Don Milani e “la scuola come un ottavo sacramento”
Nacque il 27 maggio 1923, è ricordato ancora oggi per il modo in cui rovesciò i principi pedagogici prevalenti e per la sua rivoluzionaria scuola di Barbiana
«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che respingete. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate». L’incipit di Lettera a una professoressa è forse uno dei più conosciuti della recente letteratura italiana. Il libro l’aveva scritto don Lorenzo Milani, con otto suoi allievi. Era un prete, un maestro e un educatore che in un piccolo paese della montagna toscana fondò dal nulla una scuola popolare: la scuola di Barbiana. Il suo nome completo era Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti e nacque a Firenze il 27 maggio di cent’anni fa.
Lorenzo Milani apparteneva a una laica, ricca e raffinata famiglia fiorentina. Era pronipote del filologo Domenico Comparetti, e figlio di un colto chimico, Albano Milani. La madre, Alice Weiss, proveniva da una famiglia di ebrei boemi che si erano trasferiti a Trieste per lavoro. Lorenzo crebbe insieme al fratello Adriano e alla sorella Elena tra i libri, in un ambiente molto vivace dal punto di vista intellettuale. Nel 1930 la famiglia si spostò a Milano.
Lorenzo Milani aveva la passione della pittura e dopo la maturità classica non volle iscriversi all’università. Iniziò a frequentare lo studio del pittore tedesco Hans-Joachim Staude a Firenze e poi si iscrisse al corso di pittura all’Accademia di Brera a Milano dimostrando un sempre maggiore interesse per l’arte sacra e la liturgia. Nel 1943 si convertì al cattolicesimo ed entrò in seminario contro il volere dei genitori, che alla cerimonia della tonsura, l’atto d’ingresso alla vita ecclesiastica ora abolito, non parteciparono. Il 13 luglio del 1947 divenne sacerdote e venne assegnato come cappellano alla parrocchia di S. Donato a Calenzano, vicino a Firenze: ci abitavano 1.200 persone, braccianti, pastori, operai, perlopiù analfabeti.
Proprio per combattere l’analfabetismo, con un provvedimento del 17 dicembre del 1947 il governo istituì le scuole popolari. Potevano essere aperte «presso le scuole elementari, le fabbriche, le aziende agricole, le istituzioni per emigranti, le caserme, gli ospedali, le carceri e in ogni ambiente popolare, specie in zone rurali» in cui ce ne fosse bisogno. Nell’elenco non c’erano le parrocchie, ma non fu un problema per don Milani che colse quell’opportunità per crearne una a S. Donato Calenzano.
In classe si partiva dalla lettura dei giornali, si analizzavano i temi dell’attualità e ci si soffermava a lungo sulle parole difficili. C’erano operai e contadini, avevano tra i 15 e i 29 anni, erano iscritti a partiti e sindacati vari. Ogni venerdì c’erano conferenze con relatori che arrivavano dalla città: un veterinario parlò delle malattie degli animali, il direttore dell’osservatorio di Arcetri parlò di astrofisica, un camionista spiegò i motori e uno storico il socialismo.
Don Milani pensava che fosse dovere della Chiesa dare alla gente di cui era spiritualmente responsabile anche conoscenza e, dunque, capacità critica e libertà da una condizione di subordinazione sociale. A lui non interessava «tanto colmare l’abisso di ignoranza, quanto l’abisso di differenza», come scriverà poi nelle Esperienze pastorali. E per farlo occorreva innanzitutto intervenire sulla padronanza della lingua e del lessico. Ma, e questo è il punto centrale, non bastava una scuola uguale per tutti per avere una società di persone uguali («Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali», dirà più tardi). Ciò che serviva, come ha riassunto la storica Vanessa Roghi nel suo libro su don Milani La lettera sovversiva, era «invece un’educazione linguistica come vera e propria lotta di classe per chi gli ostacoli se li porta dentro». Non un’educazione che livella e che azzera ogni forma culturale diversa: poiché per don Milani, scrive sempre Roghi, «l’ambiente dei poveri è sì carente di stimoli culturali e linguistici, ma non per questo risulta povero di cultura».
Esperienze pastorali è un libro di 477 pagine, don Milani ci mise dieci anni a scriverlo. Venne pubblicato nell’aprile del 1958 e ritirato pochi mesi dopo dal Sant’Uffizio, erede dell’Inquisizione. Per la Curia non era un libro opportuno, ne vietò persino la traduzione. In sintesi era l’autobiografia di un sacerdote di campagna, ma anche un’inchiesta sociale che ragionava su cosa dovesse essere la parrocchia: non una cosa astratta, «una somma algebrica di individui», ma una comunità di persone, ognuna con la propria storia, le proprie sofferenze e ingiustizie subite. Nelle prime pagine del libro don Milani si chiedeva esplicitamente «perché la cultura religiosa degli adulti del nostro popolo» fosse «praticamente nulla» nonostante le statistiche dicessero che in media i fedeli avevano ricevuto centinaia di ore di insegnamento religioso. Per don Milani le feste religiose erano pura ritualità e gli oratori raccoglievano i ragazzi, li facevano giocare, ma non insegnavano loro a farsi domande. Non li formavano.
Il problema era dunque la mancanza di un’istruzione civile, la mancanza della scuola, che per don Milani era «sacra come un ottavo Sacramento»: «Sui giovani illetterati 1.000 ore di catechismo, un centinaio di prediche straordinarie, qualche centinaio di omelie festive e domenicali, il prestito di qualche decina di pii libri è stato assolutamente inefficace perché essi per pochezza intellettuale né avevano gusto di cercare queste cose, né potevano affrontarle con attenzione interiore, né possedevano sufficientemente la lingua da potersene servire».
Poco amato dalla Curia, don Milani venne isolato e mandato a Barbiana, minuscola e sperduta frazione sui monti del Mugello, in provincia di Firenze. Era un luogo di miseria e arretratezza, in cui c’erano poche decine di abitanti che arrivarono a 42 quando il prete si trasferì, a 31 anni. A Barbiana il boom economico non sapevano cosa fosse, non c’erano acqua e luce elettrica, non c’era un ufficio postale né una strada. C’erano una mulattiera, una chiesa, una canonica, un cimitero e qualche casa. Nessuna scuola. Dopo l’arrivo di don Milani, Barbiana sarebbe diventato un luogo conosciuto da tutti.
Di don Milani si cominciò a parlare fuori da lì quando, nel 1965, con gli allievi della scuola che aveva fondato, scrisse un invito alla disobbedienza ai cappellani militari toscani che avevano definito gli obiettori di coscienza «vili ed estranei al comandamento cristiano dell’amore». La lettera fu pubblicata integralmente dal periodico comunista Rinascita. Richiamandosi all’articolo della Costituzione in cui si dice che «l’Italia ripudia la guerra» si argomentava che in nome della patria il paese aveva combattuto una serie di guerre ingiuste, a eccezione di quella partigiana, l’unica difensiva. Perciò i cappellani avrebbero dovuto educare i soldati non all’obbedienza, ma all’obiezione di coscienza, e avrebbero dovuto anche sostenere quei giovani cattolici incarcerati «proprio per aver obiettato in nome di Dio»: «Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene». La lettera causerà problemi giudiziari a don Milani, con una condanna arrivata dopo la sua morte.
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A quel tempo la scuola di Barbiana era già stata avviata: una scuola di istruzione civile, non di dottrina religiosa, fatta da un prete ma molto lontana da quella voluta dai governi democristiani, che per tutto il dopoguerra avevano gestito il ministero della Pubblica istruzione. Don Milani la raccontò nella sua difesa scritta inviata al tribunale che lo stava giudicando per apologia di reato nella lettera sull’obiezione di coscienza:
Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”. (…) Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice.
Don Milani era stato accusato di «fare una scuola cattiva», ci si doveva dunque capire su ciò che era una scuola buona:
Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).
La scuola di Barbiana era iniziata in un paio di stanze della canonica e poi d’estate si faceva fuori, sotto il pergolato. Era sempre aperta, tutto l’anno, tutto il giorno. L’insegnamento religioso non aveva nulla di ortodosso e l’obiettivo non era selezionare, ma far arrivare tutti. Si facevano lezioni di recitazione per far superare le timidezze, era stata costruita una piccola piscina per affrontare la paura dell’acqua, ed era stata abolita ogni forma di punizione corporale, all’epoca ammessa nella scuola pubblica.
La concezione pedagogica di don Milani non si avvicinava affatto al modello allora prevalente, rappresentato da un docente distaccato che trovava la propria legittimazione nell’autorità della cultura. Nella scuola di Barbiana si lavorava in modo collettivo, e chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno. Le parole erano al centro di tutto: «Io uso ogni parola come se fosse usata per la prima volta nella storia», diceva don Milani. A volte era davvero così, perché per esempio, quando diceva “mare”, quasi nessuno fra i suoi ragazzi di Barbiana l’aveva mai visto. Non c’era nemmeno la televisione che potesse aiutare: «Dire “mare” a Barbiana era una cosa, dire “mare” e far intendere il concetto di mare era un’altra: per questo don Milani i ragazzi li prendeva e li portava a vederlo, il mare. Così come poi li porterà a vedere la fabbrica, ma anche il teatro dell’opera», scrive Vanessa Roghi.
Alle pareti della scuola era appeso un mosaico fatto dagli allievi: raffigurava un ragazzo con l’aureola intento a leggere un libro. Era il santo scolaro di Barbiana, un santo nuovo. Lì cominciarono ad arrivare intellettuali e personalità della politica, insegnanti italiani e stranieri, e alcuni si fermarono.
Sullo sfondo c’erano le grandi discussioni sulla riforma della scuola. Fino al 1962, e dal 1940, la riforma della scuola media aveva unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e dell’istituto magistrale inferiore, ossia le tre scuole medie inferiori che, all’epoca, consentivano il proseguimento degli studi. Vi si accedeva dopo il superamento dell’esame di licenza elementare e dopo il superamento di un esame di ammissione. Il latino era un insegnamento obbligatorio. Poi c’era la scuola d’avviamento professionale, che non consentiva di proseguire gli studi e che nel 1962 fu abolita. Da lì in poi, di conseguenza, la scuola media rimase l’unica scuola a cui si poteva accedere dopo le elementari. Ma negli anni Sessanta, e fino al 1977, vennero istituite anche le classi differenziali dedicate ai «disadattati scolastici», a quelli che secondo una commissione non erano in grado di stare «normalmente» insieme agli altri: le classi differenziali di fatto erano una specie di ghetto per gli studenti di serie B.
A scuola comunque ci andavano in pochissimi, la dispersione di quelli che non arrivavano in fondo al percorso era altissima, e la licenza media era un’utopia. Ad averla, secondo il censimento del 1951, erano 1.380.000 persone, meno di 2 milioni dieci anni dopo. Il censimento diceva che i semianalfabeti, quelli cioè che conoscevano qualche parola scritta, erano circa un quarto rispetto al totale di chi non sapeva né leggere né scrivere, ovvero 5 milioni e mezzo di italiani e italiane sopra i sei anni. Ma per don Milani anche coloro che venivano definiti “scolarizzati”, che avevano la licenza elementare ad esempio, non erano in grado di comprendere un contratto di lavoro o un articolo di giornale.
Nel 1967 don Milani e otto allievi della scuola di Barbiana scrissero un libro che denunciava tutto questo: Lettera a una professoressa. Venne pubblicato da una piccola casa editrice di Firenze, la Libreria Editrice Fiorentina (LEF), ed era un atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico: verso l’arretratezza e la disuguaglianza presenti nella scuola italiana che sembrava essere ispirata da un principio classista e non di solidarietà, che favoriva l’istruzione delle classi più ricche e di chi già era in grado di farcela, mentre agli altri diceva che non erano adatti allo studio e che era meglio se andavano a zappare la terra. Il protagonista del libro è Gianni, uno scolaro bocciato che scrive di getto la lettera.
Nel titolo del primo capitolo c’è già molto, del libro: La scuola dell’obbligo non può bocciare. «Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi». Per colmare questo enorme divario la scuola doveva innanzitutto attuare delle riforme. Nel libro una delle questioni centrali è quella del tempo pieno, del fatto che la scuola sia troppo poca, che le vacanze estive diano la possibilità ai figli dei ricchi (rappresentati da Pierino, il figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari) di andare all’estero e imparare più che d’inverno, mentre i poveri quando rientrano hanno dimenticato anche quel poco che sapevano a giugno. E c’è anche il tema dell’assistenza a casa, delle ripetizioni: «Ci sono dei professori che fanno ripetizioni a pagamento. Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze. La mattina sono pagati da noi per fare scuola eguale a tutti. La sera prendono denaro dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze».
Lettera a una professoressa era scritto in un italiano semplice. Prima della pubblicazione lo aveva letto un contadino, che aveva sottolineato le parole per lui incomprensibili affinché si potessero modificare e rendere il libro accessibile a tutti. Pubblicato un mese prima della morte di don Milani, divenne un “libro manifesto” per il Sessantotto italiano e per le successive grandi battaglie per la riforma della scuola. Ma suo malgrado, spiega Vanessa Roghi: «Perché don Milani è chiaro, cristallino fin dagli anni del suo apprendistato da sacerdote: il suo non è un progetto di riforma per la scuola pubblica, ma una dichiarazione di guerra alla scuola pubblica così come l’hanno conosciuta i figli dei contadini. (…) Perché Lettera a una professoressa non è, non vuole essere, un libro scritto per i ragazzi che occuperanno le università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai. (…) Perché la scuola pubblica, così come l’hanno conosciuta i ragazzi di Barbiana e non solo, è una scuola per ricchi, per i Pierini d’Italia». Ma il libro è anche e soprattutto «un canto di fede nella scuola», come aveva scritto lo stesso don Milani, affinché ci si rendesse conto che tutti avevano il diritto di ricevere un’istruzione.
Soltanto dopo la morte di don Milani il libro diventò un caso, anticipando tutte le questioni che sarebbero state di lì a poco centrali e che in parte lo sono ancora oggi: il merito, la valutazione, il funzionamento della scuola, le bocciature, i libri di testo, il diritto allo studio e le disuguaglianze, la funzione pubblica degli insegnanti.
Don Milani aveva il linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico. Morì a 44 anni il 26 giugno del 1967 e così come aveva chiesto venne seppellito nel piccolo cimitero di Barbiana, con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna. Le sue ultime parole, quelle del breve testamento che lasciò, furono ancora una volta per i ragazzi: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo».