Trent’anni fa morì Drazen Petrovic
Fu il primo cestista europeo ad affascinare gli Stati Uniti: morì in un incidente stradale nel momento migliore della sua carriera
di Pietro Cabrio
Agli inizi degli anni Novanta i giocatori europei nel campionato di basket NBA erano ancora rari, visti con scetticismo e circondati da pregiudizi: sono troppo «soft», teneri, si sentiva dire, difendono poco e provengono da un basket minore, meno atletico e spettacolare. Trent’anni dopo i giocatori non statunitensi in NBA sono oltre il 20 per cento del totale: soltanto gli europei sono una sessantina, diverse squadre sono costruite attorno a loro e due in particolare — Nikola Jokic e Giannis Antetokounmpo — sono stati eletti migliori giocatori del campionato quattro volte negli ultimi cinque anni.
Fu un giocatore in particolare a segnare un punto di svolta per gli europei nel campionato di basket statunitense. Drazen Petrovic, croato di Sebenico, nel 1984 fu messo sotto contratto dai Portland Trail Blazers ma rimase ancora qualche anno a giocare in Europa. Nel 1989 arrivò in NBA insieme a un altro giocatore dell’ultima e fortissima nazionale jugoslava unita, il serbo Vlade Divac. A differenza di Divac, che ai Lakers si guadagnò velocemente un posto in squadra accanto a Magic Johnson, Petrovic ci mise del tempo ad affermarsi e non lo fece con la sua prima squadra, ma con la seconda, i New Jersey Nets, a partire dal 1990.
Anche se in ritardo, nelle successive stagioni Petrovic portò i Nets ai playoff, superò i 20 punti di media a stagione ed ebbe dei celebri confronti in campo con i migliori giocatori dell’epoca, tra cui Reggie Miller e Michael Jordan, che ancora oggi lo ricordano per la sua grande competitività: Miller lo descrive addirittura come «la sua nemesi», cioè il peggior avversario mai incontrato. Divenne il secondo giocatore non americano a essere inserito nei migliori quintetti stagionali del campionato, e il primo europeo a diventare un vero idolo per i tifosi, che indossavano le sue maglie e compravano le sue action figure.
A 29 anni non ancora compiuti disputò la sua miglior stagione in NBA, ma non ce ne fu un’altra da vedere. Proprio quando si trovava all’apice della carriera, e vicino a chissà quanti altri traguardi, morì in un incidente stradale mentre era di ritorno da una partita della Nazionale croata. Morì senza accorgersene: stava dormendo quando, alle 5 di mattina del 7 giugno del 1993, la macchina sulla quale viaggiava si schiantò a velocità sostenuta contro un camion nei dintorni di Ingolstadt, in Baviera.
Petrovic aveva avuto una storia particolare. Era cresciuto all’ombra del fratello maggiore Aleksandar — per tutti “Aza” — che inizialmente sembrava il vero campione in famiglia e che già da quindicenne era conosciuto in tutto il paese per come giocava a basket. Petrovic, oltre ad avere cinque anni in meno, era nato con una malformazione alle anche che gli aveva causato un’andatura irregolare e per nulla atletica. Era però ossessionato dal basket. A Sebenico, in qualità di fratello minore del famoso Aza, aveva le chiavi della palestra e ogni giorno ci andava a tirare a canestro: prima alle 6 del mattino, e dopo scuola fino a sera, preferibilmente da solo.
«Lui da piccolo era brutto da vedere. Non aveva tiro: lo chiamavano “pietraio”, perché tirava i cosiddetti mattoni a canestro. Ma concentrò tutta la sua vita sulla pallacanestro. A dieci, dodici anni si allenava già 7-8 ore al giorno, ogni santo giorno. Era una persona monomaniaca, catatonica in un certo senso: non parlava mai di altro, solo di basket» ha ricordato più volte Sergio Tavcar, il telecronista triestino di Tele Capodistria che ebbe modo di seguirlo fin dai suoi primi anni di carriera.
Con quel modo di allenarsi sviluppò caratteristiche uniche, da individualista puro, ma che riuscivano comunque a inserirsi all’interno di una squadra. In campo sapeva muoversi come voleva, aveva il totale controllo della palla, dei meccanismi di tiro rapidi e altamente precisi, anche dalla distanza, e sapeva fornire assist ai compagni, spesso in modo acrobatico e spettacolare. Oltre alla sua ossessione per il basket, nel suo stile influì molto anche la scuola croata, che ancora oggi non prevede una vera e propria specializzazione di ruolo, ma insegna a tutti a giocare in ogni posizione.
Petrovic iniziò a ottenere le prime importanti vittorie con la Nazionale jugoslava, dove formò il gruppo più forte e vincente nella storia sportiva del paese. Insieme a Divac, e ad altri più giovani come Dino Radja e Toni Kukoc, vinse due Europei, un Mondiale e due medaglie olimpiche, una di argento e una di bronzo. La Jugoslavia dell’epoca fu anche la squadra che mise più in difficoltà gli Stati Uniti, e proprio quelle difficoltà contribuirono alla formazione del cosiddetto “Dream Team” americano per le Olimpiadi di Barcellona del 1992.
Nel 1984 Petrovic si traferì a Zagabria per giocare con il Cibona, dove con il fratello Aza formò una delle coppie più forti nella storia del basket locale, se non europeo. Arrivò a tenere medie di oltre 40 punti a partita e in molti ancora ricordano quando ne segnò 112 all’Olimpija Ljubljana nel campionato jugoslavo. A Zagabria vinse tra le altre cose due Coppe Campioni e da lì divenne famoso in tutto il basket europeo.
Con i quattro milioni di dollari con cui il Real Madrid lo ingaggiò nel 1988 divenne a tutti gli effetti il giocatore più pagato e ammirato in Europa, nonché il primo a guidare una Porsche in Croazia, all’epoca ancora parte della Jugoslavia. Ma a Madrid ci rimase solo un anno, perché dopo gli Europei vinti in casa nel 1989 decise di provare ad affermarsi anche in NBA, una cosa fin lì mai riuscita a un giocatore europeo.
A Portland però non iniziò bene, non tanto per le differenze del basket locale rispetto a quello europeo. L’allenatore dell’epoca non lo teneva molto in considerazione e si trovò peraltro in squadra con cinque giocatori nel suo stesso ruolo, tutti già esperti e di altissimo livello, come Danny Ainge e Clyde Drexler. Portland per giunta non gli piaceva come città. Per due anni smise quindi di essere il Petrovic conosciuto in precedenza e non se la passò granché bene.
Nel 1990 fu però scambiato con i New Jersey Nets. Lì iniziò a giocare di più e col tempo arrivò a essere un titolare inamovibile. Diventò uno dei migliori tiratori da tre punti di tutto il campionato e nel primo turno dei playoff del 1993 segnò 40 punti ai Cleveland Cavaliers, stabilendo il record individuale di marcatura ai playoff nella storia dei Nets.
I Nets vennero eliminati da Cleveland in quel turno, e così Petrovic tornò in Europa in tempo per giocare una partita di qualificazione agli Europei contro la Polonia. La Croazia era ancora la squadra che un anno prima aveva fatto conoscere al mondo un paese fin lì sconosciuto, resosi da poco indipendente dalla Jugoslavia, arrivando in finale del torneo olimpico contro il Dream Team statunitense. La Polonia era un’avversaria ampiamente alla portata anche senza Petrovic, ma lui era il capitano e voleva esserci.
La Croazia vinse quella partita, che si giocò a Breslavia, e poi la squadra andò a Francoforte per tornare in aereo a Zagabria. Petrovic decise però di tornare in macchina con la sua fidanzata dell’epoca e un’amica di quest’ultima. Arrivati nei pressi di Monaco, la fidanzata alla guida non reagì in tempo a un rallentamento che si trovò davanti subito dopo un dosso e, anche a causa della pioggia, finì addosso a un camion a velocità elevata. Petrovic dormiva, non aveva le cinture allacciate e non si accorse di nulla. Provarono a rianimarlo ma le ferite erano troppo gravi e morì sul posto.
Alla notizia della morte i compagni di squadra, i tanti tifosi e un paese intero rimasero completamente spiazzati. La madre, Biserka, tentò di suicidarsi gettandosi dal balcone di casa dopo averlo saputo, ma fu fermata appena in tempo.
Ai funerali a Zagabria parteciparono oltre 100mila persone, compresi gli storici compagni di squadra, ma non Divac. Benché quest’ultimo fosse stato uno dei suoi amici più stretti, il rapporto tra i due fu completamente troncato a causa della guerra tra serbi e croati. Dopo la vittoria dei Mondiali in Argentina del 1990, infatti, Divac era stato visto strappare una bandiera croata a un tifoso sceso in campo per festeggiare. Quell’episodio lo rese inviso ai croati e determinò la rottura con Petrovic, come raccontò lo stesso Divac in un famoso documentario di ESPN, Once Brothers.
Dei giorni dopo la morte di Petrovic, familiari e amici ricordano un episodio in particolare. Mentre la madre e il fratello erano in visita alla sua tomba al cimitero di Mirogoj a Zagabria, un anziano che teneva il nipote per mano si avvicinò e disse alla madre: «Non essere triste. Tu gli hai dato la vita, ma lui non appartiene solo a te, appartiene a tutti».
Dalle prime stagioni di Petrovic e Divac in NBA tanti altri europei sono riusciti ad affermarsi nel campionato, fino a farla diventare una normalità. Il croato Toni Kukoc divenne per esempio uno dei membri dei famosi Chicago Bulls di Michael Jordan, con cui vinse tre titoli. E nel 1998 arrivò dalla Germania Dirk Nowitzki, che per risultati e longevità è considerato il miglior europeo nella storia del campionato: giocò a Dallas per ventuno anni, vincendo da protagonista il titolo del 2011. In questi giorni un altro europeo, slavo come Petrovic, è vicino a un traguardo simile. Nikola Jokic, eletto due volte MVP, si sta giocando il titolo con i Denver Nuggets, che prima di lui non erano nemmeno mai arrivati alle finali.
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