari, che approfittarono dello spazio concesso dietro la difesa, la cui linea rimaneva alta per sostenere il pressing e il recupero palla nella metà campo avversaria. E proprio in quel modo, con un lancio lungo a sorpassare la difesa schierata alta, il Chelsea segnò il gol che decise la partita e non fece vincere al City la sua prima Champions League.
A distanza di due anni da quella finale, il City ha trovato in Haaland un punto di riferimento in attacco in grado di può procurarsi occasioni da gol in qualsiasi momento. Ha così potuto bilanciare meglio i titolari e mettere insieme una vera difesa. Negli anni passati Guardiola aveva spesso usato centrocampisti riadattati a difensori centrali e terzini molto offensivi: il City di quest’anno gioca invece con con tre o quattro difensori di ruolo e a seconda dell’avversario fa impostare il gioco a uno o a entrambi i centrali, con un centrocampista che all’occorrenza viene messo davanti al centravanti avversario per isolarlo dal resto dei compagni.
Con la ritrovata solidità difensiva e un attaccante che segna un gol a partita, il City è diventata una squadra senza apparenti punti deboli. È maestra nel possesso palla, anche grazie alla grande qualità di tutti i suoi giocatori, brava a occupare gli spazi vuoti del campo e a smarcarsi dagli avversari. Continua a fare molto pressing e, anche se con maggior prudenza, in Champions League è stata la miglior squadra per numero di possessi recuperati e per numero di gol nati da recuperi nella metà campo avversaria.
Talvolta però qualcuno riesce ancora a sorprendere Guardiola e il suo enorme staff tecnico fatto di otto assistenti allenatori, senza contare decine di altri dipendenti che raccolgono e analizzano dati e che preparano in modo specifico alcune aree. È successo di recente in Premier League con il Brentford e il Brighton di Roberto De Zerbi. Il City rimane infatti una squadra che imposta l’azione velocemente facendo uscire gradualmente la palla dalla difesa, la cui linea, se paragonata a quelle delle altre grandi squadre europee, rimane sempre più alta del normale in campo, concedendo spazi dietro di sé che possono essere sfruttati da chi sa approfittarne.
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