Come è stata protetta Ravenna dall’alluvione
L'argine di un canale è stato rotto per diminuire la pressione sulla città, e ora si cerca di spingere l'acqua verso il Po
di Angelo Mastrandrea
Lungo gli argini del fiume Montone, fuori Ravenna, il livello dell’acqua che ha inondato i terreni dopo le piogge intense della scorsa settimana sta pian piano scendendo, anche se per diversi chilometri la campagna sembra ancora come un lago. «Non possiamo sapere quando finirà. Ci vorranno settimane per asciugare tutto» dice il sindaco Michele De Pascale, del Partito Democratico. I tecnici del Consorzio di bonifica stanno cercando di far defluire un milione e mezzo di metri cubi di acqua verso il mare e verso il Po, invertendo la direzione del Canale Emiliano Romagnolo (Cer), dove normalmente il flusso va nella direzione opposta per approvvigionare d’acqua campi e fabbriche.
È un’operazione delicata e che finora non era mai stata fatta. Con i suoi 135 chilometri il Cer è il più lungo corso d’acqua artificiale italiano: parte dal Cavo Napoleonico, un canale in provincia di Ferrara, e arriva quasi a Rimini. Per riuscirci, i tecnici stanno usando dieci idrovore e stanno azionando il sistema di paratoie – gli sbarramenti con cui si regolano gli afflussi nei canali – in modo da modificare il livello del canale, facendo sì che l’acqua dai territori a sud del Po defluisca verso il fiume, e da lì in mare.
Intanto, si cerca di quantificare i danni provocati dell’inondazione. «Questo è un territorio dove ci sono molti frutteti, le piante di albicocche, pesche, susine, pere, mele e ciliege sono destinate a morire, bisognerà ripiantare tutto» dice il presidente della Coldiretti di Ravenna Assuero Zampini. In questa zona si produce il 20 per cento delle albicocche italiane. L’inondazione ha fatto saltare il raccolto di quest’anno, ma secondo gli agricoltori della zona per tornare ai livelli precedenti ci vorranno almeno quattro o cinque anni, perché bisognerà ripiantare tutto e aspettare che gli alberi tornino a dare frutti. La Coldiretti dell’Emilia-Romagna ha stimato che bisognerà espiantare e poi reimpiantare almeno quindici milioni di piante da frutto. Non c’è un calcolo preciso dei danni, ma si stima che solo per rifare un ettaro di frutteto, un terreno di 100 metri per 100, ci vogliono circa 50 mila euro.
Nelle campagne attorno a Ravenna sono stati inondati 100 mila ettari di terreni coltivati. «È andata perduta la produzione di almeno 40mila tonnellate di grano», sostiene Coldiretti. «Qui attorno si coltivavano barbabietole, cicoria, carote, cavoli, ora è andato tutto perduto» dice Pippo Tadolini, un ex ginecologo in pensione che ora coordina il comitato di Ravenna dell’organizzazione ambientalista Per il Clima – Fuori dal fossile. A casa sua, lungo l’argine sinistro del Montone, si mangiano le ultime verdure raccolte prima della piena: carciofi, asparagi e rucola.
Il Montone è stato il primo fiume a esondare: prima nella zona di Faenza e Forlì, poi nel ravennate. L’argine ha tenuto nonostante il terreno fosse ancora inzuppato dalle alluvioni di inizio maggio, ma il livello è salito di cinque metri e l’acqua ha tracimato. Per alcuni giorni, Tadolini e sua moglie hanno vissuto «come su un’isola», dicono, circondati dall’acqua. Lungo l’argine sinistro, la sua casa è stata l’unica a non finire sommersa. Chi l’ha costruita, nel 1933, lo ha fatto con sapienza, sopraelevendola di una cinquantina di centimetri rispetto ai terreni circostanti, e tanto è bastato a far sì che la piena si fermasse all’ingresso del suo giardino. Sull’argine opposto, lo stesso è accaduto all’agriturismo La Rotta, costruito nel 1850 alla stessa maniera, un po’ sopraelevato rispetto alla pianura circostante. Secondo il titolare Stefano Sportelli non è stato un caso che sia stato l’unico edificio nella zona a non essersi allagato. «Questa zona si chiamava “la rotta” perché quando c’era la piena il fiume spesso esondava, allora l’argine veniva rotto e le acque venivano canalizzate verso la campagna per irrigarla», spiega.
Il Consorzio di bonifica ha chiesto alla Prefettura di utilizzare lo stesso metodo per alleggerire l’impatto della piena su Ravenna. Così in un punto l’argine del Canale Magni, che passa a ovest della città, è stato sfondato con le ruspe per far riversare l’acqua nei campi, dando il tempo di effettuare agli altri interventi a monte per evitare che la città di Ravenna subisse allagamenti più estesi. Alcuni quartieri sono finiti comunque sott’acqua, com’è successo a Fornace Zarattini, alla periferia nordoccidentale della città. Il centro storico e il grosso della città però non hanno subito danni, anche grazie a una duna di terra costruita sulla via Faentina, che ha contribuito a tenere l’acqua dalla parte di Fornace Zarattini.
La cooperativa Cooperativa agricola braccianti territorio ravennate (Cab Terra) ha accettato di sacrificare 200 ettari di campi coltivati lungo la strada statale Romea. «È stata una scelta difficile, ma lo abbiamo fatto per dare una mano alla comunità», ha detto il presidente Fabrizio Galavotti con un post sulla pagina Facebook di Cab Terra, che fu fondata nel 1888 e per questo si definisce la più antica d’Italia.
La «rottura controllata», com’è definita, ha provocato però anche dei malumori nelle campagne, dove alcuni abitanti e agricoltori si sono sentiti sacrificati per tutelare la città di Ravenna. «Purtroppo si tratta di soluzioni d’emergenza prese nel giro di pochi minuti, se non l’avessero fatto magari si sarebbero allagati sia la città sia i terreni», dice Fausto Pardolesi, un tecnico che si occupa della gestione dei fiumi per la Regione Emilia-Romagna.
Lungo l’argine sinistro del Montone, davanti alle abitazioni sono accatastati divani e mobili messi ad asciugare ed elettrodomestici da rottamare, mentre all’interno amici, familiari e volontari drenano acqua con le pompe dalle cantine e spalano fango dalle stanze al pianterreno. L’acqua ha spazzato via le barriere fatte con i sacchi di sabbia posizionate davanti alle case. «Era impossibile fermarla, esondava dappertutto, pure dai canali di scolo e dai fossi», dice Tadolini. Andrea, un muratore albanese da 32 anni in Italia, ha impiegato quattro anni per mettere a posto la sua casa, lungo l’argine sinistro del Montone, e in appena mezz’ora ha visto vanificarsi il suo lavoro. Alle 4:15 di mattina la piena ha sfondato il portone e «dopo venti minuti l’acqua mi arrivava al torace», racconta. Ora è alla ricerca di un frigorifero e di un fornello per poter conservare il cibo e cucinarlo.
Poche centinaia di metri più avanti, a Russi, è stata evacuata pure la scuola che ospitava gli sfollati e nella vicina San Michele si è allagato il cimitero. A Conselice dopo tre giorni mancano ancora l’energia elettrica, l’acqua potabile e la connessione a internet, mentre a Sant’Agata sul Santerno e a Solarolo si sono allagate le biblioteche comunali. A Villanova di Bagnacavallo nella sala lettura comunale è stato allestito un punto di raccolta degli aiuti. I volontari preparano sacchetti con biscotti, cracker e altri alimenti solidi, poi partono per consegnarli. «Nelle case isolate li portiamo con i canotti», spiega il presidente del Consiglio di zona Mario Carlini.
A Ghibullo domenica 21 maggio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rientrata in anticipo dal G7 in Giappone, ha incontrato alcuni di loro. «Siete molto bravi, portare le cose da mangiare nell’acqua», ha detto, poi è andata a visitare un’azienda agricola sommersa dall’acqua nel forlivese. Solo nel ravennate, l’alluvione ha devastato circa tremila aziende agricole, cinquemila in tutta la regione. Un migliaio di queste rischiano la chiusura definitiva. Le inondazioni hanno danneggiato o distrutto serre, edifici rurali, attrezzature, macchinari e stalle che ospitavano 250mila tra bovini, maiali, pecore e capre. Rischiano di chiudere anche 400 allevamenti di polli, galline da uova e tacchini, e quasi 45mila alveari di api, molti dei quali sono andati dispersi.
Da queste parti nessuno ricorda un evento del genere. «Neppure l’alluvione del ’66 provocò questi effetti», dice Tadolini. «Gli argini hanno tenuto, il problema è stato che i terreni erano ancora inzuppati per l’alluvione di due settimane prima e non sono riusciti a filtrare tutta l’acqua che arrivava», spiega Pardolesi, secondo il quale le inondazioni sono state il risultato di «una somma di eventi estremi». I danni, a suo dire, sarebbero stati più contenuti se negli ultimi anni non fossero state costruite abitazioni e aziende anche al di sotto del livello dei fiumi, confidando nel fatto che gli argini alti avrebbero evitato inondazioni. A suo parere, per evitare che possa riaccadere un disastro del genere bisognerebbe «spostare gli argini e allontanarli dalla loro sede attuale, lasciando più spazio all’alveo del fiume», per evitare che l’onda di acqua, fango e altri materiali che scendono a valle dalle colline quando ci sono le alluvioni sommerga i paesi e pure la città di Ravenna.
Il Montone andrebbe allargato «dagli attuali 70 metri ad almeno 150». Per farlo bisognerebbe però ricostruire tutti i ponti ed espropriare terreni, capannoni industriali, aziende agricole e abitazioni costruite nelle aree cosiddette «alluvionali». Secondo i dati del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, negli anni 2020 e 2021 la provincia di Ravenna è stata seconda solo a Roma per consumo di suolo e nel 2021 in Emilia-Romagna sono stati coperti poco più di 500 ettari di terreni a «pericolosità idraulica media», vale a dire a rischio di inondazioni con tempo di ritorno ogni 100-200 anni. Nel 2017 la Regione ha approvato una legge che ha come obiettivo proprio la limitazione del consumo di suolo. Secondo l’associazione ambientalista Legambiente, le norme «non hanno funzionato».