Dobbiamo parlare di “povertà alimentare”
Dopo la pandemia in Italia ci sono sempre più persone che non riescono a mangiare in maniera adeguata, specialmente ai margini delle grandi città
di Angelo Mastrandrea
Domenico Lentini è un uomo siciliano di 61 anni nato in una famiglia di dieci figli a Calatafimi, in provincia di Trapani, ed emigrato da giovane a Milano. Fino a qualche anno fa guadagnava bene e mangiava nei migliori ristoranti della città. Nella sua vita ha fatto di tutto: il paracadutista durante il servizio militare, il ballerino in due programmi della Rai con Rita Pavone e il «ragazzo di portineria» all’Hotel Principe di Savoia a Milano, un albergo a cinque stelle frequentato da persone del mondo dell’imprenditoria, della moda, della politica e dello spettacolo. «Mi mandavano a prendere i biglietti alla Scala per Montezemolo e Sgarbi, ho portato i giornali ad Alberto Sordi. Andreotti un giorno mi diede la mano e quando la tolse mi ritrovai 50mila lire», racconta. Di sera cantava nelle discoteche, anche in Svizzera, dice accennando una canzone di Louis Armstrong.
I guai sono cominciati quando per stare con la sua compagna si è trasferito a Brescia e ha aperto una lavanderia, che ha chiuso durante la pandemia. Poi si è separato e ora vive a Corsico, un comune di 35mila abitanti a sud di Milano. Di tanto in tanto fa il giardiniere in una villa e i proprietari, una coppia di anziani che lo trattano come un «figlio di scorta», gli danno in cambio da mangiare e qualche decina di euro. Una volta alla settimana va in piazza Europa a Corsico per ritirare il pacco con pane, pasta, olio, biscotti, merendine e verdure di stagione che i volontari dell’associazione La Speranza gli fanno trovare pronto. Ogni tanto esibisce il suo repertorio di canzoni nelle feste organizzate dall’associazione.
Corsico è uno dei luoghi in Italia in cui dopo la pandemia sono aumentate di più le persone in stato di “povertà alimentare”, vale a dire che non riescono a mangiare un pasto completo dal punto di vista nutrizionale almeno una volta ogni due giorni, come prescrive la FAO (Food and Agriculture Organization) delle Nazioni Unite. Prima della pandemia l’associazione La Speranza riusciva a garantire forniture quotidiane di cibo agli assistiti. Durante i lockdown sono aumentati e ora che l’emergenza è passata sono quasi raddoppiati. L’associazione oggi assiste 1.200 persone e i volontari non riescono a far fronte a tutte le richieste, così i pacchi sono diventati settimanali e le razioni sono state ridotte.
«Chiamano in continuazione nuove persone, spesso sono anziani che chiedono se possiamo portargli la spesa a casa, alle volte siamo costretti a dire di no perché non ce la facciamo più», dice Pina Andrello, una ex volontaria della Caritas che ha fondato l’associazione La Speranza insieme al fratello Franco. In più, l’organizzazione rischia di dover lasciare la sede di piazza Europa entro la fine dell’anno, quando terminerà un progetto per assistere duecento profughi ucraini. «Siamo soli, qui non ci aiuta nessuno e fra qualche mese non avremo i soldi per pagare l’affitto», dice Franco Andrello.
Secondo il rapporto annuale dell’ISTAT nel 2021 due milioni di famiglie erano in condizione di povertà, anche per le conseguenze socioeconomiche della pandemia. La crescita più consistente è stata al Sud, dove le famiglie povere sono passate dall’8,6 per cento del 2019 al 10 per cento del 2021. L’incremento maggiore nel 2020 è stato nelle aree metropolitane, dove i poveri sono aumentati dal 4,8 al 7 per cento della popolazione. Secondo i dati forniti nel 2021 dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), solo il 18,8 per cento degli italiani ha un’alimentazione adeguata e la povertà ne rappresenta una delle cause.
Stando alle stime del 2020, 5,6 milioni di persone in Italia vivono in uno stato di insicurezza alimentare, vale a dire che non riescono a fare la spesa con regolarità o hanno difficoltà ad accedere al cibo perché, ad esempio, non ci sono punti vendita nella zona in cui vivono.
A Milano e provincia c’è il Banco alimentare, un’organizzazione che distribuisce generi alimentari a chi ne ha bisogno recuperando le eccedenze e gli scarti di mercati e supermercati. Nel 2020 ha assistito 126.660 persone, 2,1 milioni in tutta Italia, con un aumento del 40 per cento rispetto all’anno precedente. Nello stesso anno la Caritas ha visto aumentare le richieste di assistenza del 121 per cento e ha consegnato 805 tonnellate di cibo a 34mila persone. Secondo ActionAid, una ong che si occupa di lotta alla povertà, i problemi maggiori sono in alcuni comuni dell’area metropolitana milanese.
«Milano è un esempio virtuoso in Italia, perché ha una rete ampia di associazioni che aiutano chi ha bisogno di cibo e il comune ha politiche molto avanzate e molti progetti per combattere la povertà alimentare, però poi vai a Corsico e trovi il deserto», spiega Roberto Sensi, che ha curato per ActionAid la prima indagine in Italia sul rapporto tra povertà alimentare e Covid. La ricerca è stata fatta intervistando trecento famiglie in difficoltà in quattro comuni della cintura milanese: Baranzate, Cinisello Balsamo, Rozzano e Corsico, appunto. Il 76,85 per cento delle persone sentite ha detto di aver saltato anche più di dieci volte in un mese i pasti perché non aveva da mangiare. Il 20 per cento ha detto di aver perso il lavoro durante la pandemia e anche chi lo ha conservato ha affermato di non riuscire più a coprire le spese.
Sergio è uno di questi. Lavorava con una ditta che montava arredamenti per ufficio, faceva traslochi e piccoli lavori di falegnameria. L’azienda ha chiuso dopo la fine della pandemia perché con lo smart working «nessuno rinnovava più gli uffici e abbiamo perso tutte le commesse». A 56 anni è rimasto disoccupato e ora si arrangia facendo piccoli traslochi e altri lavoretti, ma i guadagni non sono stati sufficienti neppure a pagare l’affitto. Da due mesi è stato sfrattato e dorme nella sua auto, davanti a un parco al confine tra Buccinasco e Corsico. «Ho raccolto la mia vita in venti scatole e sono andato via», dice. In una metà ha messo scarpe e vestiti, nell’altra la sua raccolta di dischi in vinile, di cui va molto orgoglioso ma che non può più ascoltare. Una volta a settimana passa in piazza Europa per ritirare il pacco alimentare. Visto che non può cucinare mangia solo cibo freddo.
Ogni giorno i volontari di La Speranza vanno a prendere le eccedenze e i prodotti in scadenza di otto supermercati della zona, che hanno stipulato un accordo con loro per la consegna di generi alimentari che altrimenti finirebbero al macero. Nel patto ci guadagnano tutti: l’associazione perché recupera il cibo e lo destina a chi non potrebbe permettersi l’acquisto, i distributori perché detraggono dalle tasse l’Iva della merce donata. Lo prevede una legge del 2016 voluta dalla deputata del Partito Democratico, ora in Italia Viva, Maria Chiara Gadda. L’associazione è piccola e molti volontari sono gli stessi utenti, che così si garantiscono un pasto quotidiano.
Concetta, una donna andata via da Palermo per sfuggire a un marito violento che picchiava i loro due figli più piccoli, sostiene che aiutare a preparare i pacchi è un modo per ricambiare il sostegno ricevuto e anche per impiegare il tempo, visto che non ha un lavoro. Arriva alle 8:30, pulisce le verdure, lava le ceste e controlla le scadenze dei prodotti. «In cambio prendo quello che mi serve, è un mutuo aiuto», dice. Ha ottenuto dal comune un alloggio in una casa popolare, ma con quattro figli su cinque a carico e 500 euro del reddito di cittadinanza (che cambierà da gennaio del 2024) non ha alcuna possibilità di entrare in un supermercato e comprare il necessario per mangiare.
«Durante la pandemia la situazione economica è diventata ancora più critica per molti, è venuto meno il reddito da lavori precari (a chiamata, ambulanti, badanti) e sono aumentate le preoccupazioni legate al cibo. In qualche caso il reddito di cittadinanza ha permesso di fare la spesa, anche se a volte basta solo a coprire il costo dell’affitto e il cibo resta spesso in coda alle altre priorità, come il pagamento delle bollette della luce e del gas, il costo della benzina e quello della scuola per chi ha i figli», si legge nella presentazione del rapporto di ActionAid.
È il caso di Tania, che abita in un appartamento di proprietà della madre con il compagno, la figlia sedicenne del primo matrimonio e due bambine di 5 e 7 anni, una delle quali nata con disabilità. Suo marito fa il panettiere, «lavora di notte per 800 euro al mese». Con quei soldi, spiega, «ci paghiamo le bollette e le spese condominiali», e con l’indennità di accompagnamento della figlia «copriamo a malapena le spese mediche». Per questo, conclude, «ci rimane ben poco per mangiare». Anche lei ogni settimana va a ritirare il pacco alimentare preparato dai volontari dell’associazione La Speranza di Corsico.
«Purtroppo il fenomeno dell’insicurezza alimentare è molto più ampio di quello che dicono le statistiche, perché di fronte alle difficoltà molti non si rivolgono alle associazioni ma riducono la quantità o la qualità della spesa, mangiando meno e male», dice Sensi di ActionAid. «Quando arrivi alla richiesta di cibo, le hai già provate tutte», conferma Paola, che ha fatto la parrucchiera nel centro di Corsico fino a quando il negozio in cui era impiegata ha chiuso. Poi ha trovato lavoro come badante di due persone anziane, che però quando è arrivata la pandemia l’hanno mandata a casa per paura del contagio. Ora vive in un appartamento di sua proprietà insieme alla figlia venticinquenne, diplomata al liceo artistico e impiegata in maniera saltuaria in un bar. Paola sostiene che i 500 euro del reddito di cittadinanza non le bastano per fare anche la spesa e per questo ogni settimana prenota il suo pacco alimentare.
Il governo di Giorgia Meloni con la legge di bilancio del 2023 ha introdotto una «Carta risparmio spesa» prepagata di 382,5 euro al mese che consente alle famiglie con ISEE non superiore a 15 mila euro di acquistare i beni di prima necessità. La carta, che è a carico dell’INPS e sostituisce i buoni spesa concessi dai comuni alle persone in difficoltà, non può essere richiesta da chi già percepisce il reddito di cittadinanza o altri sussidi, come l’indennità di disoccupazione (NASPI) o la cassa integrazione. Chi ha più di 65 anni o almeno tre figli a carico può richiedere in alternativa la «Carta acquisti», una prepagata che viene ricaricata dall’INPS con 80 euro ogni due mesi e consente di pagare le spese alimentari in negozi convenzionati, le spese sanitarie e le bollette di luce e gas.
Nella legge di bilancio è stato inserito in via sperimentale per tre anni anche il cosiddetto reddito alimentare, che finanzia i comuni e le associazioni che distribuiscono i pacchi alimentari preparati con il cibo donato dai supermercati. Per questa misura il governo ha stanziato un milione e mezzo di euro nel 2023 e due milioni all’anno dal 2024, che andranno a finanziare progetti presentati dalle dieci città metropolitane italiane: Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Questi soldi si affiancano a quelli del Piano nazionale per la lotta alla povertà del 2021, cofinanziato dall’Unione europea, che ha stanziato un miliardo e 300 milioni di euro fino al 2027 per le regioni del Nord e del Centro Italia, 213 milioni di euro per Abruzzo, Marche e Umbria e due miliardi e mezzo per il Sud e le isole.
Queste misure rischiano però di essere vanificate dall’aumento dell’inflazione, che ha ridotto ulteriormente il potere d’acquisto delle persone già in difficoltà. A maggio del 2022 l’Istat ha rilevato che in Italia sono stati comprati il 5,4 per cento di beni alimentari in meno rispetto al mese precedente, mentre sono cresciuti del 9,2 per cento in un anno gli acquisti nei discount. A Roma l’Osservatorio sull’insicurezza alimentare, un progetto di ricerca del Consorzio universitario per la ricerca socioeconomica e per l’ambiente, ha elaborato una mappa della povertà alimentare nella città metropolitana dalla quale emerge una città spaccata in due dalle disuguaglianze economiche. Nel quadrante nord la povertà alimentare quasi non esiste, mentre la stragrande maggioranza di chi non riesce a mangiare bene e con regolarità vive nella zona orientale della città.
Il sabato pomeriggio, davanti al mercato dell’Esquilino a Roma, c’è un via vai di carrelli della spesa pieni di ogni genere di cibo, soprattutto frutta e verdura. All’orario di chiusura i volontari dell’associazione ReFoodgees fanno il giro dei banchi e raccolgono gli scarti, li portano fuori dove altri volontari li ripuliscono e poi li consegnano alle persone in attesa. L’Esquilino, a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, è uno dei quartieri romani con la più alta percentuale di immigrati e per questo in fila ci sono giovani e anziani originari di vari paesi africani, e donne con il velo, con bambini al seguito.
«Rispecchiano sia il quartiere, che è multietnico, sia il mercato stesso, che vende frutta, verdura e spezie provenienti da tutto il mondo e che si trovano solo qui», dice Viola De Andrade Piroli, una delle fondatrici. Nessuno ha voglia di parlare, qualcuno riempie borse e carrelli per la famiglia, altri sono lì solo per una banana o un trancio di pizza. «Quando siamo nati, sei anni fa, consegnavamo tra i 30 e i 50 chilogrammi di cibo una volta alla settimana, ora siamo arrivati a 1.300 chilogrammi», spiega Piroli. «In questo modo evitiamo di dover smaltire più di una tonnellata di cibo alla settimana, è anche una misura anti-spreco», dice il presidente del mercato, Salvatore Perrotta.
Secondo l’Osservatorio sull’insicurezza alimentare l’accessibilità al cibo è «molto alta» nelle zone in cui il reddito medio è più alto, come il Flaminio e i Parioli, nel nord della città, ed è «alta» nel centro storico, sull’Appia antica e in alcuni quartieri residenziali come Garbatella, Monteverde e Ostiense, nel quadrante meridionale. Invece a Roma est, tra Centocelle, Cinecittà, Torpignattara e Tor Bella Monaca la povertà alimentare è molto elevata ed è difficile anche trovare punti vendita di alimenti freschi a prezzi giusti. È un fenomeno che gli esperti chiamano «food desert», una definizione coniata dal London Department of Health per indicare le aree urbane non servite dal cibo.
«In queste zone critiche gli abitanti dovrebbero più che raddoppiare il loro reddito per permettersi una dieta sana», si legge nel rapporto dell’Osservatorio. «Ci sono aree di Roma in cui è in corso una desertificazione alimentare, perché ci sono pochi negozi e chi può prende l’auto e va a fare la spesa nei centri commerciali», spiega Davide Marino, responsabile dell’Osservatorio e professore di Scienze enogastronomiche all’Università Roma Tre.
Villalba, un quartiere di Guidonia Montecelio, è uno di questi. Guidonia è una cittadina di 90mila abitanti a est di Roma. Qui si sono trasferite molte famiglie che non riuscivano a permettersi un affitto neppure nelle periferie più estreme della capitale. «Purtroppo Guidonia fatica ad accettare di essere diventata una cittadina dormitorio di 90mila abitanti, nei quartieri più vicini a Roma ci sono le case che costano poco, nessun servizio e tanta depressione sociale, che porta gli abitanti a vivere e mangiare male», dice Mauro Giardini, che con la cooperativa CEAS gestisce l’emporio Spééso, un progetto finanziato dalla Regione Lazio dove chi è in difficoltà può andare a prendere quello che gli serve con una tessera a punti che viene ricaricata ogni settimana.
«I servizi sociali del comune ci segnalano le persone in difficoltà, noi facciamo un colloquio, diamo a ogni nucleo familiare un punteggio che tiene conto della situazione economica, del numero dei figli e di eventuali casi di disabilità o malattie, e diamo loro un budget di spesa con il quale possono venire qui e prendere le cose di cui hanno bisogno, anche libri, materiale scolastico, capi di abbigliamento e prodotti per la casa», spiega Giardini. Sugli scaffali accanto ai prodotti non c’è il prezzo ma i punti da scalare dalla tessera. Il cibo viene consegnato da un’altra associazione, Insieme per la pace, che lo recupera dai supermercati della zona, mentre la frutta e la verdura sono fornite da due aziende agricole biologiche. Il requisito minimo è che chi chiede assistenza alimentare abbia un ISEE inferiore ai seimila euro. Sui 10mila abitanti del quartiere, in 755 hanno fatto la tessera di Spééso.