La Scozia si sta allontanando dall’indipendenza
Dopo la spinta e l'entusiasmo degli anni scorsi si è rotto qualcosa, come ammettono anche gli indipendentisti
di Luca Misculin
Sabato 6 maggio, mentre a Londra era in corso l’incoronazione di Carlo III, per le strade di Glasgow, in Scozia, si è tenuta una manifestazione a favore dell’indipendenza della Scozia dal Regno Unito, un tema che domina il dibattito politico scozzese ormai da molti anni e su cui nel 2014 si è tenuto un importante referendum. Migliaia di persone che sventolavano la bandiera scozzese o suonavano la cornamusa hanno sfilato sotto l’arco di trionfo che delimita l’ingresso del Glasgow Green, il principale parco pubblico della città, fino al centro del parco, dove hanno ascoltato un comizio politico.
L’oratore più famoso era Alex Salmond, ex primo ministro scozzese caduto in disgrazia una decina d’anni fa dopo avere ricevuto diverse accuse di molestie sessuali (da cui è stato poi assolto nel 2020). Nei giorni precedenti Salmond si era fatto notare per avere chiesto all’attuale primo ministro scozzese Humza Yousaf di non concedere alla casa reale britannica la cosiddetta Pietra del Destino, un parallelepipedo di pietra arenaria conservato al castello di Edimburgo, la capitale della Scozia, che da circa otto secoli viene utilizzato durante la cerimonia di incoronazione del sovrano della Scozia, poi dell’Inghilterra, dell’Impero Britannico, e oggi del Regno Unito. Yousaf aveva respinto la richiesta spiegando che secondo lui non fosse «la cosa giusta da fare».
Secondo gli organizzatori, alla manifestazione del 6 maggio hanno partecipato circa 20mila persone. Sono numeri significativi, dato che in Scozia abitano circa 5,5 milioni di persone, ma assai lontani dalle partecipatissime manifestazioni che si tenevano regolarmente quattro o cinque anni fa. Alla manifestazione non ha partecipato nessun dirigente di rilievo del Partito Nazionale Scozzese (SNP), indipendentista e di centrosinistra, al governo da ormai 16 anni, né attori, musicisti o celebrità varie.
Chants of “shove the coronation up your arse” and “not my King” as thousands of Scottish independence supporters march through Glasgow city centre. @SkyNews pic.twitter.com/FuD90cryJH
— Connor Gillies (@ConnorGillies) May 6, 2023
La modesta manifestazione del 6 maggio è solo uno degli ultimi segnali del fatto che negli ultimi anni gli sforzi per rendere la Scozia indipendente dal Regno Unito sono entrati in una fase di stallo. Lo ammettono anche i dirigenti dell’SNP. «Dobbiamo prendere atto che al momento circa metà o poco più di metà degli scozzesi, dipende dai sondaggi, non è convinta dell’indipendenza», spiega per esempio Alasdair Allan, membro del parlamento da sedici anni ed ex ministro per gli Affari europei.
Un po’ di storia
Gli scozzesi si sono sempre percepiti come un popolo autonomo, con una propria lingua (il gaelico), cultura e tradizioni. La Scozia è esistita in maniera autonoma dall’Inghilterra per molti secoli, fino a quando nel 1707 il parlamento scozzese, con una decisione molto controversa prodotto anche di anni di crisi economica e politica, decise di fondersi con quello inglese, dando vita al Regno di Gran Bretagna. La decisione fu piuttosto impopolare e portò negli anni successivi a varie rivolte, l’ultima delle quali fu repressa con la forza nel 1746. L’anno successivo i tre principali nobili scozzesi che avevano appoggiato la rivolta – Lord Balmerino, Lord Lovat e Lord Kilmarnock – furono decapitati.
Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento il relativo benessere del Regno fece passare in secondo piano le rivendicazioni di indipendenza, che riguadagnarono forza con la fine della Seconda guerra mondiale e l’emergere di sentimenti nazionali in varie parti del Regno Unito.
Dopo una lunghissima campagna politica nel 1997 fu indetto un referendum per ottenere un parlamento, un governo semi-autonomo da quello centrale britannico e competenze specifiche in alcuni settori. Il Sì vinse col 74 per cento. Il movimento indipendentista scozzese guadagnò sempre più spinta e consensi, finché nel 2014 l’SNP chiese di tenere un altro referendum, stavolta sull’indipendenza dal Regno Unito. Il primo ministro britannico di allora, il conservatore David Cameron, accettò confidando nel fatto che il sostegno per l’indipendenza fosse ancora piuttosto scarso.
Il risultato finale, 55 per cento di voti per il No e 45 per il Sì, ottenne l’effetto di galvanizzare l’SNP, che da allora ha stravinto tutte le elezioni anche grazie a una popolarissima prima ministra entrata in carica poco dopo il referendum perso, Nicola Sturgeon.
Durante il suo mandato Sturgeon ha parlato più volte della necessità di tenere un secondo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito, anche perché nel frattempo era successa una cosa importante. Nel 2016 in tutto il Regno Unito si era tenuto un referendum per uscire dall’Unione Europea, su Brexit. Anche in questo caso Cameron accettò di organizzarlo, scommettendo sulla vittoria del No: vinse il Sì, col 51,89 per cento dei voti. La Scozia però fu il pezzo di Regno Unito in cui fu registrato il consenso più alto per rimanere all’interno dell’Unione Europea, col 62 per cento dei voti.
La Scozia era un discreto beneficiario dei fondi strutturali dell’Unione Europea, erogati soprattutto ai paesi più poveri e periferici: fra il 2014 e il 2020 aveva ricevuto dall’Unione circa un miliardo di euro.
In Scozia esistono solo due partiti apertamente euroscettici: la sezione locale dei Conservatori, che dalla creazione del parlamento scozzese nel 1999 è sempre stata all’opposizione, e il piccolo Partito della Famiglia. Alle ultime elezioni per il parlamento scozzese ha ottenuto lo 0,59 per cento dei voti.
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Negli anni della pandemia, poi, «c’è stato un grosso aumento delle persone che si dicevano a favore dell’indipendenza», spiega Susan Murray, direttrice del think tank scozzese David Hume Institute. Il consenso per l’indipendenza va spesso di pari passo con quello per l’SNP. In quei mesi il governo Sturgeon fu molto lodato per il suo approccio prudente e più in linea con i paesi dell’Europa occidentale rispetto a quello del governo britannico, e aveva indici di gradimento altissimi. Per tutto il 2020 e buona parte del 2021 nei sondaggi sull’indipendenza dal Regno Unito il Sì è stato in vantaggio.
Poi si è rotto qualcosa.
Cos’è successo di recente
A novembre del 2022 la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito in via definitiva che la Scozia non può chiedere un referendum sull’indipendenza senza l’approvazione del governo o del parlamento britannico.
Sturgeon si è dimessa all’inizio del 2023, a sorpresa, dicendo di non avere più le energie per continuare a fare il suo lavoro. Poco dopo suo marito Peter Murrell, fino a quel momento presidente dell’SNP, è stato accusato di essersi appropriato di più di 700mila euro di fondi del partito, con i quali sembra che fra le altre cose abbia acquistato un camper per sua madre, la suocera di Sturgeon. Murrell nega tutte le accuse, mentre Sturgeon sostiene di non aver mai saputo nulla dei presunti traffici del marito.
Le dimissioni di Sturgeon sono arrivate in maniera così inaspettata che l’SNP non era per nulla pronto a sostituirla. A marzo le lunghe e dolorose primarie interne sono state vinte da Humza Yousaf con appena il 51,1 per cento, poche migliaia di voti più dell’avversaria Kate Forbes. Yousaf è considerato il candidato della continuità con la fazione di Sturgeon, Forbes era espressione di una generazione più giovane (ha 33 anni) ma anche più conservatrice rispetto ad alcuni temi, fra cui l’aborto e i diritti civili.
I primi mesi da primo ministro di Yousaf sono stati piuttosto disastrosi. Né lui né l’SNP hanno chiarito precisamente se e quali priorità cambieranno rispetto agli anni di Sturgeon, preferendo aspettare una conferenza del partito che si terrà a giugno. Lo stesso giorno del suo primo grande comizio politico la polizia scozzese ha arrestato il tesoriere del partito Colin Beattie nell’ambito dell’indagine sul marito di Sturgeon.
Non aiuta il fatto che Yousaf sia un politico molto meno carismatico di Sturgeon. Il 24 maggio un sondaggio dell’istituto YouGov ha stimato che alle prossime elezioni britanniche, che si terranno al massimo entro un anno e mezzo, l’SNP potrebbe perdere poco meno di metà dei 51 seggi che controlla oggi alla Camera del parlamento britannico. Il giorno dopo lo Scotsman, il principale quotidiano scozzese, ha titolato che a seguito della diffusione del sondaggio l’SNP è entrato in modalità «contenimento dei danni».
Dall’inizio del 2023 una media dei sondaggi sull’indipendenza dal Regno Unito indica che il No è ormai stabilmente avanti di qualche punto rispetto al Sì.
Non solo il camper
La popolarità di Sturgeon e del suo governo e il dibattito intorno all’indipendenza del Regno Unito hanno fatto sì che per anni questioni molto significative passassero in secondo piano, nel dibattito pubblico.
«Per molto tempo si è parlato soltanto di indipendenza e di Nicola Sturgeon. La possibilità di parlare di salute, scuola, economia non scaldava», spiega per esempio Chris Deerin, commentatore degli affari scozzesi per la rivista progressista The New Statesman e direttore del think tank Reform Scotland. Secondo Deerin, che dice di non avere una posizione netta sull’indipendenza, per molti anni gli scozzesi hanno tenuto «un dibattito costituzionale senza fine che ha oscurato tutto il resto». Il risultato è che solo ora, in una fase di stallo dell’SNP, ci si è accorti di tutto quello che non funziona: cosa che a sua volta sta facendo perdere ulteriori consensi al partito.
Diversi indicatori, in effetti, raccontano di un paese fermo su moltissimi fronti.
«Le tre sfide principali che al momento dominano il dibattito politico sono la povertà e la disuguaglianza, e in particolare la povertà minorile, la transizione verso l’azzeramento delle emissioni nette e il miglioramento dei servizi pubblici», spiega David Hawkey, del think tank britannico Institute for Public Policy Research (IPPR).
In Scozia il 17 per cento della popolazione, circa 930mila persone, vive in povertà assoluta, cioè non è in grado di permettersi l’acquisto di una serie di beni essenziali. È un dato sostanzialmente uguale a quello di trent’anni fa. In Italia nel 2021 le persone in povertà assoluta erano circa il 9,4 per cento della popolazione. In Scozia un bambino su quattro vive in povertà relativa, cioè la sua famiglia ha difficoltà ad acquistare beni essenziali: è lo stesso livello registrato nel 2007, anno in cui si insediò il primo governo guidato dall’SNP.
Il settore sanitario, l’NHS, è in pessime condizioni. Ancora oggi ci sono poco meno di settemila persone che stanno aspettando da più di due anni un’operazione. I medici con meno anni di carriera stanno chiedendo ingenti aumenti di stipendio, e minacciano uno sciopero che potrebbe mettere in crisi l’intero sistema sanitario.
La Scozia, fra l’altro, è da tempo il paese europeo col maggior numero di morti annuali collegate all’abuso di droga. Molte persone tossicodipendenti vivono per le strade di Edimburgo e Glasgow e sono molto visibili nelle vie più centrali, dove è più probabile che ottengano dell’elemosina. Nel 2022 soltanto a Edimburgo sono morte almeno 40 persone senzatetto, più di quelle morte nel 2020 e nel 2021 messe insieme. A Genova, una città italiana simile per popolazione del comune e della provincia, nel 2022 sono morti 4 senzatetto.
Nel 2021 un rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che si occupa di studi economici) criticò duramente il programma scolastico nazionale per gli studenti di eccellenza, che fino a una decina di anni prima era lodato in tutto il mondo. La giustizia, invece, ha tempi lunghissimi: nel gennaio del 2023 la Corte Suprema aveva 600 casi da esaminare, il numero più alto di sempre. La sanità, la scuola, la giustizia e in parte l’economia sono settori in cui la Scozia ha un’autonomia quasi totale dal governo centrale britannico.
L’SNP ha attuato o sta attuando diverse proposte per risolvere questi problemi: per esempio da qualche anno eroga un sussidio da 25 sterline alla settimana, circa 30 euro, per ogni bambino a rischio di povertà. Per evitare lo sciopero dei medici con meno anzianità ha proposto l’aumento di stipendio più alto fra i vari sistemi sanitari regionali del Regno Unito, mentre negli ultimi mesi ha permesso che cinema e teatri venissero usati come aule di tribunale per ridurre le liste di attesa.
Secondo alcuni commentatori, questi sforzi non sono bastati. «I dati sulla scuola non sono granché dopo 16 anni, i dati sui servizi pubblici non sono granché dopo 16 anni, l’economia non sta girando bene come ci si aspettava. Questi per me sono dei grossi fallimenti, mentre i successi sono molto limitati», spiega Deerin. «Da 25 anni il parlamento scozzese ha il controllo totale su sanità e scuola: perché dal 2007 a oggi l’SNP non si è dato come obiettivo quello di avere il miglior sistema scolastico al mondo? Ecco cosa dovrebbe fare, per convincere uno come me della necessità di ottenere l’indipendenza».
Deerin non è il solo a ritenere che in questi anni l’SNP abbia fatto leva sugli aspetti più astratti dell’indipendenza senza scendere nei dettagli e spiegare cosa cambierebbe sul piano concreto per gli scozzesi. Qualche mese fa Michael Keating, politologo esperto di Scozia dell’università di Aberdeen, spiegava al New York Times che l’SNP avrebbe dovuto fare più «compiti a casa» per convincere gli indecisi dei benefici dell’indipendenza.
Una prospettiva diversa
Altri, invece, ritengono che i limiti delle politiche dell’SNP e più in generale del governo scozzese siano dovuti al fatto che non è completamente autonomo da quello britannico. «Per generazioni la Scozia ha pagato un prezzo per non essere indipendente», ha detto Sturgeon l’estate scorsa in un discorso al parlamento scozzese. «Troppo spesso governi britannici che non votiamo, e che impongono misure che non appoggiamo, ci hanno frenato dal realizzare il nostro potenziale».
La questione dei poteri limitati di un governo che ha un’autonomia molto circoscritta non esiste soltanto dentro l’SNP.
«Nel discorso pubblico scozzese esiste una dinamica che chiamiamo “gap dell’attuazione”», spiega Hawkey, analista del think tank IPPR: «Il governo scozzese propone molte misure, una visione coraggiosa, a volte anche per reazione a quello che percepisce stia accadendo a livello centrale. Concretizzare le misure ambiziose in politiche concrete, che fanno la differenza, rimane una sfida».
Hawkey fa l’esempio della transizione verso un’economia più sostenibile. Il governo scozzese si è imposto una riduzione del 75 per cento delle emissioni nette entro il 2030, uno degli obiettivi più ambiziosi fra i paesi occidentali. Ad oggi però non ha le risorse economiche per realizzarlo: gran parte delle risorse del suo bilancio vengono erogate ogni anno dal governo centrale, calcolate con criteri fissi. Il governo scozzese per esempio ha una limitatissima capacità di finanziarsi prendendo soldi in prestito, facoltà di cui invece fanno largo uso tutti i paesi indipendenti.
Un altro settore in cui il governo scozzese ha pochissima autonomia riguarda l’immigrazione: la Scozia è giudicato un paese estremamente tollerante verso i migranti, e persino la sezione locale del Partito Conservatore britannico, che ormai da anni si è spostato molto a destra sul tema a livello nazionale, ha posizioni più centriste. La Scozia accoglie una quota proporzionalmente più alta di richiedenti asilo rispetto al resto del Regno Unito, ma è pur sempre una quota fissa decisa dal governo centrale.
Nel 2021 soltanto il 7,4 per cento di chi viveva in Scozia non era cittadino britannico: e il 58 per cento dei migranti provenivano comunque dall’Unione Europea. Sono numeri in aumento negli ultimi anni ma molto bassi in un paese che per sostenersi avrebbe bisogno di famiglie giovani con molti figli, come sono spesso quelle dei migranti, dato che sta invecchiando rapidamente: nel 2021 per la prima volta nella storia in Scozia la percentuale degli over 65 ha superato quella di ragazzi e ragazze che hanno meno di 15 anni.
Tutti questi problemi non si risolverebbero subito dopo avere ottenuto l’indipendenza: anche perché il processo per rientrare nell’Unione Europea una volta usciti dal Regno Unito durerebbe molti anni, durante i quali la Scozia vivrebbe in una specie di limbo. E in cui l’economia scozzese andrebbe riorientata. Oggi i suoi principali partner sono gli altri paesi del Regno Unito, con cui però dovrebbe ricostruire una barriera fisica per le merci in caso di riammissione nell’Unione Europea. In più ancora oggi la Scozia esporta fuori dal Regno Unito soprattutto petrolio estratto nei suoi mari: un bene il cui consumo sarà sempre più limitato, nei paesi occidentali.
Al momento, fra l’altro, dal punto di vista politico i consensi dell’SNP sono minacciati da un partito Laburista molto forte a livello nazionale, che su molte questioni ha proposte progressiste del tutto simili a quelle dell’SNP: un eventuale cattivo risultato alle elezioni britanniche del prossimo anno potrebbe aprire un circolo vizioso e portare l’SNP a un risultato modesto alle prossime elezioni del parlamento scozzese, previste per il 2026. In questo caso la questione dell’indipendenza passerebbe ancora di più in secondo piano.
Nonostante tutto questo, il parlamentare dell’SNP Alasdair Allan rimane ottimista sulle prospettive di una Scozia indipendente. «Sono vecchio abbastanza per ricordare che una volta il dibattito girava intorno a concedere o meno un parlamento, alla Scozia: e quello fu un primo passo molto grande», ricorda. «Credo che l’indipendenza arriverà. Ma non sono una di quelle persone che ritengono che sarà inevitabile: dobbiamo lavorarci, le persone devono essere convinte».