Le grandi rivolte di Istanbul, dieci anni fa
Il ballottaggio delle elezioni in Turchia coincide con l'anniversario delle proteste per il parco di Gezi: cambiarono la politica turca, e cambiarono anche Erdogan
di Eugenio Cau, foto e video di Valentina Lovato
Il parco di Gezi, a Istanbul, ha un valore enorme per la società e la politica della Turchia. Piazza Taksim, che è adiacente al parco, è probabilmente la più importante di tutto il paese: è uno dei luoghi simbolo dell’istituzione della repubblica turca, cent’anni fa, ed è da sempre il posto degli eventi politici, delle manifestazioni pubbliche, delle grandi proteste. Esattamente dieci anni fa, il 28 maggio del 2013, tra il parco di Gezi e piazza Taksim cominciarono le più importanti proteste di massa della storia turca recente contro il governo di Recep Tayyip Erdogan, che allora era primo ministro. Ancora oggi, a Istanbul, quando si chiede: «Tu eri a Gezi?», tutti sanno che si sta parlando di quello che successe dieci anni fa.
Per la società civile turca, Gezi è stato un momento formativo per migliaia di giovani che ancora considerano quelle proteste come il momento in cui hanno capito che volevano una Turchia diversa. Molti ritengono tuttavia che Gezi fu un momento formativo anche per Erdogan, e uno dei più importanti punti di svolta della sua carriera politica, che ha determinato il ricorso via via crescente a metodi di governo autoritari e alla progressiva restrizione delle libertà civili e politiche.
Il visitatore che oggi si trovasse a passeggiare nel parco di Gezi potrebbe rimanere un po’ deluso: è poco più che un giardinetto, un quadrato di poche decine di metri per lato, con qualche albero, i giochi per i bambini e poco altro. Ma un angolo del parco, da anni, è completamente transennato e presidiato dalla polizia, con camionette e mezzi corazzati. Ogni tanto vola anche un elicottero, sempre della polizia: è un segno che le tensioni attorno a Gezi non si sono mai del tutto placate. Nei violentissimi scontri tra i manifestanti e la polizia, che durarono per settimane, morirono 11 persone, e migliaia furono ferite.
A Gezi si cominciò a protestare per ragioni ambientaliste, contro un imponente progetto edilizio che prevedeva la costruzione, al posto del parco, di un centro commerciale, appartamenti di lusso e di una moschea. C’erano numerose ragioni per cui i cittadini di Istanbul non volevano che il parco fosse abbattuto: anzitutto perché il minuscolo giardinetto è l’unico parco pubblico presente in quella zona di Istanbul. In secondo luogo perché il progetto di costruire una moschea, in un posto fortemente legato alla tradizione repubblicana e secolare della Turchia, era percepito come un affronto dall’opposizione contraria a Erdogan.
I primi presidi contro l’abbattimento del parco di Gezi si formarono nella notte tra il 27 e il 28 di maggio del 2013. Inizialmente erano una cinquantina di attivisti ambientalisti che avevano piantato tende nel parco per cercare di fermare i mezzi venuti per distruggerlo. Il 28 maggio ci furono i primi scontri tra la polizia, che cercava di sgomberare il parco per fare avanzare le ruspe, e i manifestanti pacifici.
Secondo molti dei manifestanti che parteciparono a Gezi, non fu tanto la protesta in sé ad attrarre le persone al parco, quanto la spropositata repressione della polizia nei confronti di quei primi manifestanti e delle loro tende. Sui social network si sparse molto rapidamente la voce che la polizia stava attaccando violentemente un presidio a Gezi, e centinaia di persone accorsero a difenderlo. Nei giorni successivi, sarebbero diventate migliaia.
Nei primi giorni i manifestanti riuscirono a scacciare la polizia da Gezi e a occupare sia il parco sia piazza Taksim, con tende e barricate create alla buona. Nella zona occupata si creò una specie di cittadella autogestita dell’opposizione, con dibattiti e incontri, lezioni, discussioni politiche, biblioteche e concerti. È in quei giorni che si creò il mito di Gezi, che fu fondamentale per molti giovani turchi. «Era un paradiso», dice Nida Kara, che nei giorni di Gezi era una studentessa di Letteratura inglese a Istanbul e oggi è la portavoce di Citizen’s Assembly, una delle organizzazioni civiche più importanti della città. «C’era un’eguaglianza generalizzata e c’era la consapevolezza che tutti volevamo un paese migliore».
Un’altra persona che partecipò a Gezi e che oggi fa la professoressa di Legge in un’università di Istanbul (ha chiesto di non essere nominata per paura di subire ritorsioni) ha descritto così i giorni dell’occupazione: «Fu fantastico, fu straordinario, fu una cosa dell’altro mondo. Migliaia di persone si riunirono per chiedere a Erdogan: “Per favore, ascoltaci!”».
Nella cittadella occupata di Gezi molte persone rimanevano a dormire la notte, nelle tende, mentre molte altre andavano a dormire nelle proprie case per poi tornare la mattina dopo. Buona parte della città sosteneva i manifestanti di Gezi, che ricevettero l’appoggio dei partiti politici d’opposizione, di cantanti e attori, di numerose categorie professionali, e perfino delle principali squadre di calcio della città. Alcuni di loro hanno raccontato che, quando la sera tornavano a casa, le signore anziane di Istanbul si sporgevano dalle finestre battendo le pentole, per accoglierli e festeggiarli.
Da Gezi, le proteste si estesero prima alla città di Istanbul, e poi in tutta la Turchia. A Istanbul, benché la polizia si fosse ritirata da Gezi, continuarono gli scontri ai margini della piazza, e in altre zone della città per quasi due settimane ci furono cortei di manifestanti. La polizia rispose sempre in maniera estremamente violenta, sparando indiscriminatamente proiettili di gomma e lacrimogeni all’altezza delle persone. Da Istanbul la protesta si estese in molte città del paese, con modalità simili: cortei e piazze occupate. Ogni volta, la polizia rispondeva con violenza.
Si ritiene che in quei giorni, in tutta la Turchia, parteciparono alle proteste almeno tre milioni e mezzo di persone, su una popolazione di 80 milioni.
La protesta, che cominciò per ragioni ambientaliste, divenne molto rapidamente politica. Negli anni precedenti a Gezi, il governo di Recep Tayyip Erdogan si era fatto via via più autoritario. Erdogan vinse le sue prime elezioni (allora da primo ministro) nel 2002, e poi nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo maggioranze schiaccianti. Si fece via via più sicuro del suo potere, e cominciò a cercare di imporre la propria visione del mondo islamista anche sulla parte più laica della Turchia. Fu in quel periodo che il governo turco cominciò a minacciare la libertà di vendere alcolici e cercò di intromettersi pesantemente nelle vite delle persone: Erdogan, a un certo punto, disse che era disdicevole che le coppie di fidanzati si baciassero per strada e sostenne che le donne turche avrebbero dovuto fare almeno tre figli a testa. Fu sempre in quel periodo che cominciarono i primi arresti di oppositori e avversari, per reati che l’opposizione giudicava pretestuosi.
Le proteste di Gezi, in questo senso, divennero proteste contro il governo, e contro l’autoritarismo crescente di Erdogan.
Erdogan cominciò a sentirsi minacciato. Se all’inizio della protesta aveva definito i manifestanti come «teppisti», man mano che le cose andavano avanti cominciò a parlare di «terroristi», e ad accusarli di avere connessioni con vari gruppi terroristici e violenti. Effettivamente anche i manifestanti, nei giorni delle proteste, commisero atti di violenza e vandalismo, ma furono lievi e sporadici se paragonati alle misure estremamente violente che la polizia adottò contro di loro.
Le proteste di Gezi in realtà non hanno mai davvero costituito un pericolo per il governo turco, ma al tempo le primavere arabe avevano fatto capire che anche da manifestazioni relativamente marginali era possibile far partire grosse rivoluzioni. Per qualche giorno, dal 3 al 6 giugno del 2013, Erdogan lasciò perfino la Turchia: ufficialmente per una serie di incontri diplomatici in Marocco e altri paesi, ma molti manifestanti di Gezi sostengono (senza prove, in realtà) che lo fece perché temeva che le proteste si sarebbero estese fino ad arrivare a lui. Non lo fecero.
Dopo settimane di scontri durissimi, che provocarono morti e migliaia di feriti in tutto il paese, la polizia entrò nella cittadella di Gezi il 15 giugno del 2013: quella fu probabilmente la notte più violenta, in cui intere strade di Istanbul furono riempite dei gas lacrimogeni sparati dalla polizia. Anche i giornalisti furono presi di mira. Tutte le persone che erano a Gezi quella sera hanno almeno questo ricordo in comune: «non potevo respirare».
Dopo lo sgombero, la polizia creò un cordone di uomini e transenne attorno a piazza Taksim e al parco di Gezi, per evitare che i manifestanti potessero rientrare. Nei giorni successivi ci furono alcune scaramucce, e i più attivi tra i manifestanti cercarono di organizzare proteste e sit-in in altri parchi della città. Ma la protesta scemò abbastanza rapidamente, e tra luglio e agosto la situazione tornò tranquilla. Da allora la polizia non se n’è mai più andata dal parco di Gezi.
İsmet Akça, uno scienziato politico turco che partecipò alle proteste, dice che l’anarchia e la spensieratezza che resero eccezionale la cittadella occupata di Gezi fu anche il suo principale problema. «Non avevamo un centro politico che potesse coordinarci e decidere le strategie, mentre di fronte a noi avevamo lo stato turco, con la polizia e tutto il suo apparato repressivo». Akça tra le altre cose fa parte dei cosiddetti “Academics for Peace”, un’associazione di professori e accademici che, a partire dal 2012, chiedeva una risoluzione pacifica del conflitto tra la Turchia e la popolazione curda. Per questo molti di loro subirono una grave repressione e furono costretti a dimettersi dai loro incarichi accademici. Akça fu licenziato dal suo incarico all’Università tecnica di Istanbul nel 2017. Alcuni suoi colleghi subirono anche condanne penali.
Per molte persone che vi parteciparono, Gezi fu un momento di risveglio politico. Ovviamente solo una piccola frazione dei manifestanti di allora diventò attivista politica, ma molte persone ricordano Gezi come il momento in cui compresero che volevano una Turchia differente da quella di Erdogan. Secondo molti osservatori, Gezi fu un risveglio politico anche per Erdogan.
Nel 2013, l’allora primo ministro stava terminando i suoi primi dieci anni al potere, che sia in Turchia sia tra la comunità internazionale furono giudicati generalmente molto positivi. Nei suoi primi due mandati, Erdogan portò alla Turchia un’eccezionale crescita economica (il PIL più che triplicò) e fece uscire dalla povertà milioni di persone. Introdusse alcuni strumenti di previdenza sociale e avviò giganteschi progetti infrastrutturali che cambiarono l’aspetto di molte città, nonostante numerose controversie. In quel periodo, anche molte persone non islamiche e di centro o di centrosinistra votavano per Erdogan.
Più in generale, Erdogan era considerato in Occidente un leader democratico, che era riuscito a creare una sintesi tra l’islamismo da lui professato e la pratica della democrazia.
La brutale repressione delle proteste di Gezi cambiò per sempre il modo in cui l’Occidente vedeva Erdogan, e probabilmente cambiò anche il modo in cui Erdogan percepiva il sostegno politico nei suoi confronti. Dopo Gezi, Erdogan si convinse che le sue politiche sempre più conservatrici erano ormai inconciliabili con una parte consistente del paese e cominciò a «consolidare il suo elettorato in maniera più intensa e audace», dice İsmet Akça. «Posso dire che in quel momento creò uno stato politico più autoritario basato sulla polizia e sul sistema giudiziario, usando metodi più repressivi».
Gezi non fu certo l’unico momento di svolta per Erdogan (fu probabilmente ancora più importante il tentato colpo di stato del 2016), ma accelerò un processo di polarizzazione della politica turca che probabilmente era già in corso, ma che dopo le proteste e la repressione divenne inarrestabile.
Oggi dei movimenti che animarono Gezi rimane relativamente poco a Istanbul, anche se per molti la partecipazione alle proteste è ancora un segnale di riconoscimento: sapere che il tuo interlocutore è stato a Gezi significa sapere che sta dalla tua parte.
Negli anni successivi, il governo è riuscito a costruire una grande moschea adiacente a piazza Taksim, ma ha abbandonato l’idea di distruggere il parco per costruirci sopra un centro commerciale. Nonostante i presidi della polizia, nonostante la tensione, «è il 2023 e il parco è ancora lì», dice Nida Kara, l’ex studentessa.