La strage di via dei Georgofili a Firenze, 30 anni fa
Un furgone carico di tritolo esplose agli Uffizi, uccidendo cinque persone, in uno degli attentati mafiosi del biennio 1992-1993
All’1:04 della notte tra il 26 e 27 maggio del 1993 una bomba esplose a Firenze, in via dei Georgofili, a poca distanza dalla Galleria degli Uffizi. Morirono cinque persone. A piazzare la bomba fu Cosa Nostra, la mafia siciliana, ma questo venne accertato solo tempo dopo. Il boato si sentì in tutto il centro della città. All’inizio, e fino alle prime ore della mattina, le notizie riferirono di una possibile fuga di gas. A provocare l’esplosione erano stati invece 277 chili di tritolo posizionati in un furgoncino Fiat Fiorino lasciato in prossimità della Torre dei Pulci. L’esplosione provocò un cratere largo quattro metri e venti e profondo un metro e trenta.
Lo scoppio causò il crollo della Torre, che era sede dell’Accademia dei Georgofili. Morirono la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, le loro figlie, Nadia, di nove anni, e Caterina, che aveva due mesi. Nell’incendio che si propagò in alcune abitazioni morì anche uno studente universitario, Dario Capolicchio, che abitava nei pressi della Torre.
L’esplosione danneggiò il 25% delle opere d’arte presenti nella Galleria degli Uffizi e nel corridoio Vasariano. Alcune opere furono danneggiate in maniera molto grave e tra queste qualcuna fu completamente distrutta.
La bomba di via dei Georgofili fu uno degli attentati compiuti dalla mafia nel cosiddetto biennio delle stragi, tra il 1992 e il 1993. La strategia degli attentati fu decisa in una serie di riunioni della cosiddetta commissione regionale, che riuniva i capi di Cosa Nostra delle varie province siciliane, presieduta da Totò Riina. L’obiettivo era quello di intimidire lo Stato, in particolare politica e magistratura. Alla fine del 1991 si stava infatti concludendo il cosiddetto maxiprocesso a Cosa Nostra, iniziato nel 1986. Furono giudicati 460 imputati tra cui i maggiori esponenti di quella che veniva definita la cupola mafiosa, cioè il vertice di Cosa Nostra. Quando il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione confermò le condanne dei primi due gradi di giudizio, comprese quelle all’ergastolo per Totò Riina e altri capi mafiosi, la commissione regionale e la commissione provinciale di Palermo decisero di mettere in atto il piano che era già stato stabilito in precedenza.
I vertici mafiosi stabilirono di colpire innanzitutto alcuni politici considerati referenti di Cosa Nostra, e da cui Totò Riina e gli altri capi mafiosi si aspettavano interventi perché facessero annullare dalla Corte di Cassazione le condanne inflitte in primo e secondo grado nel maxiprocesso. Il 12 marzo 1992 fu ucciso Salvo Lima, leader in Sicilia della Democrazia Cristiana e, secondo quanto stabilito da processi successivi, referente politico di Cosa Nostra.
L’obiettivo successivo fu Giovanni Falcone, allora il più celebre giudice antimafia, colui che aveva istruito, con il pool palermitano guidato da Antonino Caponnetto, il maxiprocesso. Falcone fu ucciso il 23 maggio 1992 assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro nell’attentato di Capaci, lungo l’autostrada da Palermo all’aeroporto di Punta Raisi.
L’attentato successivo doveva essere realizzato per uccidere un altro politico democristiano: Calogero Mannino, all’epoca ministro nel governo Andreotti. Il progetto fu però accantonato. Il 19 luglio venne assassinato invece Paolo Borsellino, anche lui giudice del pool antimafia, molto vicino a Giovanni Falcone. Una bomba esplose in via D’Amelio, a Palermo, dove Borsellino era andato a trovare la madre. Oltre a Borsellino morirono cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Il 27 luglio 1992 la mafia assassinò a Catania l’ispettore capo Giovanni Lizzio; il 14 settembre a Mazara del Vallo ci fu un agguato al commissario Calogero Germanà, collaboratore di Borsellino: fu ferito, ma si salvò uscendo dalla sua auto, sparando e fuggendo in spiaggia. Il 17 settembre venne assassinato Ignazio Salvo, imprenditore palermitano legato a Salvo Lima, anche lui ritenuto ormai inaffidabile dai vertici mafiosi.
Il 15 gennaio 1993 Totò Riina venne arrestato. I capi mafiosi ancora liberi, tra cui Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Gioacchino La Barbera, decisero di iniziare a colpire personalità al di fuori delle istituzioni ma molto in vista. Fu anche stabilito di creare terrore in tutta Italia con attentati a monumenti molto frequentati e conosciuti. L’obiettivo era quello di indurre lo Stato ad attenuare l’intensità nella caccia ai latitanti mafiosi e costringere le istituzioni a quella che poi sarebbe stata chiamata la “trattativa Stato-mafia”, che però un recente processo ha stabilito non essere mai avvenuta. Obiettivo principale della mafia allora era che venisse cancellato l’articolo 41-bis, il particolare regime carcerario ampliato e modificato nel 1992 per impedire ai boss mafiosi di comunicare con l’esterno del carcere.
– Leggi anche: Il 41-bis per i mafiosi esiste da più di trent’anni
Il 14 maggio 1993 un’auto piena di esplosivo fu fatta scoppiare a Roma mentre stavano passando, a bordo di una macchina, il giornalista Maurizio Costanzo e la sua futura moglie, Maria De Filippi. La bomba esplose con qualche istante di ritardo e Costanzo e De Filippi rimasero illesi.
Il primo attacco a un luogo d’arte fu proprio quello compiuto in via dei Georgofili. Un collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, disse nel 2008 che gli obiettivi, tra cui quello di Firenze, erano stati scelti dai mafiosi consultando depliant e guide turistiche. L’attentato in via dei Georgofili e altri due successivi vennero decisi durante una riunione a cui parteciparono Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, lo stesso Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Giuseppe Barranca.
L’esplosivo venne confezionato in una casa di corso dei Mille, a Palermo. Quindi un gruppo mafioso andò, il 23 maggio, a Prato: da lì vennero effettuati alcuni sopralluoghi nel centro di Firenze. L’esplosivo arrivò a Prato nei giorni successivi, trasportato nel doppiofondo di un camion e nascosto in un garage appartenente allo zio di un mafioso. Il 26 maggio venne rubato il furgoncino Fiat Fiorino che venne portato nel garage. Poi, secondo quanto dissero i collaboratori di Giustizia, furono Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano a parcheggiare il Fiorino in via dei Georgofili.
La strategia stragista della mafia proseguì nei mesi successivi: il 26 luglio due auto cariche di esplosivo scoppiarono a Roma, davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro e a San Giovanni in Laterano. Poco prima degli attentati a Roma una Fiat Uno, precedente rubata da Spatuzza e Giuliano e riempita di esplosivo, scoppiò a Milano in via Palestro. Morirono il vigile urbano Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto e il cittadino marocchino Moussafir Driss.
Il 23 gennaio un’autobomba fu parcheggiata fuori dallo Stadio Olimpico, a Roma, dove si giocava la partita Lazio-Udinese. L’autobomba doveva esplodere alla fine della partita al passaggio di un pullman di carabinieri. Il telecomando, azionato da Spatuzza, però non funzionò: l’attentato fallì.
Le indagini sugli attentati del 1993 di Firenze, Roma e Milano furono riunite. Venne incaricata la procura di Firenze guidata da Piero Luigi Vigna. Il processo iniziò nel 1996: le posizioni di Totò Riina e Giuseppe Graviano vennero stralciate. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo di 14 mafiosi tra cui Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Salvatore Spatuzza. Nel 2000 anche Riina e Graviano vennero condannati all’ergastolo.
Nel 2008 Gaspare Spatuzza divenne collaboratore di giustizia: le sue dichiarazioni fecero riaprire le indagini sulle bombe del 1992-1993.
Nel 1994 la procura di Firenze aveva anche avviato l’indagine sui cosiddetti “mandanti occulti”. Vigna era infatti convinto che la mafia non avesse agito da sola ma avesse collaborato con pezzi deviati dei servizi segreti e con rappresentanti delle istituzioni. Vennero iscritti nel registro degli indagati anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’inchiesta venne archiviata definitivamente nel 2008.
Nel 2017 Silvio Berlusconi fu nuovamente iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Firenze dopo che Giuseppe Graviano, intercettato in carcere, aveva parlato di «una cortesia fatta a Berlusconi». Le intercettazioni vennero poi inserite nelle indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Si sarebbe trattato di tentativi di accordi tra membri delle istituzioni e vertici di Cosa Nostra perché cessassero le stragi mafiose; in cambio, secondo questa teoria, lo stato avrebbe allentato la pressione sulle cosche e avrebbe rivisto le norme di detenzione più rigide, come l’articolo 41-bis. Nel 2009, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di palermo Vito Ciancimino, disse che Totò Riina aveva messo a punto un elenco di richieste, il famoso “papello”, consegnato a suo padre che poi lo avrebbe trasmesso ad autorità del governo.
Nel 2012 la procura di Palermo chiese il rinvio a giudizio per numerosi mafiosi, per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, per i comandanti dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino e per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Nel novembre del 2015 Calogero Mannino, che aveva scelto di essere giudicato con il rito abbreviato, venne assolto per non aver commesso il fatto. Con il rito ordinario nel 2018 vennero condannati in primo grado Dell’Utri, Mori e Subranni a 12 anni di reclusione e a otto anni Giuseppe De Donno. Nel 2021 la Corte d’Appello ribaltò la sentenza di primo grado e assolse gli imputati. Il 27 aprile 2023 la Corte di Cassazione ha confermato le sentenze di assoluzione.
In occasione della sentenza della Cassazione l’associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili ha commentato le decisioni dei giudici con una nota in cui è scritto:
Siamo stupiti e delusi delle conclusioni del procedimento in Cassazione perché ben altri 5 giudizi precedenti avevano confermato [che] quella improvvida trattativa era stata l’antefatto della decisione della mafia di spostare i propri attacchi allo Stato nel 1993 a Firenze, Roma e Milano.