L’assassino che divenne un serial killer dopo essere evaso
La storia di Roberto Succo che negli anni Ottanta uccise 7 persone, raccontata da Stefano Nazzi nel suo nuovo libro
I serial killer sono quegli assassini che hanno ucciso due o più persone in momenti diversi senza avere necessariamente grandi relazioni pregresse con le proprie vittime e spesso con modalità ripetitive e molto efferate. Il cinema e la televisione hanno fatto conoscere molte storie di serial killer e le più note sono americane e avvenute perlopiù tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Anche in Italia tuttavia, sempre in quel periodo, ci furono dei serial killer. Uno si chiamava Roberto Succo, era di Mestre e uccise cinque delle sue vittime dopo essere evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario in cui era rinchiuso per l’omicidio delle prime due.
Stefano Nazzi, giornalista del Post e autore del podcast Indagini, ha raccontato la sua storia, insieme a quella di altri nove assassini di cui quattro seriali, nel suo nuovo libro appena uscito in libreria. Si intitola Il volto del male. Storie di efferati assassini. Il volto del male sarà presentato lunedì 15 maggio alla libreria Feltrinelli in piazza Piemonte a Milano, alle 18,30. Assieme a Stefano Nazzi ci sarà Francesco Costa, il vicedirettore del Post. Qui pubblichiamo un estratto del libro, sull’inizio della storia di Succo.
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C’è un uomo nudo sul tetto della prigione. Cammina, si agita, si siede, si rialza, muove le braccia, si siede di nuovo. Sotto, all’esterno del muro di cinta, si raduna molta gente. Ci sono anche i giornalisti. L’uomo urla per farsi sentire. Dice: «Avete visto, sono un uccello, nessuno mi può trattenere». Parla anche di donne, di una in particolare: Sabrina. «È l’unica che abbia amato» grida.
Il carcere è la casa circondariale di via Santa Bona Nuova di Treviso: è il 1° marzo 1988. Verso le 13, durante l’ora d’aria, un detenuto ha spiccato un salto, si è aggrappato a una tettoia alta poco più di 2 metri, si è issato a forza di braccia ed è salito sul tetto. Poi si è spogliato e ha iniziato a urlare per richiamare l’attenzione.
Da sotto gli ordinano di scendere. Lui parla con la gente che si raduna fuori, infine si riveste. Grida: «Ora vi faccio vedere come si allenano i paracadutisti». Si attacca a un cavo che collega il tetto dove si trova a quello dell’abitazione del direttore del carcere. Inizia a muoversi da un punto all’altro come in una esercitazione militare. A metà si ferma, resta aggrappato con le mani, si dondola, poi cerca di saltare verso un terrazzino. Picchia contro la parete, cade di sotto. Mentre lo caricano in ambulanza per portarlo in ospedale mormora: «Sto bene, molto bene, è solo il primo tentativo». In ospedale lo legano al letto.
Si chiama Roberto Succo. Lo hanno soprannominato «il cherubino nero», come il personaggio del XXVII canto dell’Inferno di Dante che, da cherubino, è stato trasformato in demonio. E poi qualcuno ha osservato che quel ragazzo ha i tratti dolci e lo sguardo gentile come quello di un angelo. Ma è anche cattivo: è un angelo nero.
Succo è nato a Venezia, ha ventisei anni ed è stato a lungo ricercato sia in Italia sia in Francia, dove era il latitante numero uno nella lista dei più pericolosi. Quando diede vita alla sua esibizione nel carcere di Treviso aveva già fatto molte vittime. In Francia lo conoscevano come André. André l’anguille e André le fou avevano scritto i giornali.
Tutto era iniziato sette anni prima, con un coltello e un’accetta.
L’11 aprile 1981 il dirigente del distretto di polizia di San Marco, in centro a Venezia, mandò due agenti a Mestre, in via Terraglio. Da due giorni l’appuntato Nazario Succo non si presentava al lavoro. Era una cosa strana, mai successa prima. Al telefono di casa non rispondeva nessuno. I due agenti suonarono più volte alla porta, poi si decisero a entrare dal balcone, passando da quello di una vicina. Forzarono la finestra, attraversarono il salotto, dove tutto sembrava normale. Nel corridoio però c’era sangue, oggetti e vestiti buttati a terra. La porta del bagno era chiusa e davanti erano stati messi due scatoloni, come a impedire il passaggio. Gli agenti li spostarono ed entrarono: nella vasca, piena di acqua e sangue, c’erano i corpi di Nazario Succo e di sua moglie Maria Lamon, uno sopra l’altro. Roberto, il figlio diciannovenne della coppia, non c’era. Né c’era l’auto della famiglia, un’Alfa Romeo Alfasud. E non c’era nemmeno la pistola d’ordinanza di Nazario Succo, una Beretta.
Arrivarono i dirigenti della Squadra Mobile e i tecnici della polizia scientifica. Nella camera del ragazzo trovarono i suoi vestiti macchiati di sangue. Venne immediatamente emesso un mandato d’arresto.
Roberto fu catturato due giorni dopo. Stava mangiando da solo in una pizzeria di San Pietro Natisone, in Friuli. Qualcuno aveva notato in paese l’Alfasud di cui parlavano i telegiornali. In pizzeria arrivarono i carabinieri. Appena li vide, Succo cercò di estrarre la pistola d’ordinanza del padre, che aveva infilato nella custodia di una macchina fotografica, ma non fece in tempo. Lo portarono in caserma, gli chiesero perché avesse ucciso i genitori, ma lui giurò di essere innocente. Spiegò, anzi, che era scappato perché non facessero fuori anche lui, che la sua famiglia era nel mirino di un gruppo della malavita organizzata. Nell’Alfa però, a cui Succo aveva cambiato la targa sostituendola con quella rubata a un’auto di Udine, venne trovato il coltello con cui erano stati uccisi la madre e il padre.
Confessò. Spiegò che ai suoi genitori di lui non interessava nulla e che la sera di giovedì 9 aprile c’era stato un litigio più violento del solito perché la madre non voleva fargli usare l’Alfasud del padre. Secondo lei, Roberto andava troppo forte: quando lui prendeva l’auto, lei non riusciva a dormire, era troppo preoccupata. Allora Roberto aveva afferrato un coltello e l’aveva uccisa. L’aveva accoltellata trentadue volte. Poi aveva aspettato il padre, per ore. Quando Nazario Succo era tornato a casa, il figlio l’aveva colpito alla nuca con il retro di un’accetta, poi lo aveva finito a coltellate, infilandogli in testa un sacchetto di plastica perché, disse poi, «non sporcasse troppo in terra».
Subito dopo, aveva riempito la vasca da bagno e vi aveva deposto i due corpi. Disse al magistrato che sperava così di coprire gli odori e di ritardare la scoperta dell’omicidio.
Il ragazzo raccontò che la mattina dopo, con la pistola del padre e 300.000 lire che aveva trovato in casa, era salito sul treno per Milano ed era sceso a Brescia, dove abitava lo zio. Avrebbe voluto raccontargli tutto, ma non ne aveva avuto il coraggio. Allora era tornato a Mestre e aveva preso l’auto. Si era diretto a Treviso, aveva dormito in macchina, poi era tornato nuovamente a Mestre: voleva prendere i corpi e farli sparire. A casa aveva però trovato i sigilli della polizia.
Roberto narrò tutto con calma, senza particolari emozioni, anzi si soffermò su alcuni dettagli, descrivendo con precisione le sue mosse, i movimenti fatti durante gli accoltellamenti. A un certo punto confidò al magistrato: «Sa, di anatomia un po’ me ne intendo. Da piccolo mi divertivo a sezionare gli animali dopo averli cloroformizzati». Aggiunse anche che avrebbe rifatto tutto: «Mia madre era un mostro a due teste». Quanto al padre, spiegò che lo aveva ucciso per non farlo soffrire: «Come avrebbe potuto vivere con la moglie uccisa e il figlio in galera?». L’aveva colpito subito, appena era entrato in casa, «per non fargli vedere la moglie ridotta in quel modo».
Succo si fece rileggere più volte il verbale e, sempre con tono professorale, apportò una serie di modifiche. Alla fine concluse: «Ecco, questo è quanto».
L’intera storia era assurda. Il racconto del ragazzo era glaciale ma, soprattutto, era sorprendente che mai nessuno avesse notato nulla del suo disagio psichico. Nazario Succo non aveva mai parlato di problemi con il figlio. E nemmeno la moglie, Maria, con le amiche o i parenti aveva accennato a litigi. Si trattava di un delitto apparentemente esploso dal nulla, inaspettato e per questo forse ancora più sconvolgente. Eppure, i vicini di pianerottolo avevano sentito grida furiose in passato. Un giorno videro Roberto con le guance tutte graffiate: capirono che la lite con la madre era andata oltre. Raccontarono l’episodio alla polizia. Aggiunsero anche che una volta Maria Lamon si era confidata con loro, parlando di quanto Roberto fosse sempre più aggressivo e violento. Le avevano consigliato di rivolgersi a qualcuno che potesse aiutare il ragazzo, uno psicologo. Lei aveva risposto che no, non c’era proprio da pensarci, avevano già tanti problemi.
Quando uccise il padre e la madre, Roberto frequentava la quinta D del liceo scientifico Morin, nel quartiere Gazzera, a Mestre. I compagni lo descrissero come uno che aveva buoni rapporti con tutti, ma non era amico di nessuno. A scuola andava bene, senza eccellere in particolare: quando suonava la campanella di fine lezione, usciva dall’istituto e se ne andava, senza mai fermarsi con gli altri. Era timido, dissero i compagni di classe. Ma era anche affascinante, attraente: piaceva molto alle ragazze. Però a volte diceva e faceva cose come se volesse respingere tutti, allontanarli. Si vantava, per esempio, di essere molto bravo a sezionare i piccoli animali. Raccontò che li tagliava e poi li appendeva a un filo per studiarne bene l’anatomia. Un particolare aveva colpito alcuni compagni di classe: Roberto aveva voluto a tutti i costi entrare a far parte del coro parrocchiale.
Amava le arti marziali e il culturismo ma, precisarono i suoi insegnanti, era decisamente meno invasato di tanti altri. Era gentile, però a volte si innervosiva per niente, diventava aggressivo. Sull’autobus affollato che lo riportava a casa aveva litigato più di una volta per conquistare spazio attorno a sé. E un giorno in cui i compagni di classe lo avevano circondato fingendo di volerlo picchiare, lui si era sporto dalla finestra minacciando: «O ve ne andate o mi butto! Non ci metto niente. E poi dovrete spiegarlo voi ai professori!».
Gli psichiatri che lo incontrarono dopo l’arresto conclusero che nessuno aveva mai capito chi fosse in realtà, quali pulsioni lo agitassero. Era, secondo loro, una bomba a orologeria che prima o poi doveva esplodere. Ed era proprio ciò che era accaduto: la bomba era esplosa.
Ma nell’aprile 1981 la carriera criminale di Roberto Succo era solo all’inizio.
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