Perché è rischioso parlare di plagi nel pop
La causa legale vinta da Ed Sheeran ha riportato l’attenzione sul dibattito sulla proprietà di canzoni che, in una certa misura, hanno sempre un che di già sentito
All’inizio di maggio un tribunale di Manhattan ha stabilito che la canzone del cantautore inglese Ed Sheeran “Thinking Out Loud” non è un plagio del grande successo degli anni Settanta “Let’s Get it On”, di Marvin Gaye ed Ed Townsend. La causa era stata portata avanti contro Sheeran da un’erede di Townsend, la figlia Kathryn Griffin Townsend, ed è stata descritta sia prima che dopo la sentenza come un caso fondamentale nel dibattito sui confini del plagio musicale: su quali particolari elementi contribuiscano cioè a definire la proprietà intellettuale di una canzone pop e quali debbano invece essere considerati di dominio pubblico.
Una delle conclusioni stabilite dalla causa legale vinta da Sheeran è che una sequenza di accordi standard e uno schema ritmico sincopato sono elementi troppo generici per poter essere protetti dal diritto d’autore. La sentenza è stata perlopiù interpretata come un punto di arresto rispetto a una tendenza emersa in seguito a un’altra importante causa legale relativamente recente: quella persa nel 2015 dai cantanti Robin Thicke e Pharrell Williams. Per le somiglianze tra il loro grande successo pop “Blurred Lines” e la canzone di Marvin Gaye “Got to Give It Up” Thicke e Williams avevano dovuto pagare 5,3 milioni di dollari e devolvere il 50 per cento dei diritti sulla canzone alla famiglia di Gaye.
Al netto delle conclusioni, la causa tra Sheeran e Townsend ha mostrato molte sfaccettature del dibattito in corso sul diritto d’autore delle canzoni e molti dei fattori che contribuiscono a renderlo più incerto di quanto fosse prima della diffusione e del successo della musica in streaming. Una parte della complessità del dibattito dipende – oggi come un tempo – dalla natura intrinsecamente ripetitiva di schemi, strutture e accordi alla base dei generi musicali, specialmente il pop, che non possono essere considerati proprietà di nessuno. Così come dipende anche da una certa dimensione irriducibilmente soggettiva dell’ascolto della musica: due canzoni possono suonare molto o vagamente simili a persone diverse.
Ma l’altro aspetto centrale nel dibattito è lo stravolgimento di prassi e convenzioni dell’industria discografica successivo all’avvento delle piattaforme di streaming, che hanno favorito sia un aumento della produzione musicale su larga scala e senza intermediari, sia un parallelo aumento delle opportunità di accesso alle fonti da cui sia oggi possibile – anche inconsapevolmente – trarre ispirazione per comporre. «Non ci sono così tante note, e ci sono pochissimi accordi nel pop: le coincidenze sono inevitabili, se escono 60 mila canzoni al giorno su Spotify», disse Sheeran nel 2022 dopo aver vinto un’altra causa per un presunto plagio, in cui era accusato da un cantante inglese semisconosciuto.
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La sentenza contro Thicke e Williams nel 2015, considerata problematica fin da subito da diversi esperti di musica e addetti ai lavori nell’industria discografica, aveva generato un aumento di altre accuse contro musicisti famosi per presunti plagi: accuse spesso anche molto deboli e difficili da sostenere. E la tendenza dei musicisti a risolvere le controversie attraverso accordi privati, in un contesto di accresciuta incertezza su come sarebbe potuta eventualmente finire in tribunale, aveva incoraggiato chi li accusava a considerare che il gioco valesse sempre la candela. Nei paesi in cui vige la common law, in cui cioè la giurisprudenza si basa sui precedenti giudiziari, è comune che a una determinata sentenza seguano moltissime cause legali presentate da chi pensa di rientrare nella stessa casistica: e a fronte delle spese legali iniziali confida di poter ottenere complessivamente più soldi dal risarcimento finale.
«La vittoria di Sheeran significa che il panorama giuridico più ampio nella musica rimane in gran parte inalterato», ha scritto Ben Sisario, giornalista di musica del New York Times, riferendosi a un’altra sentenza che nel 2020 aveva «riportato il pendolo in una posizione più neutra» dopo il caso clamoroso di Thicke e Williams. I Led Zeppelin avevano infatti vinto una lunga causa in cui erano accusati di aver copiato l’arpeggio iniziale di “Stairway to Heaven” del 1971 dalla canzone del 1967 “Taurus” degli Spirit, un gruppo californiano, perché – come affermato nella sentenza – la parte in questione è formata da comuni elementi musicali, che non possono essere protetti dal diritto d’autore.
La causa di Townsend contro Sheeran è finita in un modo abbastanza simile a quella degli Spirit contro i Led Zeppelin, per le ragioni addotte nella sentenza, anche se partiva da considerazioni più simili a quelle della causa persa nel 2015 da Thicke e Williams. “Thinking Out Loud”, uscita nel 2014, fu uno dei primi grandi successi di Sheeran ed è una delle canzoni più richieste e suonate ai suoi concerti. L’accusa di Griffin Townsend si basava sulle somiglianze tra “Let’s Get It On”, una delle canzoni più celebri di uno dei cantanti più famosi degli anni Settanta, e “Thinking Out Loud” per quanto riguarda la sequenza principale di quattro accordi (Re, Fa diesis minore, Sol e La) e il ritmo sincopato, per cui l’accento ritmico del secondo e del quarto accordo cade in anticipo.
La melodia cantata da Gaye e Sheeran è in realtà assai diversa, cosa che aveva portato molti a giudicare strumentale e forzata l’accusa di plagio. Sheeran aveva addirittura detto che avrebbe smesso di fare musica, se avesse perso la causa.
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Di tutte le canzoni pubblicate prima di “Let’s Get It On”, secondo gli esperti interpellati dall’accusa, soltanto una versione particolare e poco conosciuta del 1966 della canzone “Georgy Girl” dei Seekers aveva utilizzato la stessa combinazione di accordi e lo stesso ritmo sincopato. Mentre secondo gli esperti interpellati dalla difesa, tra cui il docente di musica alla New York University Lawrence Ferrara, la sequenza di accordi utilizzata da Townsend e Gaye era invece così comune già negli anni Sessanta da essere citata in libri di introduzione elementare al metodo musicale, come How to Play Rock ’n’ Roll Piano del 1967. E di canzoni note con la stessa sequenza di accordi e ritmica di “Let’s Get It On” ma precedenti ne esistono almeno sei, inclusa una versione del 1963 della canzone di Holland-Dozier-Holland “You Lost the Sweetest Boy” cantata da Mary Wells.
Nelle fasi iniziali del processo uno degli avvocati di Griffin Townsend, Ben Crump, noto per aver difeso le famiglie di George Floyd e di Breonna Taylor, aveva descritto come una smoking gun, una prova regina, un video amatoriale in cui durante un concerto a Zurigo nel 2014 Sheeran accenna il ritornello di “Let’s Get It On” mentre suona “Thinking Out Loud”.
Ma Sheeran, che è uno dei più prolifici cantautori pop di successo mondiale, ha utilizzato in altre circostanze questa stessa abilità nel passare facilmente da una canzone a un’altra per difendersi, e per mostrare come moltissime canzoni utilizzino le stesse sequenze di accordi pur non essendo considerate l’una la copia dell’altra.
«La maggior parte delle canzoni pop sono composte da altre canzoni pop», ha scritto sul New Yorker il giornalista John Seabrook, scrivendo del processo sulla canzone di Sheeran. Molte canzoni sono costruite sulla base di sequenze di tre o quattro accordi, e hanno una struttura quasi identica: introduzione, strofa, ritornello, bridge (cioè una sezione di collegamento diversa da tutte le altre) e finale. E a parte il testo e la melodia (intesa come la sequenza di note eseguite dalla voce o da uno strumento solista), in una composizione non c’è molto altro che sia protetto dal diritto d’autore: un concetto le cui procedure per stabilire quante e quali parti di una canzone siano effettivamente proprietà di un musicista sono spesso opache e antiquate. Per questi motivi è abbastanza complicato tracciare i confini della proprietà della musica popolare, secondo Seabrook: anche perché per un artista di successo «spesso il trucco è suonare nuovo e vecchio allo stesso tempo». Cioè fare canzoni che siano originali ma anche familiari per gli ascoltatori.
Come spiegato dal bassista jazz e youtuber statunitense Adam Neely in un video recente pubblicato prima della sentenza, la posta in gioco nella causa tra Sheeran e Griffin Townsend era il diritto di proprietà su un intero stile musicale, più che su una singola canzone. Gli elementi che rendono “Let’s Get It On” e “Thinking Out Loud” così simili nel modo in cui suonano sono «stilistici», secondo Neely. Alcune caratteristiche estremamente comuni tra le canzoni sono la ragione per cui è possibile definire quelle canzoni come appartenenti a un determinato genere e stile musicale, e non ad altri. E vale anche per lo stesso Ed Townsend, il cui successo del 1958 “For Your Love” riprendeva gli elementi di altre canzoni di successo dello stile Doo-wop, popolare nell’R&B della seconda metà degli anni Cinquanta.
Il diritto d’autore è ciò che ha reso economicamente sostenibile essere un artista, ha scritto Seabrook sul New Yorker, «ma i pittori non possono reclamare la proprietà di un colore, così come i cantautori non possono monopolizzare le note», né le sequenze di accordi e i ritmi di un determinato stile musicale. È possibile rivendicare un diritto di proprietà sulla particolare espressione o sull’arrangiamento di un’idea musicale, ma non sull’idea stessa. «Il problema è come separare l’una dall’altra», secondo Seabrook, considerando che la legge rappresenta il lato razionale, analitico e intellettuale dell’esperienza umana, e tende quindi a perdere di vista i fondamentali aspetti irrazionali, emotivi e astratti dell’esperienza musicale.
Nei processi statunitensi sui diritti d’autore nella musica le somiglianze vengono valutate da due tipi di persone: ascoltatori esperti e profani, ha raccontato Seabrook. I primi sono di solito musicologi forensi, spesso accademici con diversi titoli di studio, e ascoltano la musica prendendo in considerazione tutti gli aspetti quantificabili: dal tempo alle pause all’arrangiamento. Queste valutazioni sono controbilanciate dagli ascoltatori profani che formano la giuria.
Anche se è consentito ascoltare e utilizzare in tribunale registrazioni anziché trascrizioni, la melodia e i testi sono di solito gli elementi più importanti per stabilire il diritto d’autore, in parte perché possono essere esaminati sulla carta da giudici, esperti e giurie. Ma questo approccio standard, afferma Seabrook, è molto limitato perché tende a sottostimare l’importanza di altri aspetti della musica che non sono stati storicamente trascritti su uno spartito e sono centrali in molti generi che si sono sviluppati in modo diverso dalla musica classica.
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«I cantautori non si rubano quasi mai le melodie volontariamente», anche se a volte è successo anche questo, ha detto al New Yorker Joe Bennett, docente di musicologia forense al Berklee College of Music. Per esempio nel caso della canzone del 1955 “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash, che riadattò “Crescent City Blues”, composta nel 1953 da Gordon Jenkins e cantata da Beverly Mahr: alla fine Cash pagò a Jenkins una cifra intorno a 75mila dollari (che oggi corrisponderebbero a circa 600 mila euro).
Secondo Bennett e secondo diversi altri esperti, succede comunque molto più spesso che la violazione del diritto d’autore sia compiuta inconsapevolmente, e che ciononostante alcuni musicisti siano ritenuti responsabili e costretti a pagare un risarcimento. In psicologia esiste un termine specifico, criptomnesia, per definire la condizione per cui un’informazione codificata come un ricordo viene dimenticata e riaffiora come un’idea originale.
«La musica pop è piena di criptomnesiaci», ha scritto Seabrook, spiegando che prima di Internet la mancanza di accesso alle fonti del presunto plagio – quando quelle fonti erano poco note o non erano nemmeno pubbliche – era la difesa standard contro l’accusa di plagio inconsapevole. Non poteva essere un plagio, in sostanza, perché il compositore non aveva mai ascoltato la canzone originale. E negli uffici delle case discografiche gli assistenti ricevevano spesso l’istruzione di rispedire le registrazioni non richieste nel loro imballaggio integro, in modo che il mittente non potesse poi eventualmente sostenere l’ipotesi di un eventuale plagio del suo lavoro.
Le piattaforme di streaming hanno notevolmente ridotto l’efficacia di questa linea di difesa standard, rendendo più semplice e immediato per qualsiasi musicista pubblicare le proprie canzoni. E di conseguenza ha reso meno difficile da sostenere, per quanto irrealistica in molti casi, l’ipotesi che un certo musicista di grande successo abbia tratto ispirazione per una sua canzone da quella già edita di un musicista molto meno famoso o per niente famoso.
Questioni sulla proprietà intellettuale degli stili musicali potrebbero peraltro diventare in futuro ancora più centrali e discusse, secondo il bassista jazz Neely, man mano che software di intelligenza artificiale sempre più sofisticati ed efficienti renderanno possibile produrre musica a partire da schemi e strutture note. Ammesso che sia lecito usare un particolare script di intelligenza artificiale per produrre e pubblicare una canzone a partire dall’indicazione «componi una canzone nello stile di “Let’s Get It On” di Marvin Gaye utilizzando una chitarra acustica e un testo sul matrimonio», è molto probabile che il risultato finale sia qualcosa di molto simile a “Thinking Out Loud” di Sheeran.
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