Quattro risposte sulla vittoria di Erdogan in Turchia
Perché ha vinto di nuovo nonostante le condizioni sfavorevoli? Cosa succederà adesso al paese? Ci sono stati brogli?
di Eugenio Cau, foto e video di Valentina Lovato
Domenica il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha vinto il ballottaggio delle elezioni, ottenendo un nuovo mandato da cinque anni. La sua vittoria, che dopo il primo turno era piuttosto attesa, è stata ottenuta grazie a una serie di fattori piuttosto sorprendenti: nei mesi scorsi, per gran parte della campagna elettorale, i sondaggi avevano dato avanti il suo avversario, il candidato delle opposizioni Kemal Kilicdaroglu. È un risultato elettorale che potrebbe portare importanti cambiamenti in Turchia: cerchiamo di rispondere ad alcune domande su com’è arrivato e su cosa potrà succedere.
Perché Erdogan ha vinto di nuovo?
Agli occhi di molti analisti, le elezioni di maggio erano sembrate l’occasione perfetta a disposizione dell’opposizione per battere Erdogan dopo vent’anni ininterrotti al potere. Il presidente turco era indebolito dalla cattiva gestione dell’economia e del terremoto di febbraio e l’opposizione aveva creato una grande coalizione elettorale per cercare di far leva sui sentimenti di stanchezza e di malessere che erano piuttosto percepibili nella società turca. Tutto questo non è bastato ed Erdogan ha vinto ancora, benché di un margine piuttosto ristretto.
La ragione principale di questa vittoria, probabilmente, è che l’opposizione non è riuscita a superare le grandi divisioni sociali e religiose che Erdogan è sempre stato bravissimo a sfruttare nella sua lunga ascesa al potere. Fin dall’inizio della sua carriera, si è proposto come il difensore e il portavoce di quelle ampie fasce della popolazione turca che vivono nelle zone centrali del paese e in regioni economicamente arretrate e molto legate alla religione islamica, lontano dalle grandi città come Istanbul, Ankara e Smirne. Gli elettori di queste grandi regioni, come l’Anatolia, sono da vent’anni fedeli a Erdogan e sono generalmente convinti che soltanto lui possa difendere le loro istanze, nonostante i grossi problemi degli ultimi anni.
Questo riguarda in gran parte anche la religione: il fatto che il CHP, il partito di Kilicdaroglu, sia stato il partito che per decenni prima di Erdogan aveva represso la pratica della regione islamica fa sì che agli occhi dei musulmani più conservatori sia impossibile votare per qualcuno che non sia Erdogan.
Nel corso della sua campagna elettorale, inoltre, Erdogan ha mobilitato i media e tutto l’apparato dello stato a suo favore, ottenendo in questo modo un enorme vantaggio in termini di visibilità e di attenzione che l’opposizione ha cercato di colmare usando i social media, ma con successi alterni.
Un’altra possibile ragione del successo di Erdogan è la debolezza dell’opposizione. Kemal Kilicdaroglu era l’unico candidato capace di tenere insieme i sei partiti molto differenti tra loro che componevano la coalizione dell’opposizione, ma al tempo stesso è stato giudicato quasi unanimemente un candidato non particolarmente carismatico.
L’opposizione è stata anche poco chiara nel suo messaggio elettorale: prima del primo turno Kilicdaroglu aveva impostato la sua campagna sulla solidarietà e il rispetto dei diritti, e il suo simbolo era diventato un cuore fatto unendo assieme le due mani. Dopo il cattivo risultato del primo turno, Kilicdaroglu si è spostato molto a destra, promettendo di cacciare i profughi dalla Turchia e sostenendo posizioni nazionaliste piuttosto marcate.
Ci sono stati brogli?
La risposta rapida è no, ma è complicato. Sia nel corso del primo turno sia nel corso del ballottaggio, l’opposizione ha denunciato alcuni brogli elettorali. Ci sono stati casi di intimidazioni ai seggi da parte di sostenitori di Erdogan, di persone che hanno votato due volte, e così via. La maggior parte degli analisti ritiene tuttavia che si tratti di casi isolati, e non di brogli sistematici, e che nel suo complesso i brogli denunciati non siano abbastanza estesi da aver determinato il risultato del voto.
Anche l’opposizione sembra d’accordo: né dopo il primo turno né, con ogni probabilità, dopo il ballottaggio ha presentato denunce formali davanti al Consiglio elettorale.
Se il voto è stato libero, è vero tuttavia che si è svolto in un sistema tutt’altro che imparziale, dove Erdogan è stato favorito in ogni circostanza (dai media, dagli apparati dello stato) e dove l’opposizione ha dovuto fare campagna elettorale in un clima a volte intimidatorio. Per esempio contro due dei principali esponenti dell’opposizione – il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, e la leader del CHP di Istanbul, Canan Kaftancioglu – sono in corso procedimenti giudiziari che la maggior parte degli analisti ritiene pretestuosi. Imamoglu è un politico piuttosto carismatico e forse un candidato migliore di Kilicdaroglu alla presidenza, ma il suo nome era stato scartato perché c’era il timore che, se si fosse candidato, il processo contro di lui sarebbe stato usato da Erdogan come un’arma politica.
E adesso cosa succede in Turchia?
Con la vittoria elettorale, Erdogan si è garantito un altro mandato della durata di cinque anni, e potrà rimanere al potere fino al 2028. Secondo la Costituzione turca questo dovrebbe essere il suo ultimo mandato, ma la Costituzione stessa gli concede uno spiraglio per rimanere al potere: se il parlamento (controllato dai partiti vicini a Erdogan) dovesse interrompere la legislatura prima della sua fine naturale, il presidente potrebbe candidarsi ancora una volta, e ottenere un nuovo mandato pieno. Alcuni analisti sono scettici sul fatto che lo farà davvero, perché una parte del suo elettorato potrebbe mal sopportare questo espediente. In ogni caso, nel suo primo discorso dopo la vittoria di domenica Erdogan – che ha 69 anni – ha detto: «Sarò qui finché non sarò nella tomba».
La rielezione di Erdogan sta creando grossa preoccupazione tra l’opposizione, le minoranze etniche e nella comunità LGBT+ turca: tutti temono che un presidente nuovamente legittimato dal voto possa amplificare e inasprire la sua campagna per rendere il sistema politico turco sempre più autoritario, e la società sempre più intollerante e aderente ai princìpi islamici. Non è ancora chiaro se questo succederà, ma è molto probabile che lo scontro politico rimarrà forte nei prossimi mesi, perché a marzo del 2024 in Turchia ci sono le elezioni locali, che saranno molto combattute.
Un elemento di preoccupazione più immediato è quello dell’economia. La Turchia si trova in una situazione economica molto problematica principalmente a causa delle scriteriate politiche monetarie di Erdogan, che hanno provocato un’inflazione altissima (attualmente è attorno al 50 per cento, ma è stata anche all’80) e una grave svalutazione della lira turca, la valuta locale. Negli ultimi mesi, per via della campagna elettorale, la Banca centrale turca manovrata da Erdogan ha esaurito tutte le sue riserve per cercare di sostenere il valore della lira. La Turchia ha anche accettato prestiti da miliardi di dollari da alcuni paesi amici, soprattutto nel Golfo Persico, che sono stati tutti spesi ancora una volta per sostenere la lira.
Questo sforzo ha avuto successo soltanto in parte: il valore della lira turca è comunque calato, anche se non drasticamente. Pochi giorni fa il cambio tra lira e dollaro statunitense ha raggiunto le venti lire per un dollaro, una soglia psicologica molto importante.
Il problema, inoltre, è che ora la Banca centrale turca ha praticamente terminato le risorse. Non soltanto non ha più riserve, ma per via dei prestiti internazionali, ha stimato l’Economist, si trova in debito di circa 70 miliardi di dollari. Il rischio è che, dopo aver resistito fino al momento del voto grazie agli interventi straordinari della Banca centrale, adesso la valuta e l’economia della Turchia subiscano un pesante crollo.
Cosa succederà all’opposizione?
Nel suo primo discorso dopo la sconfitta Kemal Kilicdaroglu non ha detto che si dimetterà da capo del CHP, il partito che guida ininterrottamente dal 2010. Molti però si aspettano che lo faccia nei prossimi giorni o nelle prossime settimane, anche se non è chiaro per ora chi potrebbe sostituirlo.
È inoltre molto probabile che la coalizione eterogenea che si era creata con l’obiettivo unico di sconfiggere Erdogan adesso si sciolga. I sei partiti che la compongono sono molto differenti tra loro e vanno dal centrosinistra secolare del CHP a partiti nazionalisti di destra a partiti islamisti. Il rischio maggiore è che, divisa e senza una guida forte, l’opposizione a Erdogan rischi di scadere nell’irrilevanza.
Bilge Yabanci, ricercatrice di Scienze politiche alla Northwestern University negli Stati Uniti e all’Università Ca’ Foscari di Venezia, sostiene però che all’indebolimento dell’opposizione politica non corrisponderà anche un indebolimento della società civile, che rimane invece molto combattiva contro il governo di Erdogan.