Chi vincerà le elezioni in Turchia avrà un grosso problema da gestire
Nei prossimi mesi la Turchia rischia una crisi economica e sociale, dopo anni di politiche controverse imposte da Erdogan
Domenica 14 maggio si terranno le elezioni presidenziali in Turchia e chiunque le vincerà si troverà a gestire un paese con un’economia disastrata, con un’inflazione altissima, con una moneta ai minimi storici, conti pubblici insostenibili e notevoli tensioni sociali. L’attuale presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Kemal Kilicdaroglu, il leader del Partito popolare repubblicano e candidato unitario di quasi tutte le forze di opposizione, sono molto vicini secondo i sondaggi.
Erdogan governa il paese da circa 20 anni e da tempo sta portando avanti politiche economiche estremamente controverse e contrarie all’ortodossia riconosciuta dalla maggior parte degli economisti su questioni come l’inflazione e la spesa pubblica: queste politiche sono riuscite a far crescere in modo considerevole l’economia, ma hanno portato a costi sociali che rischiano di diventare insopportabili, e di impoverire la popolazione sul lungo periodo.
Negli ultimi due anni l’economia turca, uscita piuttosto compromessa dalla pandemia da coronavirus, grazie a enormi sussidi e politiche economiche molto espansive da parte del governo è riuscita a crescere a buon ritmo. Il PIL è cresciuto dell’11 per cento nel 2021 e del 5 nel 2022, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Questo risultato è stato raggiunto al costo di lasciar crescere notevolmente l’inflazione, ossia l’aumento generale del livello dei prezzi che negli scorsi mesi sono arrivati quasi a raddoppiare rispetto all’anno precedente.
A causa del fatto che i prezzi aumentano a ritmo molto maggiore dell’aumento dei salari, la popolazione turca è sempre più impoverita e il governo nel tempo ha risposto con alcune misure popolari ma economicamente inopportune allo scopo di riguadagnare il loro favore, come l’aumento dei salari e delle pensioni minime e la riduzione dell’età pensionabile. Queste misure, benché siano in grado di dare sollievo alla popolazione, hanno effetti temporanei e alla lunga non fanno che peggiorare la situazione, secondo la maggior parte degli economisti.
Dietro a un PIL che cresce a doppia cifra come quello della Turchia si nasconde un’economia “surriscaldata”: le strozzature nelle catene produttive, la carenza di materie prime, un’offerta che non regge i ritmi della domanda e la crisi energetica hanno portato anche la Turchia a fare i conti con un’elevata inflazione. I prezzi sono aumentati e si è ridotto il potere di acquisto di famiglie e imprese. Sono gli stessi problemi con cui ha avuto a che fare il resto del mondo, ma in Turchia la situazione è molto più seria: l’inflazione a novembre era dell’85 per cento, il che significa che nel giro di un anno i prezzi sono quasi raddoppiati. Ad aprile si è ridotta al 50,5 per cento, un livello comunque eccezionalmente alto.
Il motivo è legato alla differenza nella risposta di politica monetaria che è stata data rispetto agli altri paesi: la classica risposta a un’inflazione così alta è l’aumento dei tassi di interesse di riferimento, ossia il costo del denaro a cui le banche centrali prestano alle altre banche. L’obiettivo è “raffreddare” un’economia che sta crescendo troppo, in cui si vuole consumare di più di quanto il sistema riesca a produrre, con un conseguente aumento dei prezzi.
La Turchia sta al contrario perseguendo una sorta di esperimento economico: Erdogan sta tenendo forzatamente bassi i tassi di interesse perché vuole preservare la crescita economica in ogni modo, anche a costo di far raddoppiare i prezzi. Bassi tassi di interesse invogliano infatti a prendere a prestito denaro per comprare cose o investire. Per esempio, le persone comprano più case, così si assumono più operai per costruirle o ristrutturarle, questi a loro volta spenderanno e l’economia cresce. In più, il fatto che la lira turca sia così debole rappresenta un incentivo alle esportazioni: per chi acquista in valuta estera è relativamente meno costoso comprare beni turchi perché può avvantaggiarsi di un cambio favorevole.
Quando l’economia si “surriscalda” i prezzi iniziano ad aumentare molto: di solito è il momento in cui le banche centrali alzano i tassi di interesse per far rallentare l’economia. In Turchia la banca centrale non è indipendente, come dovrebbe essere, ma risponde alle logiche politiche dettate dal presidente Erdogan, che sta di fatto “dopando” l’economia turca per mantenere il consenso: la banca centrale turca ha abbassato i tassi mese dopo mese, andando esattamente nella direzione opposta rispetto a tutte le banche centrali dell’Occidente. Ma in Turchia banchieri centrali non hanno scelta se non fare quello che viene detto loro dal presidente, altrimenti vengono licenziati.
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La riduzione dei tassi di interesse complessivamente di dieci punti percentuali dal 2021 ha fatto svalutare tantissimo la lira turca, che veniva comunque da un periodo piuttosto difficile: nel giro di 5 anni ha perso circa l’80 per cento del suo valore nei confronti del dollaro.
È vero che la moneta debole ha aiutato le esportazioni, che hanno raggiunto il massimo storico di 254 miliardi di dollari. Allo stesso tempo sono aumentate molto anche le importazioni, a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia, che i turchi hanno dovuto pure pagare di più perché la compravano con una moneta debole (ci volevano più lire per acquistare il gas e il petrolio in euro o in dollari). Le banche poi hanno iniziato a razionare i prestiti, perché non è più conveniente prestare a tassi di interesse così bassi rispetto all’inflazione. Questo sta mettendo notevolmente in difficoltà le imprese che fanno affidamento sul credito.
L’economia turca si è dimostrata molto resiliente davanti a questa scommessa economica molto particolare: la popolazione e le aziende hanno imparato a convivere con prezzi sempre più alti e soprattutto con una crescente incertezza verso il futuro. L’industria manifatturiera turca è solida e abituata a gestire situazioni di instabilità finanziaria, ma per lo sviluppo delle aziende un conto è sopravvivere alle avversità e un conto è riuscire a investire per crescere. La popolazione ha sostanzialmente smesso di risparmiare perché non sa quanto il denaro varrà in futuro: oggi quindi i consumi vanno sostanzialmente bene, ma prima o poi il sistema rischia di incepparsi e le conseguenze saranno prima sociali che economiche.
Ad aggravare il problema c’è il fatto che nel frattempo Erdogan ha provato a tamponare il costo sociale di tenere l’inflazione così alta con misure mai risolutive e spesso pure controproducenti: nello scorso anno ha aumentato varie volte i salari minimi, ha aumentato le pensioni minime e diminuito l’età pensionabile. Ultimamente ha anche promesso di aumentare gli stipendi dei dipendenti pubblici. In un tweet ha scritto: «Aumenteremo del 45 per cento i salari dei nostri dipendenti pubblici, inclusa la quota di welfare, nell’ambito del contratto collettivo del lavoro. In bocca al lupo ai nostri lavoratori e alle nostre istituzioni».
Kamu işçilerimizin ücretlerinde, toplu iş sözleşmesi çerçevesinde, refah payı dâhil %45 artışa gidiyoruz. İşçilerimize ve kurumlarımıza hayırlı olsun. pic.twitter.com/pRXYFQkrk7
— Recep Tayyip Erdoğan (@RTErdogan) May 9, 2023
In un contesto così inflattivo, e in cui le risposte di politica monetaria sono totalmente controproducenti, l’effetto benefico di un aumento degli stipendi dei lavoratori durerà solo qualche mese: le aziende dovranno sostenere costi più alti, che poi dovranno compensare con nuovi aumenti dei prezzi. In questo modo viene alimentata quella che in economia si chiama la “spirale prezzi-salari-prezzi”: se si aumentano i salari per compensare l’inflazione, questa di fatto non farà che crescere e si entra quindi in un circolo inflattivo senza fine.
Secondo vari analisti, dopo le elezioni c’è il serio rischio che la situazione si aggravi ulteriormente: gli investitori stranieri hanno sostanzialmente abbandonato i mercati finanziari turchi e la banca centrale ha finito le riserve di valuta straniera che le sono necessarie per sostenere artificialmente la lira turca sul mercato dei cambi. Emre Akcakmak, un economista sentito dal Financial Times, ha detto che l’economia turca è ormai vicina al «punto di rottura».
Se Erdogan dovesse vincere, dal punto di vista delle politiche economiche non dovrebbe cambiare molto: è probabile che ci sarà un allentamento delle misure più populiste, ma non ci sono segnali di un sostanziale cambiamento di rotta.
L’opposizione al contrario sostiene che sia necessario un ribaltamento delle misure economiche introdotte finora e ha fatto capire che intende tornare a politiche più convenzionali per fermare l’aumento dei prezzi. Secondo alcuni economisti sentiti da Politico, nel caso dovesse vincere Kilicdaroglu non sarà comunque semplice proporre misure più appropriate dopo gli anni di Erdogan: i tassi di interesse dovrebbero aumentare di almeno 30 punti percentuali e il governo dovrebbe fin da subito avere la credibilità per convincere il sistema economico che è davvero intenzionato ad abbassare l’inflazione.
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