Perché i paesi arabi stanno tornando ad avere rapporti con la Siria
La riammissione nella Lega Araba è soltanto l'ultimo passaggio di una tendenza che sembra inevitabile, per molte ragioni
Domenica la Lega Araba, l’organizzazione politica internazionale che riunisce i paesi del Nordafrica e quelli della Penisola araba, ha deciso di riammettere al suo interno la Siria, che era stata sospesa 12 anni fa per via della violentissima repressione degli oppositori da parte del regime di Bashar al Assad, ancora oggi impegnato in una sanguinosa guerra civile.
È stata una decisione inattesa, ma non sorprendente: ormai da alcuni anni diversi paesi del mondo arabo stanno ricostruendo rapporti diplomatici ed economici con la Siria, benché il regime di Assad continui a compiere probabili crimini di guerra e violazioni sistematiche dei diritti umani, a tutti i livelli. Negli ultimi mesi gli sforzi di normalizzazione sono stati accelerati da uno storico accordo fra Iran e Arabia Saudita, le due principali potenze della regione, che sta cambiando molti equilibri e rapporti fra i paesi di quest’area.
«C’è la sensazione che stia prendendo forma un nuovo ordine politico regionale, da cui sta diventando sempre più insostenibile continuare a tenere fuori la Siria», ha spiegato alla rivista online Al-Monitor Steven Heydemann, esperto di Medio Oriente del think tank Brookings Institution.
La guerra civile in Siria è arrivata a un punto di stallo. Le forze di Assad controllano gran parte del territorio siriano compreso nei confini precedenti alla guerra civile, sebbene con alcune importanti eccezioni: a nord-est c’è un ampio territorio controllato dalle forze curde, a nord-ovest due regioni rispettivamente occupate dagli ultimi ribelli islamisti che ancora combattono contro Assad e da altri ribelli sostenuti militarmente dalla Turchia, che nel 2019 ha invaso e occupato una città siriana che era controllata dai curdi, Afrin. Nelle aree più interne inoltre esistono delle zone controllate dallo Stato Islamico, o ISIS.
I confini di queste aree sono ormai piuttosto definiti da anni, benché si continui a combattere a bassa intensità. E all’interno delle zone controllate da Assad non si vedono movimenti che facciano pensare a nuovi tentativi di rovesciare il regime: del resto circa un terzo della popolazione siriana è scappata all’estero – si parla di circa 7 milioni di persone – e chi è rimasto viene sottoposto a una sistematica e violenta repressione del dissenso, che rispetto agli inizi della guerra non si è per nulla ammorbidita. Negli anni della guerra si stima che fra 100mila e 150mila siriani siano scomparsi, probabilmente rapiti dal regime: non si sa quanti di loro siano morti o tuttora detenuti.
Sebbene insomma non sia cambiato molto rispetto a quando venne isolata dal contesto internazionale, circa 12 anni fa, negli ultimi tempi vari paesi arabi hanno ripreso ad avere rapporti ufficiali col regime di Assad.
Il primo paese in assoluto a muoversi in questa direzione sono stati gli Emirati Arabi Uniti, che ormai da anni cercano di giocare un ruolo più rilevante nella regione, anche grazie alla ingente ricchezza garantita dalle loro riserve di petrolio. Già nel 2018 gli Emirati Arabi Uniti hanno ristabilito rapporti diplomatici con la Siria, e da allora Assad ha visitato il paese due volte, l’ultima nel marzo del 2023: sono state le uniche volte, dal 2011, che Assad ha lasciato la Siria per una visita di stato.
A metà aprile invece il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad è stato accolto in Arabia Saudita dal suo pari grado Faisal bin Farhan. Della visita si è discusso moltissimo: in questi anni di guerra civile il principale alleato della Siria è stato l’Iran, cioè il principale avversario dell’Arabia Saudita nella regione. Soltanto alcuni anni fa la stessa Arabia Saudita ospitava e armava alcuni gruppi ribelli che combattevano Assad, in accordo con gli Stati Uniti e più in generale con l’Occidente. Ultimamente anche la Giordania e il Bahrein hanno riaperto le proprie ambasciate a Damasco e ripreso i propri rapporti diplomatici.
Non c’è una ragione univoca che ha spinto i paesi arabi a normalizzare i rapporti con la Siria: alcuni analisti parlano di ragioni diverse, che insieme hanno fatto massa critica. «Tutti i paesi della regione hanno delle questioni con la Siria che devono essere discusse e negoziate», ha spiegato al New York Times Joshua Landis, direttore del centro studi sul Medio Oriente dell’università dell’Oklahoma. «Assad ha causato dei problemi che i suoi vicini non riescono a risolvere senza di lui», ha scritto più esplicitamente la giornalista Kim Ghattas sul Financial Times.
Ghattas spiega che diversi funzionari dei paesi arabi le hanno raccontato che nel breve termine sperano che la Siria assicuri un ritorno in sicurezza per almeno una parte dei siriani che sono scappati altrove, soprattutto nei paesi limitrofi. In Turchia vivono quasi 3,5 milioni di rifugiati siriani, e il New York Times nota che tutti i principali candidati alle imminenti elezioni presidenziali hanno parlato della possibilità di agevolare il ritorno di alcuni di loro in Siria. La Giordania ne ospita 660mila, un numero significativo per un paese che ha poco più di 10 milioni di abitanti, il Libano 805mila – spesso in condizioni molto precarie, data la crisi economica e sociale del paese – l’Iraq 261mila, l’Egitto 145mila.
Altri paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono perlopiù interessati a ridurre il traffico di una droga chiamata captagon, molto popolare nei loro confini, prodotta perlopiù in Siria. Il captagon è un composto derivato da amfetamina e caffeina il cui traffico è gestito per lo più da funzionari e militari vicinissimi ad Assad, che si sono arricchiti aggirando le sanzioni imposte al regime siriano durante i molti anni di guerra combattuta nel paese. Si parla di un giro di affari da miliardi di euro l’anno, molto difficile da arginare.
Sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi Uniti, inoltre, stanno cercando di ricostruire rapporti con la Siria anche per bilanciare quelli storicamente coltivati dal regime di Assad con l’Iran, ora che i rapporti nella regione sono più distesi e i funzionari sauditi non sono più costretti a considerare nemici quelli siriani.
In tutto questo gli Stati Uniti e l’Occidente non hanno un ruolo così rilevante: le sanzioni imposte una dozzina d’anni fa restano in piedi ma i paesi arabi hanno ormai trovato vari modi per aggirarle. Nei giorni successivi al grave terremoto che ha interessato varie regioni della Turchia e della Siria alcune restrizioni sono inoltre state temporaneamente sospese per consentire l’arrivo degli aiuti internazionali, cosa che il regime di Assad ha sfruttato politicamente per ristabilire alcuni contatti diplomatici.
Alcuni analisti sostengono comunque che l’Occidente avrebbe potuto fare di più per evitare che il regime di Assad diventasse un paese con cui fare i conti, per i vicini. Di recente Charles Lister, esperto di Siria del Middle East Institute, ha detto al Guardian che «il calcolo dei paesi della regione è mosso da un semplice fatto: gli Stati Uniti e i loro alleati sono scomparsi, le loro prese di posizione sulla Siria sono poco efficaci e attente, il regime di Assad invece rimarrà al suo posto».