A che punto sono i lavori per il trattato sulla plastica
Nella seconda riunione che si è conclusa a Parigi i paesi del mondo, più che decidere qualcosa, hanno discusso di come decidere
La scorsa settimana a Parigi si è conclusa la seconda riunione del comitato intergovernativo delle Nazioni Unite che ha il compito di gestire i negoziati del trattato per ridurre la presenza della plastica nell’ambiente, uno dei più grandi problemi di inquinamento a livello globale. Le trattative non hanno però portato a molti progressi e hanno mostrato quanto siano ancora forti le divisioni tra i paesi, con i principali produttori di petrolio poco interessati a cambiare le cose e le forti pressioni che arrivano dalle aziende del settore. Dopo giorni di discussioni si è comunque trovato un accordo per proseguire verso la scrittura del trattato, che le Nazioni Unite vorrebbero fare approvare entro la fine del prossimo anno.
La plastica è tra i materiali più diffusi e utilizzati al mondo, ha aperto grandi opportunità nella ricerca, nello sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti e ha migliorato la qualità della vita di milioni di persone. Gli enormi benefici hanno però avuto costi altissimi e il più grande di tutti riguarda l’ambiente: la plastica è talmente diffusa e utilizzata da essere presente praticamente in qualsiasi ecosistema, dalle profondità oceaniche alle vette alpine, diventando un problema sempre più grande e urgente da affrontare, specialmente per il suo corretto smaltimento.
Il trattato cui stanno lavorando i paesi del mondo è visto da molti osservatori come la prima vera occasione per cambiare le cose, regolamentando meglio un settore che si è espanso molto velocemente nell’ultimo secolo, spesso senza un adeguato coordinamento tra le nazioni per lo smaltimento dei rifiuti plastici. Nel marzo dello scorso anno 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per l’adozione di un documento internazionale sulla plastica. Era poi seguito un primo incontro del comitato intergovernativo in Uruguay a novembre, con lavori preparatori per affrontare la seconda sessione da poco terminata a Parigi.
Nei cinque giorni della conferenza si sarebbero dovuti affrontare numerosi problemi legati al modo in cui viene prodotta e smaltita la plastica, ma per i primi tre giorni è stato pressoché impossibile parlare di contenuti. Il dibattito si è mantenuto quasi esclusivamente sulle procedure di voto da utilizzare nella preparazione e nell’approvazione finale del trattato, con una certa insistenza da parte dei paesi che estraggono più petrolio come Brasile e Arabia Saudita, insieme ad alcuni dei principali utilizzatori di plastica come Cina e India. La loro proposta era di introdurre un meccanismo che consentisse ai paesi di avere capacità di veto nelle votazioni, mentre altri paesi proponevano di avere un sistema di approvazione basato su una maggioranza di due terzi.
La contrapposizione è diventata alquanto evidente tra i paesi produttori di petrolio e quelli che fanno parte della “High Ambition Coalition” (HAC), una coalizione internazionale che ha l’ambizioso obiettivo di mettere fine all’inquinamento causato dalla plastica. La coalizione comprende l’Unione Europea, il Canada, l’Australia, il Cile e il Messico, ma non conta tra i propri partecipanti alcuni dei paesi che impiegano più plastica, come Russia, Cina, India e Stati Uniti.
Le trattative sulle modalità di votazione hanno portato a uno stallo, secondo i più critici voluto espressamente dai paesi in cui sono attive le grandi aziende del settore petrolchimico per ostacolare l’avanzamento dei lavori, impedendo progressi nella realizzazione del trattato. Dopo i primi tre giorni, alcuni paesi avevano iniziato a protestare chiedendo che si arrivasse agli argomenti veri e propri, senza impegnare altro tempo sulla decisione delle procedure. Dopo alcune sessioni tese, si era infine deciso di non decidere, arrivando a un compromesso che di fatto lascia irrisolto l’argomento comunque importante di come saranno votate le decisioni.
I ritardi hanno infine lasciato poco tempo per occuparsi dei numerosi argomenti intorno alle strategie da adottare per ridurre la proliferazione della plastica. Si è parlato della necessità di gestire l’inquinamento derivante dalle microplastiche, le componenti molto piccole in cui degradano diverse tipologie di plastica e che possono finire ovunque, nelle acque degli oceani e di conseguenza nelle specie ittiche, ma anche nel nostro organismo con effetti ancora non chiariti. È stata inoltre espressa la volontà di regolamentare in modo più uniforme e coerente tra i paesi le migliaia di sostanze chimiche che vengono utilizzate per realizzare i vari tipi di plastica, alcune delle quali estremamente dannose per l’ambiente per via della loro lunga durata.
Nel corso delle trattative, la maggior parte dei 180 paesi partecipanti alla sessione di Parigi ha concordato sull’importanza di non produrre più o mettere al bando i PFAS, cioè le sostanze perfluoroalchiliche: una classe di migliaia di sostanze diverse usate storicamente nella produzione di moltissimi materiali – dalle vernici agli imballaggi, passando per gli impermeabilizzanti – con grandi problemi di inquinamento ambientale (in Italia il problema riguarda in particolare una zona del Veneto).
Gli effetti sulla salute dei PFAS sono difficili da indagare e, trattandosi di migliaia di sostanze diverse, anche difficili da catalogare. Alcuni non provocano danni rilevabili, per esempio, ma altri portano a un accumulo negli esseri viventi, con rischi per la riproduzione e danni allo sviluppo. Altri PFAS sono cancerogeni e c’è il sospetto che alcuni interferiscano con il sistema endocrino umano. Per questi motivi sono sotto stretta osservazione da parte degli organismi di controllo dell’Unione Europea e in diversi altri paesi.
Altre proposte hanno riguardato la riduzione della produzione della plastica in generale, un intervento visto sempre più come necessario per intervenire alla base dell’inquinamento. E si è parlato dell’importanza di adottare sistemi più affidabili per tracciare e tenere sotto controllo la diffusione della plastica su scala globale, un punto su cui insistono da tempo numerosi gruppi di ricerca.
Nella maggior parte dei paesi del mondo, chi produce plastica deve osservare vincoli nel momento della produzione, mentre non ha poi particolari responsabilità una volta che i suoi prodotti vengono venduti. Per la plastica usa e getta le responsabilità ricadono sui singoli consumatori, per esempio, ma non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un involucro dalle materie prime con cui è stato realizzato alla discarica. Le Nazioni Unite vogliono favorire un processo di armonizzazione di regole e procedure, coinvolgendo università e centri di ricerca, in modo da utilizzare il tracciamento per ridurre le sostanze inquinanti nell’ambiente e stimare meglio le responsabilità dei singoli paesi.
Per organizzare sistemi di questo tipo devono essere coinvolte anche le aziende produttrici, ma nel caso della riunione di Parigi ci si è chiesto se la presenza dei loro rappresentanti non fosse eccessiva. La testata francese Mediapart ha stimato che alle trattative fossero presenti quasi 200 rappresentanti dell’industria petrolchimica, spesso con una presenza maggiore rispetto a quella delle delegazioni dai paesi in cui il problema dell’inquinamento da plastica è più sentito, come alcuni stati insulari del Pacifico. Negli incontri si è quindi parlato degli approcci che l’industria preferirebbe, come utilizzare procedimenti per trasformare la plastica utilizzata in combustibili, attraverso un processo che riduce la quantità di materiali plastici in circolazione ma che ha un forte impatto per quanto riguarda la produzione di emissioni di anidride carbonica.
Nei primi mesi del 2018 centinaia di grandi aziende avevano sottoscritto il Global Commitment, un’iniziativa legata al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente che aveva lo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica. Tra i sottoscrittori c’erano società molto ricche e che controllano una enorme quantità di marchi come Nestlé, Mars, L’Oréal, SC Johnson, Coca-Cola e PepsiCo. Si erano impegnate a ridurre l’impiego di plastica vergine (quindi non derivante dal riciclo) e a concentrarsi nello sviluppo di confezioni e involucri riciclabili o compostabili, in modo da ridurre la plastica in circolazione.
L’impegno non ha portato ai risultati sperati, almeno secondo il rapporto dello scorso anno sull’andamento del Global Commitment. Coca-Cola si era impegnata a ridurre del 20 per cento l’impiego di plastica non riciclata nel 2021 rispetto al 2019, ma ne ha usata il 3 per cento in più; Mars aveva promesso una riduzione del 25 per cento nell’impiego in generale di plastica, ma ne ha utilizzato l’11 per cento in più sempre negli stessi periodi di riferimento. Nel 2018 il 49 per cento degli involucri impiegati da Nestlé era riciclabile, riutilizzabile o compostabile, mentre nel 2021 la percentuale è scesa al 45 per cento.
Le stime sulla produzione globale di plastica variano molto, ma secondo quelle dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico negli ultimi anni ne abbiamo prodotta circa 400 milioni di tonnellate all’anno. E sempre annualmente si stima che negli oceani finiscano circa 14 milioni di tonnellate di plastica, trasportata dai fiumi o dispersa direttamente nei mari.
Al di là delle difficoltà sulle procedure, la seconda riunione del comitato intergovernativo ha confermato la volontà dei paesi di affrontare il problema della plastica e di proseguire verso la stesura del trattato. La riunione si è conclusa con un accordo per avviare la scrittura di una prima bozza, che sarà analizzata durante la prossima sessione prevista per novembre in Kenya. È ancora presto per dire se la scadenza ultima di fine 2024 sarà mantenuta per l’accordo finale sul trattato della plastica, ma il senso di urgenza dato dai tempi insolitamente stretti per questo genere di iniziative potrebbe favorire i lavori e appianare i principali contrasti.