Quanto sono precise le uccisioni mirate dell’esercito israeliano?
Moltissimo, secondo Israele; meno di quanto dovrebbero esserlo, secondo altri pareri
Nella notte fra l’8 e il 9 maggio Asmahan Adas, una donna palestinese che abita nella Striscia di Gaza, tornò a casa e trovò le due figlie Iman e Dania, di 17 e 19 anni, ancora sveglie. Erano sedute sui propri letti a guardare video buffi sul telefono. Pochi minuti dopo, verso le due di notte, entrambe sono state uccise da un bombardamento israeliano il cui obiettivo era Khalil al Bahtini, responsabile delle operazioni nel nord della Striscia per il Jihad Islamico, uno dei più importanti gruppi radicali palestinesi.
Bahtini e le figlie di Adas, che abitavano nell’appartamento a fianco del suo, non furono le uniche persone uccise quella notte. Nello stesso attacco vennero assassinate anche la moglie di Bahtini, Laila, e la loro figlia Hajar, che aveva 4 anni. Le loro morti hanno fatto riemergere un dibattito che si tiene periodicamente sulla precisione di quelle che Israele chiama “uccisioni mirate” di importanti membri di gruppi radicali palestinesi, che ritiene di non poter contrastare o fermare in nessun altro modo.
Israele pratica queste uccisioni da una ventina d’anni, cioè dai violenti attentati compiuti da gruppi armati palestinesi durante la cosiddetta Seconda Intifada, una rivolta popolare palestinese compresa fra il 2001 e il 2005. Negli ultimi mesi però queste operazioni si sono intensificate: a inizio maggio durante giorni di grande tensione fra Israele e i gruppi armati della Striscia di Gaza vennero compiute diverse uccisioni mirate, durante le quali però sono state uccise anche persone civili. Secondo un calcolo del Palestinian Centre for Human Rights sono state 12, secondo l’esercito israeliano 9.
La posizione ufficiale dell’esercito israeliano è che nella pianificazione di operazioni simili viene fatto ogni tentativo per evitare di uccidere persone diverse dagli obiettivi. «Se potessimo colpiremmo i nostri obiettivi terroristici senza fare alcun danno alle persone non coinvolte. Ci sforziamo molto perché sia così», ha detto di recente il capo dell’esercito israeliano Herzl Halevi.
Le uccisioni mirate sono studiate da anni dagli esperti di diritto internazionale, che hanno molti dubbi sulla loro legittimità, sia in contesti di pace sia in contesti di guerra (nei quali comunque le opinioni sono più sfumate). Molti esperti ritengono per esempio che questa politica di Israele violi il diritto delle persone uccise ad avere un giusto processo, e a ricevere e scontare una pena: assai raramente le persone prese di mira dall’esercito israeliano vengono processate, prima di essere individuate e uccise.
Nel 2006 si espresse sulla questione anche la Corte Suprema israeliana, con una sentenza che da allora viene citata spessissimo come precedente dall’esercito, perché di fatto permette uccisioni mirate di persone che l’esercito israeliano ritiene pericolose per la sicurezza nazionale israeliana. Di recente il quotidiano israeliano Haaretz ha sintetizzato che la Corte Suprema ritenne legittime le uccisioni mirate «nel caso in cui l’operazione sia basata su informazioni accurate e che non esista un’altra maniera per agire sull’individuo in questione».
A volte Israele è riuscita a minimizzare i danni collaterali a persone diverse dall’obiettivo. Il 5 gennaio del 1996 l’esercito israeliano uccise quello che all’epoca era considerato il principale realizzatore di bombe per Hamas, il gruppo radicale che governa la Striscia di Gaza. Si chiamava Yahya Ayyash ed era accusato di avere realizzato bombe che furono usate in diversi attentati in Israele negli anni Novanta. Per vie traverse l’esercito israeliano riuscì a mettere una carica esplosiva in uno dei telefoni cellulari di Ayyash: quando se lo portò all’orecchio per rispondere a una chiamata del padre, l’esercito israeliano fece detonare a distanza l’esplosivo. Nessun’altra persona fu ferita o uccisa nell’operazione.
In altri casi operazioni simili hanno ucciso molte più persone del previsto, fra cui alcune che non c’entravano nulla. Nel 2002 un caccia israeliano sganciò una bomba da una tonnellata sull’appartamento di Gaza dove viveva Salah Shehade, uno dei comandanti dell’ala militare di Hamas: secondo un calcolo dell’ong B’Tselem oltre a Shehade nel bombardamento morirono altre 13 persone, e decine furono ferite.
Un altro aspetto molto criticato di queste operazioni è che quasi mai avvengono in zone isolate, dove sarebbe più facile minimizzare i danni collaterali: secondo alcuni questi attacchi sarebbero una forma di punizione collettiva nei confronti dei palestinesi, per tollerare e in alcuni casi appoggiare le azioni dei gruppi radicali. Più o meno come quando Israele decide di demolire gli appartamenti o le case degli attentatori palestinesi.
Israele si difende dalle accuse spiegando che i leader di Hamas o del Jihad Islamico scelgono appositamente di nascondersi in luoghi molto popolati in modo da usare gli altri palestinesi come scudi umani contro gli attacchi israeliani, e che rispetto ai primissimi anni di queste operazioni col tempo le persone civili uccise si sono molto ridotte. Trovare dati che appoggino questa tesi è assai complicato: tempo fa un giornalista di Haaretz aveva stabilito che in effetti fra i primi anni 2000 e il 2007 i morti civili in questo tipo di attacchi si erano ridotti, ma per tempi più recenti non disponiamo di moltissimi dati.
Asmahan Adas sapeva che Bahtini poteva essere un obiettivo dell’esercito isareliano e racconta che quando sapeva che il vicino era a casa faceva spostare le figlie nelle stanze più lontane da quella di Bahtini. Queste precauzioni non sono bastate. «Di che precisione parliamo quando uccidi dei civili?», si è chiesta parlando col New York Times. «Quando Israele vuole uccidere qualcuno può trovare molti modi per farlo».