L’autobiografia del principe Harry, secondo chi l’ha scritta
Il ghostwriter di “Spare” J. R. Moehringer ha raccontato sul “New Yorker” come è iniziato tutto e cosa ha significato per lui
L’autore e giornalista statunitense J. R. Moehringer ha scritto un articolo sul New Yorker in cui racconta come è arrivato a scrivere Spare, l’autobiografia del principe Harry del Regno Unito, e cosa è successo dopo. Moehringer è il ghostwriter del libro, cioè la persona che l’ha di fatto scritto ma che non figura come autore. Prima di Spare, Moehringer era già un autore affermato: aveva vinto un premio Pulitzer e nel 2005 il suo primo romanzo autobiografico, Il bar delle grandi speranze, aveva avuto molto successo diventando anche un film. La vera fama però l’aveva raggiunta nel 2009 dopo aver scritto Open, l’autobiografia del tennista Andre Agassi diventata un bestseller.
Non è raro che l’autobiografia di una persona famosa venga scritta da un ghostwriter, e anzi è quello che succede nella maggior parte dei casi. Nel caso di Spare però il nome di Moehringer, che avrebbe dovuto rimanere sconosciuto, è diventato noto senza il suo consenso, cosa che ha avuto un forte impatto sulla sua vita personale e in minima parte ha probabilmente contribuito al successo del libro.
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Nel 2020 Moehringer ricevette un messaggio come ne aveva ricevuti molti, da qualcuno che gli chiedeva se fosse interessato a fare da ghostwriter per un’autobiografia. In quel momento della sua vita non era per niente interessato a iniziare un lavoro di questo tipo ma chiese comunque di chi si trattasse. La risposta fu «il principe Harry» e Moehringer fu abbastanza incuriosito da accettare di fare una videochiamata su Zoom. In quel periodo sua madre era appena morta e, scrive, una delle ragioni per cui entrò subito in sintonia con Harry – la cui madre, la principessa Diana, era morta 23 anni prima – fu che «i nostri lutti erano ugualmente freschi».
Nell’articolo Moehringer ripercorre brevemente la propria carriera. Racconta che iniziò a fare il cronista al New York Times, ritenuto il giornale più importante e autorevole del mondo. Ogni giorno seguiva fatti di cronaca come incendi, omicidi, processi e poi mandava i suoi resoconti alla redazione che li pubblicava più o meno modificati sul giornale del giorno dopo, con la firma di qualcun altro. Ma a lui non importava, anzi: avendo lo stesso nome di suo padre, John Joseph Moehringer, che non era mai stato presente nella sua vita, per lui era meglio così. Quando finì a scrivere rubriche di gossip firmate da qualcun altro per il Rocky Mountain News di Denver, in Colorado, si convinse ancora di più che scrivere senza firmarsi fosse la cosa migliore per lui.
Open, l’autobiografia di Andre Agassi, fu la prima che scrisse da ghostwriter. Fu Agassi a contattarlo dopo aver letto il suo libro autobiografico Il bar delle grandi speranze e si incontrarono in un ristorante: gli fece una serie di domande sul suo lavoro e alla fine gli chiese di aiutarlo a scrivere la sua autobiografia. Inizialmente Moehringer rispose di no, perché, dice, non riusciva a immaginare di poter scrivere il libro di qualcun altro e perché allora lavorava come corrispondente al Los Angeles Times, dove poteva dedicarsi a scrivere storie lunghe, come piaceva a lui. In breve tempo però la linea editoriale del Los Angeles Times cambiò e lui decise di accettare la proposta di Agassi.
Quando uscì, il libro di Agassi andò molto bene fin da subito. Una sera, racconta Moehringer, accese per caso la tv e lo trovò ospite di un programma in seconda serata. L’intervistatore elogiò il libro e la scrittura e Agassi rispose sempre in modo molto modesto, ma senza mai citare il nome di Moehringer. «Andre mi aveva chiesto di mettere il mio nome sulla copertina» scrive «e io avevo rifiutato. Tuttavia, proprio prima che uscisse di scena, ho iniziato a mormorare alla tv: “Di’ il mio nome”». In quei giorni cominciò a pensare di non essere tagliato per il lavoro del ghostwriter e di voler tornare al giornalismo, la sua prima passione.
Lo fece e scrisse anche un secondo romanzo, che però fu smontato dalla critica. Per mesi cadde in una specie di depressione, finché Agassi non lo chiamò per chiedergli se fosse interessato a fare il ghostwriter per Phil Knight, il fondatore di Nike. Inizialmente Moehringer fu scettico sul fatto di scrivere la storia di un imprenditore, ma l’esitazione durò poco e L’arte della vittoria. Autobiografia del fondatore della Nike uscì nel 2016. Successivamente furono in molti a chiamarlo: attori, attivisti, miliardari, soldati. In due casi accettò perché le storie erano particolarmente avvincenti ma in entrambi i casi gli autori decisero di abbandonare il progetto dopo aver letto la prima bozza. La seconda volta che si trovò a dover buttare il suo lavoro, Moehringer disse a sua moglie che non l’avrebbe mai più rifatto.
Poco dopo arrivò la proposta del principe Harry. Nonostante la simpatia che provò la prima volta che lo conobbe in videochiamata, Moehringer dice di aver avuto molti dubbi: Harry non sembrava sapere bene cosa raccontare e sembrava esitare su alcuni punti, esattamente come le due persone per cui aveva lavorato negli anni precedenti. Inoltre, Moehringer sapeva che «qualsiasi cosa Harry avesse detto, in qualsiasi momento l’avesse detta, avrebbe scatenato una tempesta, e io non sono per natura un cacciatore di tempeste». E poi c’era la pandemia e non si sapeva quando sarebbero riusciti a incontrarsi di persona. Harry però gli disse di non avere fretta e lui cominciò a pensare sempre di più che fosse una storia che valeva la pena di essere raccontata, e in cui fosse molto facile immedesimarsi.
Cominciarono a lavorare insieme a distanza e poi, con l’allentamento delle restrizioni dovute alla pandemia, si incontrarono alcune volte a Montecito, in California, dove Harry vive con la sua famiglia. Il contratto tra i due prevedeva che il nome di Moehringer non venisse mai rivelato, ma a un certo punto la notizia che proprio lui stava lavorando all’autobiografia di Harry arrivò in qualche modo alla stampa.
When “Spare” was released, facts were wrenched out of context and complex emotions were reduced to cartoonish idiocy, writes J. R. Moehringer, who collaborated with Prince Harry on the memoir—“and there were so many falsehoods.”https://t.co/YE61nyQKZG
— The New Yorker (@NewYorker) May 9, 2023
Moehringer finì al centro dell’attenzione della stampa di tutto il mondo in modo molto simile a come lo stesso Harry e la moglie, Meghan Markle, furono perseguitati dai giornalisti e dall’attenzione pubblica negli anni successivi al loro matrimonio e lo sono in parte ancora oggi. Moehringer dice che furono scritte molte cose non vere e che lui e la sua famiglia furono in più occasioni perseguitati da giornalisti e paparazzi. Aggiunge di aver pensato di scrivere a un giornale, fare un tweet, rilasciare una dichiarazione, prima di ricordarsi che «i fantasmi [ghosts] non parlano».
Nell’articolo Moehringer dice la sua anche su come furono diffuse le prime anticipazioni di Spare. Una settimana prima della pubblicazione ufficiale in tutto il mondo, una libreria spagnola espose e vendette per sbaglio alcune copie del libro. Giornalisti da tutto il mondo si misero a tradurre pezzi di libro dallo spagnolo e questo portò ad alcune traduzioni in inglese e in altre lingue spesso molto lontane dal testo originale. Per esempio, scrive Moehringer, dell’episodio in cui Harry perde la verginità fu riportata una frase che diceva «l’ho montata velocemente» («I mounted her quickly»): ma «posso affermare con il cento per cento di sicurezza che nessuno viene “montato”, rapidamente o in altro modo, in Spare».
L’articolo sul New Yorker inizia con un aneddoto risalente all’estate del 2022 che è particolarmente esemplare delle difficoltà del lavoro di un ghostwriter come Moehringer. Una sera tardi, dopo mezzanotte, Moehringer e Harry erano in videochiamata su Zoom per una delle loro sessioni di revisione del testo e arrivarono a discutere di un passaggio molto delicato. Era un punto in cui Harry raccontava di un’esercitazione militare in cui veniva simulato il suo rapimento da un gruppo di terroristi. Pur essendo tutto finto Harry subì in quell’occasione diverse violenze fisiche e psicologiche, perché lo scopo era valutare se fosse o meno in grado di resistere in caso di cattura e prigionia. Tra i tanti insulti che gli vennero rivolti, a un certo punto uno dei finti terroristi impiegati nell’esercitazione gli disse qualcosa di molto offensivo nei confronti della madre, la principessa Diana.
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A quel punto, scrive Moehringer, «anche i finti terroristi assorti nelle loro parti, anche gli incalliti soldati britannici che osservano da una postazione remota, sembrano riconoscere che una regola inviolabile è stata infranta», e alla fine di tutto uno dei partecipanti alla simulazione andò da Harry a chiedergli scusa. Per Moehringer l’episodio andava concluso così, ma già in precedenza Harry aveva insistito per inserire la propria risposta ai finti terroristi e durante la seduta di revisione continuò a insistere su questo. Il motivo, spiegò, era che per tutta la vita era stato considerato poco sveglio ed era importante per lui far vedere che anche in una condizione di svantaggio e oppressione era stato in grado di rispondere con prontezza.
Moehringer rispose di aver capito ma che comunque si rifiutava di mettere quella battuta nel libro. Nell’articolo spiega il motivo così:
«Perché, come gli dissi, quello che hai appena detto riguarda solo te. Tu vuoi che il mondo sappia che tu hai fatto un buon lavoro, che tu sei stato intelligente. Ma, per quanto possa sembrare strano, la tua autobiografia non riguarda te. Non è neanche la storia della tua vita. È una storia tratta dalla tua vita, una particolare serie di eventi scelti perché hanno maggior risonanza per il più ampio pubblico, e a questo punto della storia quelle persone non hanno bisogno di sapere niente di più del fatto che i tuoi rapitori hanno detto una cosa crudele su tua mamma».
Alla fine Harry acconsentì a non aggiungere la propria replica, e anzi disse a Moehringer che apprezzava il suo modo di lavorare. Questo episodio però continuò a tormentare Moehringer per un po’: non tanto perché temesse di aver sbagliato a insistere sulla sua posizione (perché la metà del lavoro di un biografo è decidere cosa lasciare fuori), quanto perché temeva di averlo fatto con eccessivo coinvolgimento, di aver perso di vista il suo ruolo in quel lavoro. «Per la millesima volta nella mia carriera di ghostwriter mi sono dovuto ricordare: non è il tuo cavolo di libro».
Alla fine dell’articolo Moehringer dice che aveva dovuto ripetersi la stessa cosa dopo l’uscita di Spare, quando si era reso conto che per Harry quel libro era stato il modo per elaborare il proprio lutto per la morte della madre, un lutto di cui non aveva mai potuto parlare e che per questo si era prolungato così tanto: «Non è il tuo cavolo di libro». Ha ripensato anche a un’altra delle sue convinzioni: «I fantasmi non parlano: chi lo dice? Magari parlano. Magari certe volte dovrebbero».