Com’è la vita delle madri detenute in Italia
Storie di donne, bambini e bambine all’interno di un ICAM, un carcere pensato per non sembrarlo
di Alessandra Pellegrini De Luca
«Attesa», «pazienza», «noia»: su un armadio dell’ICAM di San Vittore, uno dei cinque Istituti a custodia attenuata per detenute madri esistenti in Italia, Marianna ha appeso queste tre parole ritagliate nella carta. Le ha scritte durante un progetto fatto con gli studenti del liceo per rappresentare e descrivere la vita delle detenute con figli al seguito. Nonostante un ICAM sia diverso da un carcere tradizionale e permetta alle detenute di non separarsi dai figli, Marianna dice di convivere con un forte senso di colpa: «Ogni tanto mia figlia sbatte i piedi per terra e mi dice che vuole andare a casa: fa male, ed è difficile spiegarle che a casa, per un po’, non ci possiamo andare».
La figlia di Marianna va all’asilo ogni giorno, accompagnata dalle due operatrici comunali che lavorano nell’ICAM, e poi torna nella struttura. L’ICAM di San Vittore è a tutti gli effetti un carcere, ma non lo sembra: si trova in un edificio storico nel centro di Milano, le sbarre alle finestre sono sinuose inferriate in ferro battuto, al suo interno non ci sono celle e i corridoi, dipinti color pastello e coi disegni dei bambini ai muri, lo fanno assomigliare a un asilo. C’è anche un piccolo giardinetto con scivoli, tricicli e seggioloni colorati. Le agenti di polizia penitenziaria sono in borghese, senza divisa. Le telecamere non si vedono e i sistemi di sicurezza sono pensati per non essere riconoscibili dai bambini: «Anche i controlli sono spesso effettuati a mo’ di gioco», racconta Maria, un’agente di polizia penitenziaria di 26 anni che lavora all’ICAM dal 2021.
Gli ICAM – così come le sezioni nido delle carceri ordinarie, aree detentive allestite per i bambini – servono ad alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere ai figli piccoli delle detenute. Il modello di custodia attenuata che si segue può avere effetti positivi sulle detenute e sul loro percorso di reinserimento della società, ma parliamo comunque di un carcere: per quanto attenuata, e in molti casi gestita con competenza e attenzione, la detenzione viene in ogni caso percepita dai bambini, con potenziali conseguenze negative sul loro sviluppo. Per questo chi si occupa di detenute con figli ritiene che sia sempre necessario il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o le case famiglia protette, in grado di far scontare la pena alle detenute ma anche di garantire ai figli e alle figlie un’infanzia il più possibile assimilabile a quella dei bambini liberi.
In Italia, secondo dati del ministero della Giustizia aggiornati al 30 aprile, sono recluse 20 detenute madri con 22 figli al seguito in totale. È un numero piccolo, anche se tra i più alti d’Europa, e chi si occupa di questo problema lo cita spesso per dire che trovare una soluzione non dovrebbe essere così complicato. «I numeri sono diminuiti soprattutto con la pandemia che ha spinto i giudici a usare molto di più le misure alternative al carcere per evitare contagi, a dimostrazione del fatto che è una via praticabile», dice Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone e curatrice del rapporto Dalla parte di Antigone, dedicato interamente alla detenzione femminile.
In generale in Italia le donne costituiscono poco più del 4 per cento della popolazione carceraria totale. Vanno in carcere soprattutto per reati contro il patrimonio, in particolare per furti.
Dal carcere i figli e le figlie di detenute possono uscire liberamente, accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria o da operatori e operatrici del comune che li portano all’asilo, a scuola, dal medico, a una festa di compleanno o magari al corso di nuoto. Possono uscire anche con i propri parenti all’esterno, e magari trascorrere una notte o più giorni fuori per poi tornare dentro, se la madre ha dato l’autorizzazione. A volte è difficile dire cosa sia meglio per loro: chi ha una rete più solida all’esterno esce più spesso, e vede di più la differenza tra il dentro e il fuori. Chi non ce l’ha vede meno questa differenza, ma è più spesso recluso.
Spesso vengono presi accorgimenti per evitare troppe domande da parte dei coetanei: «Con il comune abbiamo concordato che per lo scuolabus l’ICAM sia sempre la prima fermata al mattino e l’ultima al ritorno da scuola, in modo che gli altri bambini non ne vedano il grosso cancello d’ingresso», dice Anna Rita Bossone, vice ispettrice dell’ICAM di Lauro, in provincia di Avellino. In quello di Milano viene insegnato ai bambini e alle bambine a non dire «andiamo o torniamo a casa», riferendosi al carcere, ma «andiamo o torniamo dalla mamma».
Negli ICAM di Milano e Lauro ci sono anche rispettivamente una ludoteca e una biblioteca, oltre a diverse attività organizzate per i bambini dalle associazioni e dai volontari che frequentano la struttura. Il loro contributo è considerato molto importante, dato che non esiste un programma apposito del ministero della Giustizia per le attività dei bambini, anche perché formalmente non sono detenuti: «Per noi il volontariato è fondamentale, se una bambina ha una festa di compleanno fuori dal carcere alle otto di sera serve un volontario che ce la porti, dato che gli agenti hanno finito il turno», spiega Domenico Truoiolo, funzionario giuridico pedagogico (un “educatore”, per semplificare) dell’ICAM di Lauro. Sono molto meno attrezzate le sezioni nido delle carceri ordinarie, che a differenza degli ICAM non si trovano in edifici distaccati: delle 12 che ci sono in Italia, otto non hanno nemmeno aree esterne attrezzate per i bambini.
In Italia quando una donna viene arrestata e ha figli piccoli non può essere semplicemente messa in carcere. Se i figli hanno meno di un anno è obbligatorio il rinvio della pena, se ne hanno meno di tre il rinvio è facoltativo. A quel punto la donna potrà decidere di affidare i figli a qualcuno e di entrare in carcere, oppure di tenerli con sé, possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, la prima tra quelle che in Italia hanno regolamentato la condizione delle detenute madri.
«Ho deciso di tenere con me mia figlia perché è l’unica che ho» racconta Anita (nome di fantasia), una donna di 47 anni detenuta all’ICAM di Lauro insieme alla figlia di 4. Anita ha tentato per molti anni di avere figli, riuscendoci quando ormai aveva «perso la speranza». Quando è stata arrestata era incinta, sua figlia è nata in carcere e lei deve scontare ancora sei anni di pena.
«Io ho deciso di tenere mio figlio con me perché non avevo nessuno a cui affidarlo», dice Bobbi, una donna indiana di 33 anni detenuta all’ICAM di San Vittore a Milano col figlio di due. La famiglia di Bobbi, che ha interrotto tutti i rapporti con lei, è in India. Fuori dal carcere, in Italia, non conosce nessuno. Quando è stata arrestata era in Italia da pochissimo e non parlava l’italiano, la lingua in cui si racconta e che ha imparato proprio all’ICAM.
Irene (nome di fantasia), una donna di 32 anni detenuta a Lauro, ha raccontato di aver chiesto il ricongiungimento col proprio figlio perché «ho avuto davvero paura di perderlo». Nel suo paese di origine ne ha altri due. Quando il figlio ha compiuto un anno, Irene aveva deciso di affidarlo a una cugina e di entrare in carcere, a Foggia. Per una serie di vicende suo figlio era poi stato affidato a una casa famiglia: lei racconta di non averne più saputo nulla per sei mesi, che ha definito «i peggiori della sua vita». Era dimagrita fino a pesare 38 chili e aveva smesso di alzarsi dalla branda la mattina. Poi aveva chiesto il ricongiungimento. Dice che quando le avevano portato il figlio lui aveva i capelli molto più chiari, e che per un attimo aveva temuto che non fosse lui. «L’ho riconosciuto da una voglia che aveva su una coscia e sono scoppiata a piangere: si sono commosse anche alcune agenti di polizia che erano lì in quel momento». Irene finirà di scontare la pena nel 2027.
Se una donna con figli che deve stare in carcere sceglie di tenerli con sé ci sono due possibilità: se è in custodia cautelare (cioè non è ancora stata condannata) può tenerli con sé fino al compimento dei sei anni, preferibilmente agli arresti domiciliari o in una casa famiglia protetta, struttura di tipo comunitario in cui la donna è comunque sottoposta a sorveglianza. Il carcere è previsto solo in casi di «eccezionale rilevanza», e preferibilmente (ma non obbligatoriamente) in un ICAM. Se invece la donna sta scontando una condanna definitiva può tenere i figli con sé fino a che non hanno 10 anni: se la pena è inferiore a 4 anni la donna può scontare la pena ai domiciliari o in una casa famiglia protetta, altrimenti può farlo solo dopo aver scontato in carcere un terzo della pena, o 15 anni in caso di ergastolo. Anche in questo caso non è obbligatorio che sia un ICAM.
«In teoria il carcere dovrebbe essere predisposto solo in casi di eccezionale rilevanza: nei fatti non è così», dice Marietti. Spesso le detenute sono di etnia rom, e anche se sono state arrestate per reati minori la detenzione domiciliare viene valutata impraticabile dal giudice. Una soluzione potrebbe essere quella delle case famiglia protette, ma in Italia ce ne sono solo due perché non è prevista una copertura finanziaria da parte dello Stato (ci torniamo).
Il gruppo più grande di detenute madri in Italia (8, con 8 figli) è nell’ICAM di Lauro, seguite da quello di Milano (5 detenute e 5 figli): il primo è immerso nel verde dell’Irpinia, nell’Appennino campano, il secondo è nel centro di Milano, di fronte all’ospedale Melloni. Le altre detenute madri sono nell’ICAM del carcere Lorusso e Cotugno di Torino (2 donne e 2 figli), collocato invece all’interno del carcere ordinario, in quello della Giudecca a Venezia (3 donne e 4 figli) e nelle carceri di Foggia e Lecce (1 donna e 2 figli e 1 donna e 1 figlia). A Foggia e Lecce non ci sono ICAM: le detenute e i loro figli si trovano rispettivamente in una sezione nido del carcere ordinario e nel carcere Borgo San Nicola, il più grande della Puglia.
– Leggi anche: Le donne della Giudecca
In un ICAM, dove non ci sono celle ma uno spazio comune con diverse stanze, chiuso a chiave con la porta blindata, non è raro vedere bambini che tornati da scuola o dall’asilo corrono incontro agli agenti e alle agenti come se fossero amici o parenti. Tre detenute, due nell’ICAM di Milano e una in quello di Lauro, raccontano dei nomignoli familiari che i loro figli danno agli operatori e agli agenti delle strutture: «Il comandante lo chiama “zio”», dice Irene. Bobbi racconta invece che suo figlio «chiama “nonno” tutti gli operatori maschi».
Capita che con gli agenti i bambini condividano dei ricordi. «Ha visto per la prima volta il mare con un agente di polizia», dice Anita parlando della figlia, a cui un’agente, passando, fa il solletico. Secondo Anita sua figlia si fida di più delle agenti e degli operatori – le persone che vede tutti i giorni – che dei suoi stessi parenti fuori dal carcere, con cui a volte non vuole uscire. L’impressione è che per i figli e le figlie delle detenute la polizia finisca per diventare una specie di famiglia, anche se inevitabilmente limitata al periodo di reclusione della madre.
Le modalità di detenzione previste dalla cosiddetta “custodia attenuata” permettono molta più prossimità tra agenti e detenute rispetto a un carcere tradizionale, secondo alcune testimonianze con effetti positivi per entrambe le parti.
Due agenti di polizia penitenziaria sostengono per esempio che la vicinanza con le detenute prevista dall’ICAM abbia aperto loro la mente: «Prima di lavorare qui non sapevo niente delle persone rom, su cui avevo molti pregiudizi, né di come funziona la vita in un campo o della loro cultura: sembra retorico dirlo, ma per me lavorare qui è stato un po’ come viaggiare», dice Maria, agente di polizia dell’ICAM di Milano, che aggiunge: «Mi è anche capitato di chiedermi, per la prima volta in vita mia, che cosa avrei fatto io al posto loro, senza gli strumenti educativi ed economici con cui ho potuto costruire la mia vita». Anna Rita Bossone dell’ICAM di Lauro sostiene invece di aver imparato a «vedere non una detenuta, ma prima di tutto una persona».
Alcune detenute sostengono che il percorso fatto all’ICAM abbia permesso loro di fare delle scelte di vita anche radicali. Marina, una donna rom di 36 anni che ha finito di scontare la pena e che vive temporaneamente nella casa famiglia protetta di Milano insieme alle figlie di 13 e 16 anni, dice di aver deciso di abbandonare la vita nel campo rom e di lasciare il padre delle sue figlie: «Ho trovato persone con cui sfogarmi e con cui riflettere, ho seguito dei corsi e ho capito che ero capace di fare delle cose, che una volta uscita avrei potuto e voluto vivere del mio lavoro». Un’esperienza simile è stata condivisa da Irene, che sostiene che l’ICAM l’abbia «cambiata» e di non voler continuare a delinquere. Irene ha detto che all’ICAM ha scritto «quattro quaderni» sulla sua storia, che l’hanno aiutata a «superare la vergogna».
Marina sta ultimando le pratiche per ottenere i documenti necessari per un contratto di affitto e per poter lavorare. Marianna Grimaldi, funzionaria giuridico pedagogica dell’ICAM di Milano, mostra invece alcune lettere che una ex detenuta le invia regolarmente, in cui la aggiorna sulla sua vita, le invia gli auguri di Natale e la ringrazia per il percorso fatto insieme: in una lettera definisce lo staff dell’ICAM «la mia famiglia».
Ma a fronte di queste esperienze positive ci sono quelle dei bambini. «Lo capisce che questa non è una casa», dice Marianna parlando di sua figlia, a cui secondo lei mancano il padre e le sorelle, di cui hanno una foto sulla testata del letto nella stanza che condividono con un’altra detenuta. Irene parla delle volte in cui suo figlio le chiede come mai la polizia ha chiuso la porta a chiave: «io gli dico che è perché dobbiamo andare a lavarci, ma lo vedo che non è convinto». Altre volte suo figlio le chiede come mai non può accompagnarlo all’asilo: «Gli dico che non posso uscire perché devo lavorare, ma molte volte mi blocco di fronte alle sue domande, e lui si spazientisce».
«Il carcere ha delle conseguenze sui bambini: noi ne abbiamo visti arrivare diversi, e soprattutto quando non venivano dagli ICAM c’erano manifestazioni di disagio molto chiaro, per esempio rispetto ai rumori che ricordano le sbarre e i cancelli», dice Elisabetta Fontana, presidente dell’associazione Ciao che gestisce la casa famiglia protetta di Milano. «Lo vedi anche dai giochi: è tutto un giocare a chiamare la polizia, con una certa ossessione per le chiavi, per i giochi con le chiavi»
Il livello a cui i bambini percepiscono la detenzione dipende da tante cose: dal carattere individuale, dall’età, dal fatto che siano o meno nati in carcere, come i figli di Bobbi e Anita, per cui l’ICAM è per così dire la normalità. Ma per quante attività possano esserci all’interno di un ICAM o di una sezione nido, la detenzione delimita inevitabilmente gli spazi e i modelli familiari di riferimento, riduce i contatti con l’esterno e crea una routine imponendo una socializzazione forzata con le altre detenute e i loro figli e figlie. «Lo dicono tutti gli psicologi che gli stimoli sensoriali e relazionali nei primi tre anni di vita sono fondamentali per consolidare personalità e intelligenza: è chiaro che le condizioni di un ICAM non possono soddisfare esigenze evolutive e relazionali dei bambini e delle bambine al loro interno», dice Marietti di Antigone.
Chi lavora negli ICAM sostiene che non siano paragonabili a un carcere tradizionale, e che in alcuni casi possano avere addirittura effetti positivi per i bambini: «Qui dentro prendersi cura della genitorialità significa anche dare dei ritmi regolari, mandare i bambini a scuola, far sì che abbiano un’alimentazione equilibrata: tutte cose che spesso non hanno, nei contesti da cui provengono», ha detto Truoiolo dell’ICAM di Lauro. D’altra parte, dice Marietti, «l’ICAM è comunque un carcere: de-carcerizzare non significa dipingere di rosa i muri di un carcere».
Secondo Marietti, «senza pensare a soluzioni concretamente percorribili, “Mai più bambini in carcere” è uno slogan: non puoi togliere i bambini dal carcere separandoli dalle madri – sarebbe sbagliato – e nemmeno creare delle sacche di impunità, per cui se hai figli non sconti la pena: il problema si risolve solo creando una vera cultura sull’utilizzo delle misure alternative al carcere come le case famiglia protette». È dello stesso parere Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, organismo indipendente che tutela le condizioni dei detenuti, secondo cui gli ICAM sono «strutture a cui ricorrere solo in casi estremi, la priorità invece va data alle case famiglia protette».
Le case famiglia protette furono istituite con la legge 62 del 2011, senza però prevedere alcuna copertura finanziaria dello Stato. Anche per questo in Italia ne sono state aperte solo due: una a Milano, gestita dall’associazione Ciao, e una a Roma, la Casa di Leda, gestita dalla Cooperativa Alice Onlus. In una casa famiglia protetta le detenute madri possono scontare la pena in detenzione domiciliare: ci entrano con alcune disposizioni del magistrato di sorveglianza, che gli operatori si occuperanno di far rispettare. «Se una detenuta tarda a rientrare anche solo di qualche minuto noi siamo obbligati a chiamare la polizia», dice Giusy Garbelli, avvocata e criminologa che lavora nella casa famiglia protetta di Milano.
Nella struttura dell’associazione Ciao, che è un’associazione laica ma la cui casa famiglia è ospitata in un edificio dell’oratorio locale, nel quartiere Stadera, ci sono tre appartamenti dotati di cucina e bagno e un ampio corridoio su cui danno una serie di stanze comuni. Sui muri ci sono scritte, fotografie e disegni fatti dai bambini e dalle bambine che ci vivono. La struttura può ospitare fino a 6 mamme e 7 bambini in totale, e gli appartamenti sono in condivisione.
Per ora la casa famiglia protetta di Milano procede con raccolte fondi, donazioni e partecipazioni a bandi di vario tipo. «Riceviamo una retta dal comune solo se ci è stato assegnato un assistente sociale per qualcuno dei minori, e la Regione Lombardia ha presentato una manifestazione d’interesse per ottenere alcuni dei finanziamenti previsti dalla legge di bilancio», ha detto Andrea Tollis, il direttore.
Il finanziamento pubblico delle case famiglia protette era una delle novità più importanti di una proposta di legge approvata l’anno scorso solo dalla Camera, e poi ripresentata nella nuova legislatura, dal Partito Democratico. Lo scorso marzo il PD l’ha ritirata dopo l’approvazione di alcuni emendamenti da parte della maggioranza di destra, che secondo i promotori della legge ne avevano snaturato obiettivi e principi di partenza. La Lega aveva difeso gli emendamenti dicendo che «essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere».
«Spesso, quando si parla di carcere, i toni sono polarizzati e temi complessi rischiano di essere semplificati», dice Tollis, secondo cui il tema delle detenute madri è uno dei migliori punti di partenza per ragionamenti molto più ampi: «quello della detenzione femminile, di donne detenute in un sistema abitato e pensato soprattutto da uomini, quello della maternità, quello dell’esecuzione della pena, del partire dalla persona, prima che dal reato, e del vedere la pena come funzionale al reinserimento nella società, non alla punizione».