La vera storia dietro “Lucky” di Alice Sebold
Un articolo del New Yorker riporta per la prima volta la versione della scrittrice e dell'uomo ingiustamente condannato per il suo stupro
Nel 1999 negli Stati Uniti uscì Lucky, un libro autobiografico in cui la scrittrice Alice Sebold raccontava dello stupro che aveva subito da uno sconosciuto quando aveva diciotto anni, e del processo che aveva portato alla condanna dell’uomo da lei accusato: Anthony J. Broadwater. Il libro sviscerava con crudezza un tema che raramente era stato affrontato dalla letteratura prima di allora e vendette più di un milione di copie negli Stati Uniti. Nel 2002 Sebold pubblicò Amabili resti, un romanzo sullo stupro e l’omicidio di una ragazzina, che divenne un bestseller e da cui fu tratto un film, e divenne nota in tutto il mondo. Nel 2021 un giudice dello stato di New York riprese in mano il caso del suo stupro e concluse che le prove contro Broadwater fossero del tutto insufficienti per dimostrarne la colpevolezza: lui nel frattempo aveva più di sessant’anni e aveva passato 16 anni in carcere per un crimine che non aveva mai commesso.
Pochi giorni dopo la notizia, Sebold pubblicò un messaggio in cui si scusava con Broadwater: da quel momento non scrisse più niente e della vicenda non si seppe altro. Ora il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo della giornalista Rachel Aviv, che da anni si occupa di storie di errori giudiziari e salute mentale, che ha ricostruito tutta la vicenda parlando con le molte persone coinvolte, comprese Broadwater e Sebold.
Nel 1980 Sebold frequentava l’università a Syracuse, una città a nord di New York. Fu aggredita e stuprata da un uomo afroamericano a lei sconosciuto in un sottopassaggio di un parco pubblico, e denunciò il fatto alla polizia la sera stessa. Il libro in cui Sebold lo racconta s’intitola Lucky, cioè «fortunata», perché, come spiega l’autrice, il suo caso aveva tutta una serie di circostanze che facilitarono la condanna di quello che lei riteneva fosse il colpevole. Innanzitutto il suo stupratore le lasciò lividi e ferite le cui foto furono usate come prove durante il processo. E poi gli esami medici dimostrarono che era vergine prima di essere stuprata e che gli abiti che indossava non erano di quelli che qualcuno potrebbe giudicare “provocanti”: due elementi che contribuirono a rafforzare l’idea di Sebold come di una vittima. Infine, lei era una «brava ragazza» bianca, mentre il suo aggressore era nero, cosa che a causa del razzismo sistemico del sistema giudiziario statunitense giocò a suo favore.
Più di quarant’anni dopo Sebold fece notare ad Aviv, con cui aveva iniziato una corrispondenza, come la sua storia avesse preso tutta un’altra piega, «una piega profondamente americana: una giovane donna bianca accusa di stupro un uomo di colore innocente».
Nonostante tutto, come succedeva spesso con gli stupri, inizialmente la polizia che registrò il caso non si mostrò troppo determinata nella ricerca del colpevole. Cinque mesi dopo l’aggressione, però, Sebold tornò dalla polizia sostenendo di aver visto il suo stupratore per strada. Nel libro racconta che, mentre camminava, un uomo afroamericano (Broadwater) le si era rivolto salutandola e chiedendole se si conoscessero. Sebold era andata nel panico riconoscendo nell’uomo il suo stupratore ma poco dopo aveva realizzato che l’uomo non stava parlando a lei, ma a un poliziotto che si trovava alle sue spalle. Molto scossa dall’accaduto e convinta di aver riconosciuto l’uomo, Sebold era andata alla polizia a segnalare quanto successo.
Nell’articolo Aviv spiega come Sebold in quel periodo fosse stata molto condizionata da un corso di scrittura che stava facendo: era convinta del fatto che prima o poi il suo stupratore sarebbe in qualche modo andato da lei; inoltre, come succede a volte dopo traumi gravi, a Sebold succedeva spesso di vedere il volto del proprio aggressore negli uomini che incrociava per strada.
Trovare il poliziotto e poi Broadwater non fu difficile, e Sebold fu sottoposta alla procedura nota come “confronto all’americana”: per confermare che l’uomo individuato fosse effettivamente quello che accusava, le furono mostrati cinque uomini afroamericani uno di fianco all’altro, dietro a un vetro da cui poteva vederli senza essere vista.
Aviv fa notare come negli anni Ottanta ci fosse ancora «una limitata consapevolezza della fallibilità della testimonianza oculare» e che oggi la ricerca ha dimostrato che circa un terzo di queste identificazioni sono sbagliate. E la percentuale, scrive Aviv, sale al 50 per cento quando testimone e accusato sono di diversa etnia, come in questo caso.
Nel libro Sebold racconta in modo molto preciso quello che accadde al momento del riconoscimento. Broadwater si trovava al quarto posto e lei indicò il quinto uomo come suo stupratore, ma quando le fu chiesto di firmare una dichiarazione ebbe una sensazione di nausea e pensò di aver scelto l’uomo sbagliato. La procuratrice distrettuale incaricata del caso, Gail Uebelhoer, era con lei in quel momento e Aviv scrive che Sebold vedeva in lei un punto di riferimento «e una guida in un sistema penale dominato da uomini». Uebelhoer la rassicurò dicendole che era comprensibile che avesse sbagliato, e le disse una cosa non vera: che l’avvocato di Broadwater aveva fatto in modo che al quinto posto ci fosse un uomo molto simile a lui che la guardasse fissa per confonderla. Contattata, Uebelhoer si è rifiutata di parlare con Aviv.
L’avvocato di Broadwater raccontò che dal momento che Sebold non aveva riconosciuto il suo cliente lo colpì il fatto che Uebelhoer avesse deciso comunque di portare avanti l’accusa. In quel momento pensò che Uebelhoer stesse forzando l’accusa per compensare in un certo modo il fatto che Sebold fosse stata inizialmente poco presa sul serio dalla polizia, una cosa che succedeva spesso alle donne vittime di violenze sessuali. Durante il processo Sebold provò a giustificare il suo errore spiegando di essere stata indecisa tra il numero quattro o il numero cinque, e che aveva scelto il cinque solo perché la stava guardando (nonostante le fosse chiaro che non poteva essere vista attraverso il vetro).
Oltre al riconoscimento per strada, l’altra prova a sostegno della tesi dell’accusa era un pelo pubico maschile trovato addosso a Sebold la sera in cui era stata stuprata. Uebelhoer disse al giudice che il pelo apparteneva a Broadwater, appellandosi a un tipo di analisi e di comparazione di peli e capelli che di recente è stata dichiarata completamente inaffidabile dall’FBI. Broadwater, che allora aveva vent’anni, fu condannato a una pena da un minimo di otto a un massimo di 25 anni di carcere.
A partire dal 1990, dopo otto anni trascorsi in carcere, Broadwater fece tre udienze a distanza di due anni l’una dall’altra per provare a ottenere la libertà per buona condotta. In tutti i casi gli fu negata perché quando gli veniva chiesto se era disposto ad ammettere la sua colpevolezza lui si rifiutava, e l’ammissione di colpa era ritenuto un traguardo imprescindibile per la liberazione. Alla quarta udienza decise di non presentarsi e dopo qualche mese fu fatto uscire: era il 1998, aveva 38 anni e aveva passato in carcere 16 anni e 7 mesi.
Quando uscì, Broadwater tornò a Syracuse ma non aveva più il padre e non fu ricontattato dai fratelli. Essendo stato condannato per un reato sessuale, in carcere aveva ricevuto un trattamento particolarmente violento da parte degli altri detenuti e questo trauma si aggiungeva a quello di essere stato ingiustamente incarcerato. Ha raccontato ad Aviv di essere stato depresso e di essere andato da una psichiatra, ma di non essere mai riuscito a raccontare cosa gli era veramente successo per timore che non gli credesse e pensasse di lui che era colpevole. Quando gli veniva chiesto di scavare nel suo passato parlava della morte della madre o di incidenti avuti quando faceva il militare, ma mai dell’ingiustizia che aveva subito.
Nemmeno in libertà la sua vita era serena: a causa della condanna poteva svolgere solo lavori poco qualificati. Richiedeva di fare i turni notturni, per essere sicuro di avere un alibi nelle ore in cui vengono commessi più crimini, per la paura di essere nuovamente accusato di una violenza, dato che gli ex carcerati sono spesso presi in considerazione come sospettati.
Quando ebbe un primo appuntamento con quella che è oggi sua moglie, Elizabeth, le chiese di leggere tutto il rapporto del proprio caso giudiziario prima di decidere se volesse ancora frequentarlo. Lei disse di credergli, ma lui racconta che non passava giorno in cui non si stupisse di come non lo avesse ancora lasciato. Decisero di non avere figli per non farli crescere con lo stigma di un padre condannato per stupro. Un giorno la polizia bussò alla sua porta per fargli domande su una ragazza che era stata trovata morta in città: lui aveva il suo lavoro come alibi, ma rimase talmente scosso dall’accaduto che da quel momento decise di lavorare solo in posti con colleghi uomini, dove si timbrasse il cartellino e ci fossero sempre telecamere a riprenderlo.
La cosa più sorprendente di tutta la storia che emerge dall’articolo del New Yorker è che per anni, dopo l’uscita del libro di Sebold, la descrizione dettagliata del modo approssimativo in cui Broadwater fu identificato (e poi non riconosciuto) fu letta in Lucky da centinaia di migliaia di persone senza che nessuno sollevasse pubblicamente alcun dubbio sul procedimento con cui si era arrivati a stabilire la sua colpevolezza.
Nel suo articolo Aviv racconta come i primi dubbi sulla condanna di Broadwater emersero quando si cominciò a parlare di trasformare Lucky in un film. La prima a proporlo a Sebold fu Jane Campion, una delle registe più affermate negli Stati Uniti, nel 2010. Sebold accettò e l’incarico di scrivere la sceneggiatura fu dato a Laurie Parker, con cui Campion aveva già lavorato in passato. Scrivendo la sceneggiatura però Parker si rese conto di essere molto a disagio con le parti della storia in cui veniva data per scontata la colpevolezza di Broadwater, sostanzialmente perché le prove a suo carico erano troppo deboli. Parlò con Uebelhoer, che ribadì quanto fosse raro che un’accusa di stupro arrivasse a un processo, descrisse Sebold come una figura eroica e il giudice come un uomo dal fare paterno nei suoi confronti.
Alla fine Parker scrisse una sceneggiatura con un punto di vista fortemente soggettivo: la telecamera sarebbe stata sulla spalla dell’attrice che avrebbe interpretato Sebold e la storia sarebbe finita prima della condanna di Broadwater. La sua proposta però fu ritenuta irrealizzabile e nel 2014 il progetto fu abbandonato.
Nel 2016 un altro regista, James Brown, decise di adattare Lucky e per scrivere la sceneggiatura chiamò Karen Moncrieff, che raccontò di aver avuto a sua volta un’esperienza molto simile a quella di Parker. Per interpretare la parte di Broadwater fu scelto un attore canadese, Adam Walters, che decise di tirarsi indietro dopo aver letto la sceneggiatura perché fare un film che avrebbe rafforzato uno stereotipo dannoso per la comunità afroamericana era contrario ai suoi principi. Anche Moncrieff decise che il film così non poteva essere fatto e sottopose a Brown un nuovo script in cui l’aggressore era bianco.
È a questo punto che nella storia compare il produttore cinematografico che portò allo scagionamento di Broadwater. Timothy Mucciante è un avvocato radiato dall’albo che aveva passato una decina d’anni in carcere dopo una condanna per frode e falsificazione. Per una questione di soldi Mucciante fu escluso dal progetto del film di Brown – che fu poi accantonato – ma decise di mettersi a indagare su alcuni aspetti del caso che non gli tornavano. Assunse un investigatore privato, Dan Myers, che raccontò di aver parlato con alcune persone coinvolte nella vicenda tra cui Paul Clapper, il poliziotto presente all’incontro tra Sebold e Broadwater per strada, che gli suggerì che potesse essere stato condannato l’uomo sbagliato.
Con gli elementi raccolti da Myers e i soldi raccolti da Mucciante, due avvocati di Syracuse, Dave Hammond e Melissa Swartz, fecero una mozione per chiedere di riaprire il caso. Coinvolsero un altro avvocato, William Fitzpatrick, che fu quello che chiamò Sebold nel 2021 per dirle che il caso era in fase di revisione da parte di un giudice e che le spiegò come la prova del pelo fosse da considerare assolutamente non affidabile. In quel periodo Sebold aveva deciso di chiudere con la vicenda e in generale aveva smesso di occuparsi del tema dello stupro: come scrisse ad Aviv, il movimento #MeToo iniziato nel 2019 le aveva fatto pensare di poter lasciare questo compito a una generazione più giovane.
Fitzpatrick però tornò a contattare Sebold nel giro di poco per chiederle se la scena del riconoscimento da dietro il vetro fosse andata esattamente come era descritta nel libro. Se così fosse stato, spiegò, «si potrebbe trarre la conclusione che sei stata influenzata su come gestire la questione al processo, e non sarebbe un approccio etico da parte delle forze dell’ordine». Sebold rispose di aver scritto il libro sentendo l’enorme responsabilità di descrivere le cose nel modo più possibile aderente alla realtà, ma provò anche a spiegare che dal suo punto di vista Uebelhoer aveva agito soprattutto per rassicurarla.
Quando Broadwater fu scagionato, su Internet uscirono tantissimi articoli e post di critica nei confronti di Sebold. A un amico che andò a trovarla per portarle da mangiare, Sebold disse che non avrebbe mai più scritto niente per il resto della sua vita. Ad Aviv disse che in quel momento fu facile per lei interiorizzare le «voci di Internet» perché non facevano altro che amplificare «la voce dentro di lei»: era la prima ad accusarsi. In quei giorni usciva di casa solo per portare fuori il cane, ma dovette smettere anche quello – chiese a degli amici di farlo per lei – per evitare giornalisti e paparazzi.
Otto giorni dopo Sebold pubblicò online un messaggio in cui si scusava pubblicamente con Broadwater: «Il mio obiettivo nel 1982 era ottenere giustizia, non commettere un’ingiustizia. E di certo non volevo cambiare irreparabilmente e per sempre la vita di un giovane uomo per via del crimine che aveva cambiato la mia». Anche queste scuse furono criticate, perché ritenute non abbastanza sentite. Quello stesso giorno la casa editrice Scribner, che aveva pubblicato e ristampato Lucky nel 2017, annunciò che avrebbe smesso di distribuirlo, in attesa di una eventuale riscrittura o di altre decisioni di Sebold.
E/O, la casa editrice italiana di Sebold, ha seguito fin dall’inizio gli sviluppi della vicenda. «Siamo rimasti sconvolti», racconta l’editore Sandro Ferri: «È una tragedia terribile: a lui hanno rovinato la vita, lei vive in condizioni tremende come si capisce dall’articolo del New Yorker. Nessuno di noi la sente da mesi». E/O ha scelto di mantenere in commercio Lucky: «Sebold non ha colpe e la storia che lei ha vissuto è quella che ha raccontato e che è nel libro. Vedremo anche con lei cosa potremo fare. Per il momento non vuole scrivere». Ferri insomma non esclude che in futuro potrà pubblicare altro sulla vicenda: «Ma questa storia bisogna raccontarla bene. È una storia di grande dolore, di due grandi dolori e uno non cancella l’altro».
Sebold ha detto ad Aviv di aver rinunciato all’idea di dover dare una chiusura narrativa a questa vicenda e che sa che c’è la possibilità che si ricominci a indagare sul vero stupratore, che lei definisce «il fantasma di questa storia horror». Non è però sicura di voler sapere chi sia. Broadwater nel frattempo ha fatto causa allo stato di New York per carcerazione ingiusta e ha ottenuto cinque milioni e mezzo di dollari di risarcimento. Aviv scrive che sta comprando una casa fuori città con la moglie ma che a parte per questo la sua vita non è molto cambiata: continua a tornare a casa sempre prima delle 7 per paura di non avere un alibi nelle ore in cui solitamente avvengono le aggressioni e recentemente, alla notizia che una studentessa a Syracuse era stata aggredita, ha chiamato l’avvocato preso dal panico.
Broadwater ha detto di essere rimasto deluso dal fatto che Sebold non gli abbia ancora chiesto di incontrarsi di persona. Sebold ha detto ad Aviv che sta provando a scrivergli una lettera: non si sente pronta per un incontro perché sta ancora affrontando la «distruzione della propria identità». Per anni è stata una donna che aveva ottenuto giustizia per lo stupro subito, che nella scrittura aveva trovato un modo per affrontare il trauma e che con un libro aveva fatto sapere a tantissime persone cosa si prova dopo aver subito uno stupro. L’innocenza di Broadwater ha ribaltato ognuna di queste cose.