• di Vincenzo Latronico
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 17 maggio 2023

Presentare stanca

«Il Salone del Libro di Torino porta fatturato ad albergatori e tassisti, autisti di Uber e gestori degli Airbnb. Guadagna anche il settore alimentare: i chioschi Autogrill in fiera col contratto in esclusiva. E poi, ovviamente i cartongessisti che allestiscono gli stand, i magazzinieri che li stoccano, gli spacciatori di Borgo Dora, gli ambulanti dei Murazzi, artisti di strada guardie giurate gelatai parcheggiatori escort. A Torino tutti intercettano qualcosa dell’indotto economico del più grande evento editoriale italiano. Quasi tutti. Non lo intercettano gli autori»

La planimetria del Salone del Libro di Torino 2023
La planimetria del Salone del Libro di Torino 2023
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Ogni anno, quando è primavera, lettrici e lettori da tutta Italia sciamano al Salone del Libro di Torino, in cerca di libri da comprare. Nel 2022 erano 170 mila, record della direzione di Nicola Lagioia, e non hanno acquistato solo libri e biglietti d’ingresso: il Salone porta fatturato ad albergatori e tassisti, agli autisti di Uber, ai gestori degli Airbnb. Guadagna anche il settore alimentare: i chioschi Autogrill in fiera col contratto in esclusiva che vendono focaccine alle code chilometriche di affamati, le costosissime primizie di Eataly a pochi passi da lì, i ristoranti prenotati da settimane. E poi, ovviamente, tutto il resto: i cartongessisti che allestiscono gli stand, i magazzinieri che li stoccano fra un anno e l’altro, gli spacciatori di Borgo Dora, gli ambulanti dei Murazzi, artisti di strada guardie giurate gelatai parcheggiatori escort. A Torino tutti intercettano qualcosa dell’indotto economico del più grande evento editoriale italiano, che all’ultima stima – 2017, quando i visitatori erano meno – superava i 30 milioni di euro.

Quasi tutti. Non lo intercettano gli autori.

L’ingiustizia è talmente scandalosa che l’abbiamo rimossa, e nessuno si permette di nominarla neppure fra sé e sé – io stesso mi sento maleducato a farlo: la manifestazione col giro d’affari più importante dell’editoria italiana non ne concede neppure una briciola ai lavoratori che sono alla base di tutto il settore, i produttori della materia prima che tutto il comparto poi seleziona raffina impacchetta distribuisce vende: i testi. Questo risulta persino più paradossale se si considera che, oltre ai testi, producono la materia prima della manifestazione stessa: ben pochi dei 170.000 visitatori verrebbero a Torino solo per visitare un megamarket di libri in un ex fabbrica di automobili. Il pubblico viene (e paga biglietti viaggi primizie hotel) per gli eventi, che sono tantissimi e che, miracolosamente, come pani e pesci, diventano ogni anno di più senza che il budget cresca di una virgola, perché resta zero. Degli oltre quattromila partecipanti agli oltre mille e cinquecento incontri del Salone di quest’anno, esclusi (immagino) pochi famosissimi, quelli che riceveranno un cachet sono: esattamente nessuno.

Se nel settore chiedi perché alzano le spalle. È sempre andata così.

Sempre, ma non ovunque. Da un paio di mesi è uscito un mio romanzo in Germania; è stato uno shock scoprire che, per ogni presentazione, sarei stato pagato, così come chi lo presentava con me.

Questo, ovviamente, è appagante da un punto di vista etico: presentare il proprio romanzo può essere considerato autopromozione (anche se un reading fatto bene è a tutti gli effetti una performance da preparare, come un piccolo concerto), ma presentare quello altrui è lavoro che richiede studio, talento, concentrazione. Ma soprattutto, questo trasforma completamente la struttura del settore: se gli eventi costano, se ne faranno meno (Berlino ha il triplo degli abitanti di Milano e, a occhio, meno della metà delle presentazioni di libri); essendocene meno, la qualità media è più alta, e il pubblico più folto. Inoltre, se presentare un libro è un modo di guadagnare, si cercherà di farlo bene: ci sono moderatori di professione, che si sono costruiti una reputazione in grado di attirare pubblico anche da autori sconosciuti. Questo fa bene a tutti: in Germania nessuno sapeva chi ero, ma al lancio del mio romanzo sono venute più di cento persone.

Lo so, lo so: questo discorso puzza di uno snobistico “oh ma lo sai che in Svezia”, che ammette come unica risposta “amo non siamo in Svezia”. Naturalmente in Italia tutto costa meno che in Germania (tranne gli appartamenti!), e lo stesso dovrebbe valere dei cachet. Ma meno non significa zero. Il problema – anche andando al di là dell’ingiustizia – è l’inflazione: se gli eventi sono gratis si moltiplicano a dismisura, diluendo il pubblico, abbassando la qualità, e generando una sorta di corsa agli armamenti fra editori, che con costi marginali minimi (il personale è già lì, i libri pure) mirano logicamente a occupare ogni calendario possibile. E in una specie di mise-en-abîme si moltiplicano anche i contenitori di eventi: quello che ho detto del Salone vale ovviamente anche di Book Pride a Milano e Genova, Più Libri Più Liberi e Libri Come a Roma, Testo a Firenze…

Qualche mese fa la scrittrice Espérance Hakuzwimana ha deciso di annullare le presentazioni che aveva in programma – dopo averne fatte quasi quaranta in tutta Italia – perché si sentiva «distrutta», fisicamente ed emotivamente, dalla «continua sensazione di dover qualcosa a qualcuno». Ci hanno perso tutti: lei, in energie, serenità e tempo, e il pubblico che ha perso degli eventi che non erano solo promozione libraria ma un vero e proprio seminario antirazzista sui problemi dell’adozione e dell’inclusione. Uno può dire: be’, se le presentazioni avessero avuto un costo ne avrebbe fatte di meno. Ma gli eventi a costo zero un costo lo hanno comunque – Hakuzwimana lo ha pagato – solo che non ricade sull’editore né sul pubblico. Un cachet obbligatorio eliminerebbe quella sensazione di dover sempre qualcosa, e farebbe accadere solo gli eventi per cui c’è richiesta del pubblico o interesse dell’editore.

Proviamo a immaginare una rassegna in cui – per decreto autocratico della direzione, per sindacalizzazione dei relatori, per lucesullaviadidamaschizzazione delle case editrici – sia obbligatorio un cachet per ogni relatore. Gli eventi sarebbero di meno. Anche il pubblico? Probabilmente no: so per triste, ripetuta esperienza che moltissimi di quegli eventi si svolgono di fronte a tre, cinque, otto persone, spesso fermatesi nella sala vuota solo perché i bar hanno pochi posti a sedere. Troverebbero altri eventi, che sarebbero più pieni. Non solo: i relatori sarebbero probabilmente più preparati, per essere richiamati in seguito; il pubblico avrebbe probabilmente un’esperienza più appagante. Il costo per gli editori sarebbe superiore? Sì e no; i relatori oggi non prendono cachet ma necessitano di treni alberghi pranzi, e eliminarne la metà libererebbe fondi per pagare i superstiti. E se anche gli editori dovessero spendere qualcosa in più, il compenso ai relatori dovrebbe essere considerato non comprimibile, necessario: al pari di treni, panini, spedizioni e alberghi, tutte cose senza cui un evento letterario non è possibile. Ma neanche senza relatori lo è.

Naturalmente questo è un esercizio mentale ottimista e vano. Siamo in quello che in teoria dei giochi si chiama equilibrio inefficiente: una situazione in cui le cose potrebbero essere migliori per tutti ma nessuno ha la possibilità, da solo, di cambiarle. Un singolo editore che cominciasse a pagare cachet potrebbe fare meno eventi degli altri; una singola relatrice che li esigesse sarebbe chiamata meno spesso. Ma in mancanza di una federazione sindacale (ma sindacalizzare gli scrittori è come federare i gatti) o di una tirannide illuminata dalla Pareto-efficienza non vedo proprio come le cose possano cambiare; anche se, una volta vista, l’ingiustizia delle circostanze attuali è impossibile da dimenticare, e risulta persino amplificata da quanto sia naturalizzata, da quanto diamo per scontato che non possa che essere così. Quando ho fatto una battuta a riguardo sui social, una giornalista famosa per quanto ama fatturare ha ribattuto sarcastica, «cos’è, all’estero per le presentazioni ti pagano?». Certo! Le ore di lavoro si pagano; o si dovrebbero.

La prima versione di questo articolo era una poesia giocosa e sferzante che ricalcava un famoso componimento di Ernesto Ragazzoni, scritta nella speranza che divertendo aiutasse a federare un po’ più di persone attorno a quest’idea (il Post, fedele alla linea, non pubblica poesie, ma l’ho messa su Twitter, qui). È evidente che se la mia speranza di cambiamento è appesa a una poesia, la mia speranza è poca. Non so bene come finire questo articolo. Ci vediamo a Torino.

Vincenzo Latronico
Vincenzo Latronico

Vincenzo Latronico traduce e scrive romanzi. Ne ha pubblicati quattro con Bompiani, l'ultimo a marzo 2022: Le perfezioni.

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