In cima all’Everest per la prima volta
La grande storia di come Edmund Hillary e Tenzing Norgay fecero la prima salita documentata della montagna più alta del mondo
di Emanuele Menietti
Edmund Hillary fece ancora qualche passo nella neve, era stremato eppure quello era uno dei giorni più belli della sua vita. Gli venne incontro George Lowe, uno dei compagni della spedizione contento di vedere Hillary e Tenzing Norgay vivi e in attesa di notizie sulla loro impresa. Hillary, avrebbe raccontato in seguito, non perse tempo e disse entusiasta e ancora incredulo: «Beh George, l’abbiamo battuto, il bastardo!». Era il 29 maggio del 1953 e Hillary e Norgay erano diventati i primi a documentare la salita fino alla cima del monte Everest, il loro “bastardo”, la montagna più alta del mondo.
Quell’impresa è considerata ancora oggi una delle più importanti nella storia dell’alpinismo, non tanto per le difficoltà tecniche dell’ascesa, ma soprattutto per la collaborazione e lo spirito di squadra mantenuto dalla spedizione artefice di quel risultato. Compatibilmente con le disponibilità dell’epoca, furono sperimentate nuove tecnologie e attrezzature, alcune rudimentali e diverse da quelle che impiegano ogni anno le centinaia di persone che raggiungono la cima dell’Everest, sempre più trafficata di alpinisti negli ultimi anni.
Quando Hillary e Norgay raggiunsero gli 8.848 metri della vetta era passato poco più di un secolo da quando l’Everest era stato identificato con certezza come la montagna più alta del mondo. L’area dell’Himalaya era studiata da tempo, ma le spedizioni scientifiche che misuravano l’altezza delle sue cime dovevano fare i conti con le difficoltà nell’ottenere dai governi locali i permessi per condurre le rilevazioni. In particolare, la totale chiusura del Nepal agli occidentali rendeva impossibile l’osservazione da distanze ravvicinate di alcune delle montagne più importanti e alte.
Grazie alle rilevazioni effettuate da un gruppo di lavoro del Sovrintendente generale dei rilevamenti dell’India, gestito dai britannici che avevano un crescente controllo sul paese, nel 1852 il matematico indiano Radhanath Sikdar fu il primo a identificare l’Everest come la montagna più alta del mondo, e non il vicino Kangchenjunga come si credeva all’epoca. Sarebbero comunque stati necessari diversi anni prima che il calcolo venisse confermato e condiviso da altri gruppi di ricerca.
All’epoca per i britannici la montagna non si chiamava nemmeno ufficialmente Everest, ma “Peak XV”, dal numero di catalogazione delle cime himalayane. Intorno a metà Ottocento, non trovando un nome locale condiviso e chiaro (la montagna aveva avuto vari nomi dati da popolazioni diverse, trovandosi in un’area di confine), era stato proposto “Everest” in onore di George Everest, che aveva servito come Sovrintendente in India, nonostante questi si fosse opposto al suo utilizzo perché non sarebbe stato possibile tradurlo nelle lingue locali. Alla fine la proposta fu accettata dalla Royal Geographical Society britannica e il monte assunse il nome che utilizziamo ancora oggi. La più importante montagna asiatica, tra Nepal e Tibet, era stata misurata e nominata dall’Occidente. Ora gli occidentali volevano scalarla.
Non potendo passare dal Nepal, i cui confini erano chiusi agli stranieri, l’unica via praticabile verso la vetta era sul lato nord della montagna passando dal Tibet. Ottenuti i permessi, ci provò una prima spedizione britannica nel 1921 a cui partecipava George Mallory, che negli anni successivi sarebbe stato tra i più importanti promotori di nuove spedizioni sempre organizzate dal Regno Unito. Nel 1922 una spedizione non raggiunse la cima, ma fu la prima a superare gli 8mila metri di quota, anche grazie all’impiego di respiratori collegati a bombole di ossigeno, per compensare l’aria altamente rarefatta a quelle altitudini.
In una citazione che gli viene attribuita e che diventò celebre tra gli appassionati di montagna, alla domanda sul perché volesse tanto scalare l’Everest Mallory rispose: «Perché è lì». Due anni dopo il primo tentativo fu costretto a tornare indietro a causa delle pessime condizioni meteo, che lo indussero comunque a provarci di nuovo.
Partito l’8 giugno del 1924 insieme a Andrew Irvine, Mallory tentò una via sul versante nord alquanto ripida che gli avrebbe permesso di raggiungere il grande spartiacque con il versante orientale e risalire poi in cresta verso la cima. Fu la sua ultima scalata. Né Mallory né Irvine fecero ritorno, i resti del primo furono ritrovati solo nel 1999. Ancora oggi si discute se allora fossero riusciti a raggiungere la vetta, 29 anni prima dell’ascesa effettuata e documentata da Hillary e Norgay.
Negli anni seguenti, i tentativi di raggiungere la vetta dell’Everest dal Tibet svolti dai britannici – che per questioni politiche ebbero più facilità di accesso al paese fino alla sua annessione da parte della Cina – si rivelarono infruttuosi. Le cose cambiarono dopo la Seconda guerra mondiale. Mentre il Tibet era diventato inaccessibile, il Nepal aveva iniziato a rivedere le proprie politiche di totale chiusura e a consentire l’accesso ad alcune spedizioni per lo più scientifiche.
All’inizio degli anni Cinquanta, il governo nepalese concesse l’ingresso a una spedizione svizzera per scalare l’Everest passando dal versante sud-ovest. Per il Regno Unito fu un grande smacco, perché c’era la concreta possibilità che gli svizzeri riuscissero nel loro intento, sperimentando una via più praticabile, per lo meno sulla carta.
L’alpinista svizzero Raymond Lambert raggiunse gli 8.600 metri di altitudine insieme a Tenzing Norgay, lo sherpa che all’epoca aveva 38 anni e che avrebbe poi compiuto l’impresa con Hillary. Non riuscirono a raggiungere la vetta e dovettero rinunciare, puntando su un secondo tentativo che furono poi costretti ad abbandonare a causa dei forti venti e del freddo.
I britannici accolsero con sollievo il fallimento degli svizzeri, pur essendo consapevoli di avere poco tempo a disposizione a causa della crescente concorrenza. Avevano ottenuto dal Nepal un permesso per tentare l’ascesa nel 1953, mentre una spedizione francese lo aveva ottenuto per il 1954 e poi ancora la Svizzera per il 1955. Se qualcosa fosse andato storto nel 1953, il Regno Unito non avrebbe potuto riprovare prima di tre anni, arrivando probabilmente secondo se non terzo sulla cima più alta del mondo.
Il Comitato congiunto himalayano – formato dalla Royal Geographical Society e dal Club Alpino britannici – affidò la responsabilità della spedizione a John Hunt, un colonnello dell’esercito in servizio al Comando supremo delle potenze alleate in Europa, preferendolo all’alpinista Eric Shipton che aveva seguito alcune fasi preparatorie della missione (la scelta portò a molte polemiche e qualche malumore). Hunt era stato in precedenza sull’Himalaya e si era anche candidato per partecipare a una spedizione sull’Everest negli anni Trenta, venendo scartato per problemi di salute.
A inizio marzo del 1953 la spedizione raggiunse il Nepal e lasciata la capitale Katmandu si stabilì due settimane dopo nella zona di Tengboche, un villaggio nel nord-est del paese a circa 3.900 metri di altitudine. La missione comprendeva un nucleo principale di una trentina di persone, per lo più alpinisti britannici, e oltre 350 portatori. Norgay si era fatto notare l’anno prima con la spedizione svizzera, mentre Hillary, di origini neozelandesi, era poco conosciuto, ma a detta dei suoi compagni a 33 anni aveva una grande determinazione.
Settant’anni fa l’Everest era ancora una montagna poco esplorata, non c’erano campi base come li intendiamo oggi né vie stagionalmente aperte per raggiungere la vetta. Scalarlo significava portarsi alcune tonnellate di attrezzatura, cibo, tende e altro materiale il più in alto possibile, in modo da dare sostegno e assistenza alle squadre di poche persone che avrebbero poi tentato la scalata fino alla vetta.
Mentre i membri della spedizione si acclimatavano all’alta quota, Hunt organizzò un piano che comprendeva la possibilità di compiere tre distinti “assalti” alla vetta condotti da altrettante coppie di scalatori. I tempi erano stretti: se i tentativi in primavera non fossero andati a buon fine, si sarebbe dovuto attendere l’autunno per tentare dopo il passaggio del monsone.
Il 12 aprile fu stabilito un campo base a 5.455 metri, provvedendo poi ad aprire una via più praticabile per consentire ai portatori di trasferire tutto il materiale. Il passaggio fu ricavato nella seraccata del Khumbu, una lunga lingua di ghiaccio sul fianco meridionale del monte. Nei giorni seguenti furono stabiliti campi di minori dimensioni via via più in quota fino a raggiungere il Colle Sud, una sella a 7.900 metri, che mette in comunicazione la cima dell’Everest con il Lhotse, la quarta montagna più alta del nostro pianeta.
Il 26 maggio la coppia di alpinisti composta da Tom Bourdillon e Charles Evans condusse il primo assalto, ma ebbe un imprevisto con il sistema di riciclo dell’ossigeno che veniva impiegato per aumentare l’autonomia delle bombole per respirare. Raggiunsero la cima Sud dell’Everest a 8.749 metri, la seconda vetta più alta della Terra, ma nonostante mancassero 130 metri alla meta furono costretti a tornare indietro a causa del poco tempo a disposizione e della carenza di ossigeno.
Il giorno seguente le condizioni meteo erano ancora favorevoli e Hunt decise di far partire subito la coppia composta da Edmund Hillary e Tenzing Norgay dal campo base. Rimasero un paio di giorni bloccati al Colle Sud a causa del forte vento, con un gruppo di supporto. Il 29 maggio alle 6:30 del mattino lasciarono la tenda che avevano piantato a 8.500 metri e meno di tre ore dopo erano alla cima Sud.
Davanti a loro avevano un difficile passaggio da compiere: una parete di roccia pressoché verticale di una dozzina di metri. Hillary e Norgay si fecero strada scalando la spaccatura di quel grande gradino naturale tra neve e roccia, un’impresa a 8.790 metri con gli impedimenti di parte dell’attrezzatura. Quel gradino divenne in seguito noto come il “gradino Hillary” e sarebbe rimasto per decenni uno dei passaggi più difficili per arrivare in vetta, fino al 2015 quando il forte terremoto in Nepal lo fece crollare rimodulando la cresta.
Superato il gradino, Hillary e Norgay continuarono a salire con relativa facilità, senza avere bene idea di quanto potesse durare ancora la loro scalata. La pendenza si fece via via meno marcata e infine i due capirono di avere raggiunto la vetta dell’Everest. Erano le 11:30 e intorno a loro si apriva un panorama sconfinato sui ghiacciai, le creste e le cime dell’Himalaya.
Scattarono alcune fotografie, Hillary seppellì nella neve una croce che gli aveva consegnato Hunt, mentre Norgay alcuni dolciumi, in segno di offerta a Qomolangma, il nome tibetano con cui viene chiamato l’Everest, e cioè una divinità madre del mondo. Rimasero una quindicina di minuti sulla vetta, a tratti senza indossare le maschere per l’ossigeno. Poi iniziarono la discesa, stanchi e un poco intontiti, forse dalla temporanea mancanza di ossigeno o forse dall’incredulità per l’impresa appena compiuta.
Incontrarono George Lowe che li attendeva lungo la via del ritorno e fu in quel momento che Hillary se ne uscì con la frase sul bastardo appena battuto. I tre arrivarono al “campo base avanzato” e fu in quel momento che Hunt scoprì che la missione aveva raggiunto il suo obiettivo. Lo stupore e la gioia furono filmati da Tom Stobart, che in seguito avrebbe prodotto il film La conquista dell’Everest, candidato come miglior documentario agli Oscar.
La notizia arrivò al campo base il 30 maggio e fu raccolta dal giornalista del Times di Londra James Morris, unico inviato ad avere avuto accesso alla spedizione. Per evitare che qualcuno gli rubasse lo scoop, scrisse un messaggio in codice che fu affidato a un corriere che lo portò fino al primo villaggio in grado di inviare telegrammi in Nepal. Il messaggio fu inviato all’ambasciata britannica a Katmandu e in seguito telegrafato a Londra.
Prima di partire per seguire la spedizione, Morris aveva stabilito una serie di messaggi in codice per la trasmissione delle informazioni. Il telegramma diceva: «Brutte condizioni della neve – STOP – Campo base avanzato abbandonato ieri – STOP – In attesa di miglioramenti». La prima frase nel codice significava che la vetta era stata raggiunta, la seconda faceva riferimento a Hillary e la terza a Norgay. Il messaggio fu reso pubblico a Londra il 2 giugno, dando ancor più lustro a quello stesso giorno in cui veniva incoronata la regina Elisabetta II.
Il ritorno della spedizione dal campo base fu accompagnato da grandi festeggiamenti in Nepal e in India. Nonostante i loro componenti avessero in più occasioni evidenziato l’importanza del lavoro di squadra, iniziarono a circolare indiscrezioni e speculazioni su chi per primo tra Hillary e Norgay avesse raggiunto la vetta. Politici locali e nazionali dei paesi coinvolti cercavano di intestarsi il primato, mettendo in circolazione voci e commenti che venivano poi ripresi dai giornali. Per i due alpinisti fu un momento difficile, anche perché il gruppo della spedizione era sempre stato unito e non aveva avuto particolari screzi.
Nel 1955 Tenzing Norgay disse che Hillary aveva raggiunto per primo la cima, ma in seguito lo stesso Hillary chiarì di avere raggiunto il risultato insieme al suo compagno di avventura: «Erano le 11:30 ed eravamo in cima all’Everest». In successive interviste, entrambi gli scalatori e altri membri della spedizione spiegarono di non avere mai pensato a fare distinzioni per qualche metro, perché lo sforzo era stato collettivo e nessuno dei due sarebbe riuscito a raggiungere la vetta senza l’aiuto dell’altro e il lavoro di tutti gli altri partecipanti alla missione.
Oltre a proseguire le attività alpinistiche, Norgay iniziò a interessarsi al nascente settore turistico in Nepal e nei paesi vicini. Alla fine degli anni Settanta fondò una compagnia turistica per escursionisti nell’Himalaya. Nel 1986 morì a 71 anni a causa di una emorragia cerebrale, rimanendo uno dei personaggi più in vista e rispettati della storia recente del Nepal.
Anche Edmund Hillary mantenne un particolare attaccamento per l’Himalaya e negli anni seguenti all’impresa sull’Everest scalò una decina di altre cime della catena montuosa. Ma raggiunse anche il Polo Sud e il Polo Nord, inoltre si dedicò alla ricerca dello yeti, mostrando che c’erano spiegazioni razionali per escludere l’esistenza di un “abominevole uomo delle nevi”. Dedicò una parte importante della propria vita e delle proprie risorse economiche per iniziative benefiche nei confronti degli sherpa, promuovendo la costruzione di ospedali e scuole nell’Himalaya. Morì l’11 gennaio del 2008 a 88 anni.
Dal 2015 il nome dei due scalatori è stato attribuito ad altrettanti complessi montuosi su Plutone, a una distanza media di 6 miliardi di chilometri dal monte Everest.