La mia vita letta al contrario
«Non ne so quasi nulla di matematica ma i numeri piccoli, facili, esercitano su di me un fascino indomabile: le targhe delle macchine, prima del tragico sopravvento delle lettere, erano una delizia. E i palindromi mi affascinano da sempre. Chissà che questa passione per i vocaboli rivoltati non derivi da un sogno di circolarità: far tornare la parola, la frase, e quindi per certi versi il tempo, al suo punto di partenza, ottenendo la chance di un nuovo inizio, per l’illusione di poter risistemare ciò che nel passato si è rotto»
Per anni, in passato, ho atteso con curiosità e apprensione il momento in cui, compiendo quarantacinque anni, avrei raggiunto e poi superato l’età di mio padre, che qualche mese prima che io nascessi, una domenica di gennaio, si è fermato a quella destinazione non prevista. Per anni dunque – forse volendo attrezzarmi per tempo al cambio di ruolo, da ultimo figlio a suo fratello maggiore – ho fatto calcoli, statistiche e proporzioni in vista di quel fotofinish in cui sarei diventato per sempre più vecchio di lui.
Dev’essere questo il motivo per cui molti aspetti delle mie giornate, sin da bambino o adolescente, venivano misurati in frazioni: chissà se ad animarmi è stato un desiderio achilletartarughesco di dividere il tempo in pezzetti sempre più piccoli, per dilazionare il momento del traguardo cristallizzandolo in un istante inarrivabile.
Appena sveglio calcolavo quanta parte delle ventiquattr’ore avessi dormito, certo che avrei avuto altri due terzi del giorno ancora a disposizione; dal piatto di rigatoni (con gli spaghetti il computo sarebbe stato ben più arduo) ogni forchettata doveva portarne alla mia bocca lo stesso numero, che era stato scelto ovviamente in quanto frazione dell’intera porzione, di modo che potessi tenermi costantemente aggiornato sul progresso del pasto; quando seguivo le partite domenicali, non appena un radiocronista irrompeva concitato in diretta per dare la notizia di un gol, io calcolavo quanta parte dei novanta minuti era passata e quanta ne restava alla squadra soccombente per poter riacciuffare il pareggio; provavo senza successo a coinvolgere mio fratello in conteggi analoghi, nella controra senza protezioni delle estati degli anni Settanta, per capire che percentuale delle sconfinate tre ore necessarie a poterci rituffare a mare dopo mangiato mancava all’agognato «adesso sì» materno.
Ancora oggi ricevo effimeri ma significativi godimenti nell’approssimare una stima di quanto velocemente, per esempio, si consumi il dentifricio del nécessaire da viaggio rispetto a quello sul lavandino di casa; nel prevedere tra quanti bicchieri terminerà la bottiglia di questo Ripasso; qual è lo spessore giusto della fetta di salame per averne a disposizione un numero divisibile per quello dei commensali; quante strisce tratteggiate vengono inghiottite dai tergicristalli in un chilometro di autostrada (spoiler: quasi sempre tra le ottantuno e le ottantaquattro).
Un’altra statistica su cui mi sono arrovellato a lungo è quella che riguarda quanta parte della mia vita ho passato a Roma rispetto ai tredici anni vissuti a Napoli: fino ai venticinque anni – a sua volta un quarto di secolo – mi sono sentito a buon diritto più napoletano che romano; alla fatidica soglia dei quaranta (a dispetto del suo essere convenzionalmente definita la mezza età) ero già per due terzi capitolino; ora che ne ho compiuti cinquantadue so di essere stato appena per un quarto campano, pur definendomi, e sentendomi, tale al cento per cento (così come la percentuale degli scudetti della mia squadra che ho festeggiato in trasferta).
Nonostante l’avvento degli e-reader sminuisca l’invincibile felicità che risiede per me nel calcolo, segnalando in automatico quanta parte del romanzo hai già letto, a me è sempre piaciuto sin dai tempi di scuola o dell’università prevedere il momento in cui avrei tagliato un traguardo tondo: il venti, il trentatré, il cinquanta, il settantacinque per cento delle pagine da studiare. Ancora oggi quando correggo le bozze di un libro, così come quando nel 1989 preparavo l’esame di Diritto privato sul Torrente-Schlesinger, mi pongo certi obiettivi minimi: appena finisco un altro decimo di libro mi alzo a bere un bicchiere d’acqua, non mi merito un caffè prima di aver superato un terzo del volume.
Non ne so quasi nulla di matematica ma i numeri piccoli, facili, esercitano su di me un fascino indomabile: le targhe delle macchine, prima del tragico sopravvento delle lettere, erano una delizia, durante un tragitto in motorino. Quando di cifre ce n’erano sei consecutive, o anche cinque precedute oppure seguite da una sola lettera, scopo del gioco era costruire nel minor tempo possibile – in genere, prima che scattasse il verde al semaforo – un percorso perfetto attraverso operazioni aritmetiche semplici: partendo dal primo numero, moltiplicarlo, dividerlo, sottrarlo o aggiungerlo al secondo, e poi al terzo e così via arrivando a ottenere magicamente come risultato l’ultimo.
Ora che nelle targhe ci sono più lettere che numeri, e che il motorino non lo guido più, sono diventato contemplativo come si conviene alla mia età e l’osservazione delle targhe delle macchine è indirizzata solo alla ricerca edonistica di quella meraviglia che si concede assai di rado: il reperimento di una targa palindroma.
I palindromi mi affascinano da sempre, resto incantato davanti a ingegni, ossesso, anilina (o al cospetto della frase «ai lati d’Italia» o quella dei famosi topi senza nipoti, per non scomodare il classico sator arepo…) quanto davanti a un tramonto senza filtri, a una rovesciata al volo in area di rigore o alle sinuosità spiraliformi del Guggenheim. E al pari delle persone della mia generazione mi reputo fortunato per aver ricevuto in sorte di vivere due anni bifronti: trascorsi il 1991 mantenendo una corrispondenza fatta di sole cartoline dal testo palindromo, e il 2002 rammaricandomi di non avere, salvo miracoli o progressi eccezionali della medicina, una terza chance.
Chissà che anche questa passione per i vocaboli rivoltati non derivi da un sogno di circolarità: far tornare la parola, la frase, e quindi per certi versi il tempo, al suo punto di partenza, ottenendo la chance di un nuovo inizio, non tanto per un desiderio da giorno della marmotta, ma per l’illusione di poter risistemare ciò che nel passato si è rotto.
Forse deriva invece solo dalla costante convivenza con la Settimana Enigmistica; ma più probabilmente dall’aver ascoltato all’età di sette anni, durante un pranzo del 1978 sul tavolo di formica della nostra cucina di Napoli, i conduttori di una trasmissione radiofonica svelare che la parola «enoteca», letta al contrario, era «acetone». Questa scoperta di una possibile magia nascosta nelle parole mi diede – lo ricordo con esattezza – un’emozione senza precedenti: l’acetone sapevo cosa fosse perché ne subivo la tortura olfattiva in certe domeniche pomeriggio in cui mia madre e mia sorella mettevano su il teatrino della manicure, pratica di cui non riuscivo a cogliere appieno il significato, chissà se proprio perché ebbro di quell’olezzo stordente; e così io – che, vinto da una timidezza invalicabile, durante i pranzi di famiglia non osavo aprire bocca al cospetto dei grandi – quel giorno presi coraggio e chiesi ad alta voce «che significa enoteca?» perché volevo che quell’incanto di due parole legate da un vincolo alchemico mi si potesse palesare in tutta la sua limpida fascinazione. Mi fu spiegato; e poiché sapevo che, nel tragitto in macchina tra casa e scuola, c’era un negozio che aveva proprio quella scritta, attesi trepidante la mattina successiva per verificare di persona, sfilando in auto accanto ai caratteri dorati di «ENOTECA», se davvero la parola poteva essere letta al contrario. Non volli distrazioni, dissi a mia madre che non avevo bisogno di ripetere ad alta voce i compiti del giorno, e presi posto accanto al finestrino preparandomi alla visione, che mi diede un’euforia pari a quella che avrei avuto mescolando gli effluvi dei due prodotti che l’insegna nascondeva in sé: l’odore del vino che in quel negozio (ora lo sapevo) veniva smerciato – e di cui conoscevo bene gli effetti inebrianti, dato che secondo mio nonno «latte e vino fanno il bel bambino» – e l’odore altrettanto inebriante della sostanza con cui le donne di casa facevano sparire dalle loro unghie con atto sisifeo ogni traccia di quello smalto che solo pochi giorni prima le aveva ricoperte.
So con certezza che è da quel momento che l’ossessione per la lettura compulsiva di ogni insegna al neon, nome di negozio, scritta su un muro, cartello pubblicitario, mi fa compagnia. Non solo leggo tutto: provo, sempre, a leggere tutto anche al contrario, nella speranza di un’altra epifania acetonesca.
Giocare con le parole: è questo, senza dubbio, il mio «passatempo più sano ed economico». E quando le parole non sono a portata di mano, ecco che numeri di targa, di pagina o di telefono sono un eccellente palliativo. Perché, a ben vedere, anche i numeri sono parole. E quindi come ignorare che sei è anche un verbo italiano, due un verbo inglese, otto un nome proprio tedesco (e per giunta palindromo!), sette è un sostantivo femminile plurale, nove un aggettivo femminile dantesco e venti un sostantivo maschile eolico, oppure che sedici è anche l’inizio di un periodo ipotetico.
Insomma, mi piacciono le parole e credo sia per questo che ho deciso di dedicare a loro la mia vita, finendo col fare l’editore. O per la precisione, restando nell’ambito delle cose al rovescio, iniziando col farlo. Perché se nel 2011 ho fondato la casa editrice SUR, andando a ritroso nel lavoro di frazionare il tempo ritrovo nel 1994 l’esordio da scrittore di Francesco Piccolo che coincise con il mio esordio da editore (Scrivere è un tic, primo titolo di minimum fax); e un paio d’anni prima mi rivedo a ventun anni farmi in casa da solo il numero zero di una rivista da inviare via fax; ma alla metà degli anni Ottanta ecco Delirio scolastico, il semi-clandestino e perciò diffusissimo giornalino del liceo che facevo insieme a un gruppetto di amici; fino ad arrivare agli anni Settanta quando produssi l’unico esemplare manoscritto (quattro facciate di foglio protocollo) del primo e ultimo numero della poco durevole testata Terza C, che prendeva nome dalla mia classe elementare, di cui raccontavo le gesta in quel long form ante litteram.
Ma se vado ancora indietro nel tempo, cercando di fermarlo con un’altra frazione, c’è un punto oltre il quale non posso andare: l’imprinting datomi in quella famosa notte di gennaio, fatto a ben pensarci anch’esso di parole. Mia madre mi ha raccontato che, ricevuta la notizia della morte di mio padre, si prese i suoi tre figli dai rispettivi lettini, l’altro ero io ancora in arrivo, se li portò nel lettone vuoto, stringendoli per cercare, o più probabilmente per offrire, una forma di calore, e immaginò che la parete bianca di fronte a sé fosse un foglio su cui provare a scrivere le parole che avrebbe detto il giorno dopo. Nella sua testa, e su quella parete, scriveva, cancellava, riscriveva, fino alla mattina successiva quando, dopo aver vestito mia sorella e i miei due fratelli con le divise dell’Istituto Sacro Cuore, disse la frase a cui aveva lavorato tutta la notte, facendo, se così si può dire, dell’editing. E se la immagino in quella notte, con gli occhi spalancati sulla pagina bianca del muro e con la mano aperta sul ventre appena gonfio di me, la vedo trasmettermi attraverso le dita e le terminazioni nervose il desiderio della parola giusta, la tensione che sta nella ricerca del modo esatto di dire una frase, che da quel momento sarebbe diventata una parte così decisiva della mia vita.
Se invece prendo una frazione di tempo recente, eccomi al lavoro pochi mesi fa sulle poesie di Julio Cortázar, il mio tardivo esordio da traduttore: rime, endecasillabi, alessandrini, calembour, assonanze, sonetti, novenari, allitterazioni e, ancora loro!, diversi palindromi. In Salvo il crepuscolo Cortázar usa per ben due volte un noto palindromo spagnolo che esiste in due varianti, una più breve (arroz a la zorra, ossia «riso alla volpe»), e una più articolata: dabale arroz a la zorra el abad («l’abate dava riso alla volpe»). Io me la sono cavata una volta sostituendolo con un altrettanto noto palindromo italiano («è presa la serpe») e l’altra inventandone uno del quale ammetto di essere piuttosto fiero: «Osiride tra carte di riso». È chiaro che, proprio come succede per «i topi non avevano nipoti», la frase non ha alcun senso se non nella sua forma, una forma che però finisce col darle sostanza, giacché se non fosse per il gioco di parole che contiene, la frase non ci interesserebbe affatto.
Tra le parole allo specchio ce n’è un’altra che mi sta a cuore. Il Dizionario mitologico di tutti i popoli, a cura di Luigi Capello Conte di Sanfranco (edizioni Pomba, Torino 1837), spiega che esistevano delle «feste in onore di Eros o di Cupido, che i Tespj celebravano ogni cinque anni colla magnificenza che per essi poteasi maggiore». Questo rito erotico collettivo, che ogni lustro doveva impegnare tutti gli abitanti dell’antica polis greca di Tespie con grande dispiego di beni e generosità, ebbene si chiamava «Erotide».
E in effetti non c’è nulla di più naturale per me che leggere «erotide» al contrario e trovarci il mio mestiere, «editore», convinto come sono che ogni libro sia un rito amoroso da celebrare con la massima magnificenza. Cosa che ho cercato di fare in tutta la mia vita, sin da quella notte in cui mi fu trasmesso l’amore per le parole.