Da sessant’anni l’Africa prova a essere più unita
Con quella che oggi si chiama Unione Africana, i cui obiettivi di integrazione sono stati finora per lo più disattesi
Sessant’anni fa, il 25 maggio del 1963, 32 stati africani firmarono ad Addis Abeba, in Etiopia, il trattato che istituiva l’Organizzazione dell’unità africana, che per quasi quarant’anni ha promosso l’idea di un’Africa più unita e decolonizzata. A partire dal 2002 l’organizzazione si è trasformata nell’Unione Africana, nome con cui è conosciuta ancora oggi. È composta da 55 stati membri, ha organi politici, economici e militari comuni nonché obiettivi ambiziosi, che sono stati raggiunti solo in parte e sono stati ostacolati soprattutto dalla volontà dei singoli paesi di mantenere la completa autonomia su alcune materie (come è successo con gradi diversi in tutte le organizzazioni regionali, come l’Unione Europea).
L’Organizzazione dell’unità africana nacque sulla spinta di un forte panafricanismo, movimento che in quegli anni era popolare nella comunità afroamericana statunitense e che voleva incoraggiare e rafforzare i legami di solidarietà tra tutti i gruppi etnici protagonisti della diaspora africana e fra tutti i paesi del continente.
Oggi il modello dell’Unione Africana è l’Unione Europea: la creazione di un mercato unico è uno degli obiettivi che si sta cercando di realizzare.
In sessant’anni l’Unione Africana ha ottenuto risultati importanti, ma si è dimostrata inefficace nel prevenire, o per lo meno sanzionare, colpi di stato e guerre civili nel continente. L’auspicata maggiore unità del continente si è scontrata spesso con consistenti differenze in termini di sviluppo di diverse macroregioni, con tensioni anche crescenti, ad esempio fra i paesi del Maghreb (Algeria, Marocco, Tunisia, fra gli altri) e quelli subsahariani.
Negli anni precedenti all’incontro che portò alla fondazione dell’Organizzazione dell’unità africana esistevano visioni diverse sui modelli su cui strutturare il nascente organismo.
Il presidente ghanese Kwame Nkrumah, uno degli ispiratori, auspicava una struttura simile a quella statunitense, con uno stato federale, forze militari, rappresentanze diplomatiche e mercato economico comuni. L’ambizioso progetto fu però messo da parte da una maggioranza di capi di stato e di governo che invece non intendevano rinunciare a parti importanti della propria sovranità. L’Organizzazione fu basata sul modello dell’Organizzazione degli stati americani o della Lega Araba: non avrebbe interferito negli affari interni degli stati membri.
Uno dei primi obiettivi fu la decolonizzazione, quindi il processo che doveva portare all’indipendenza quegli stati che allora erano colonie di paesi europei. L’Organizzazione fornì sostegno diplomatico e logistico ai movimenti di liberazione nazionale in tutto il continente e 50 paesi ottennero l’indipendenza entro il 1977. Furono creati inoltre diversi organismi che dovevano favorire in qualche maniera forme di integrazione tra i paesi africani nei campi più disparati (dall’Unione panafricana degli scrittori a quella degli archeologi, dall’associazione per il controllo delle zanzare a quella dei contadini). Furono creati anche mercati di libero scambio di merci che comprendevano più stati della stessa area del continente: in seguito l’Organizzazione ne riconobbe otto.
Il passaggio all’Unione Africana avvenne nel 2002, soprattutto per volontà del leader libico Muammar Gheddafi: la nuova organizzazione prevedeva un parlamento, una commissione di governo, strutture economiche e giudiziarie stabili, oltre che una presidenza a rotazione per i vari leader dei paesi africani.
Negli ultimi decenni, e grazie ai numerosi tentativi di maggiore integrazione, l’Unione Africana è diventata una presenza a livello diplomatico, con ambasciatori accreditati da 50 paesi del mondo e uffici di rappresentanza a Bruxelles, Pechino, Il Cairo, New York e Washington. Moltissimi limiti però hanno continuato a esistere e l’idea di creare una specie di “politica estera comune” è rimasta solo sulla carta.
L’Unione ha un Consiglio per la Pace e la Sicurezza che si riunisce due volte al mese da quasi vent’anni. Le sue forze di peacekeeping sono intervenute in decine di crisi locali, sia per provare a garantire la pace che per lottare contro il terrorismo, spesso in collaborazione con l’ONU. L’Unione Africana è molto attiva anche in campo sanitario, con il finanziamento e l’organizzazione di campagne contro la malaria, l’AIDS o il COVID.
L’Organizzazione si è rivelata però quasi sempre inefficace e senza poteri nel prevenire o sanzionare i colpi di stato militari che hanno caratterizzato la storia degli ultimi 60 anni del continente: sono stati più di 200 da quando la maggior parte delle nazioni africane ha ottenuto l’indipendenza. L’Unione si è limitata in molti casi a sospendere i paesi membri dall’organizzazione in cui i governi eletti erano stati rovesciati da golpe (al momento sono sospesi Mali, Guinea, Sudan e Burkina Faso). Uno dei programmi dell’organizzazione si proponeva di «mettere a tacere le armi» («Silencing the guns») entro il 2020: guerre civili e gruppi terroristici attivi fanno sì che l’obiettivo sia stato largamente mancato.
Un’altra questione non risolta riguarda la sorveglianza e la garanzia sui processi elettorali nei vari paesi membri: le delegazioni di osservatori spesso hanno registrato violazioni per le quali non sono previste efficaci sanzioni.
Anche a livello economico la creazione di un mercato unico procede a rilento: il trattato di Abuja del 1991 prevedeva un percorso lungo 34 anni per arrivare scambi commerciali liberi in tutto il continente. L’Area di commercio libero è stata approvata dalla maggioranza degli stati ma ratificata da un numero limitato: renderla effettiva è uno degli obiettivi dell’Agenda 2063, quando saranno passati cento anni dalla prima creazione di un’organizzazione continentale. L’Unione al momento ha problemi anche nell’ottenere i dovuti pagamenti dagli stati membri per finanziare le proprie attività.
Limitazioni ancora maggiori riguardano la libertà di movimento delle persone all’interno del continente. Nel 2018 è stato approvato un Protocollo di libera circolazione all’interno dell’Unione Africana, che prevede sulla carta libertà di movimento e residenza all’interno dei paesi dell’Unione. In realtà quattro anni dopo è stato ratificato solo da quattro nazioni: Mali, Ruanda, Niger e São Tomé e Príncipe. Le crescenti tensioni xenofobe registrate in Tunisia sembrano per esempio andare in direzione contraria rispetto a quella auspicata.