Che cosa è stato il “blairismo”
L'ex primo ministro britannico Tony Blair compie oggi 70 anni e la sua eredità politica è ancora piuttosto popolare, nonostante tutto
Sabato 6 maggio compie 70 anni Tony Blair, uno dei politici più influenti della storia recente del Regno Unito e di tutta l’Europa. Blair, che fu segretario del Partito Laburista britannico tra il 1994 e il 2007 e primo ministro tra il 1997 e il 2007, è considerato uno dei più importanti riformatori della sinistra europea e un leader che seppe portare al suo paese una consistente crescita economica. Al tempo stesso è oggi una figura estremamente controversa, sia per alcune scelte discutibili, come la decisione di sostenere l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, sia perché le sue impostazioni di politica economica estremamente moderate e centriste oggi sono duramente rifiutate da una parte consistente della sinistra europea.
La figura di Tony Blair è a tal punto influente che ancora oggi è molto diffusa sia nel Regno Unito sia in Europa la parola “blairismo”, con cui si intende un’impostazione politica di centrosinistra molto spostata al centro, che appunto si ispira alle riforme che Blair mise in atto nel Regno Unito tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila.
Il “blairismo” di recente è tornato di moda nella politica britannica: dopo che nel corso dell’ultimo decennio il Partito Laburista era stato dominato dall’ala più radicale rappresentata dal segretario Jeremy Corbyn, che aveva una linea politica di completo ripudio del blairismo, negli ultimi mesi il nuovo segretario Keir Starmer ha detto in varie interviste che il partito non deve rifiutare l’eredità di Blair, e ha fatto capire di ispirarsi alle sue riforme moderate e centriste.
In tutta Europa, inoltre, numerosi leader politici continuano a ispirarsi, in maniera più o meno esplicita, a Tony Blair, e le sue impostazioni politiche ed economiche continuano a trovare moltissimi sostenitori sui media e tra gli analisti.
Il New Labour
Tony Blair è nato a Edimburgo nel 1953 e prima di diventare politico di professione è stato avvocato. Entrò nel Partito Laburista nel 1975 e fu eletto deputato per la prima volta nel 1983. Quel periodo – la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta – fu uno dei peggiori della storia dei Laburisti.
Il modello della sinistra tradizionale seguito fino a quel momento dal partito, che aveva portato all’aumento dei diritti per i lavoratori, alla creazione del “welfare state” e a una generale espansione della giustizia sociale, era entrato in crisi con la fine del boom economico degli anni Sessanta, e a partire dalla fine degli anni Settanta la politica britannica fu dominata dal Partito Conservatore di Margaret Thatcher, che riorientò drasticamente la politica e la società del Regno Unito.
Thatcher, assieme al presidente americano Ronald Reagan, si fece promotrice di una tendenza che in quegli anni dominò tutto l’Occidente e che voleva ridurre il ruolo dello stato e della burocrazia nell’economia e nella società: fece approvare enormi liberalizzazioni dei trasporti pubblici e della sanità, ridusse il potere dei sindacati, allentò le regole finanziarie per fare della City di Londra una delle più grandi borse finanziarie del mondo, abbassò le tasse e smantellò numerosi elementi centrali del “welfare state” che era stato costruito nei decenni precedenti.
Alla fine degli anni Ottanta, però, anche il successo politico di Thatcher cominciò ad appannarsi. Nel 1990 fu costretta a dimettersi per lasciare l’incarico di primo ministro al suo collega di partito John Major, che continuò a guidare il paese con successi alterni fino al 1997.
Nel frattempo, nel 1994, Tony Blair fu eletto leader del Partito Laburista. Blair capì che, per ottenere successo elettorale in una società profondamente influenzata dal thatcherismo, era necessario abbandonare le tradizionali politiche socialiste del Labour e spostare il partito decisamente più al centro, abbracciando le liberalizzazioni e le politiche di libero mercato promosse da Thatcher, ma al tempo stesso aumentando l’attenzione verso la giustizia sociale.
Blair, assieme a un gruppo di colleghi, intellettuali ed esperti di comunicazione politica, definì questo progetto di profondo cambiamento della sinistra britannica “New Labour”, Nuovo Labour, e ottenne rapidamente un successo enorme. A questo contribuì anche il carisma personale di Blair, che era visto come un politico giovane, un grande oratore e una figura ideale per svecchiare un panorama politico che al tempo era dominato da persone piuttosto grigie, a partire dallo stesso Major. Blair si presentò come un riformatore e un modernizzatore.
Tra il 1994 e il 1997 le iscrizioni al Partito Laburista, dopo oltre un decennio di declino, aumentarono del 40 per cento, e alle elezioni politiche del 1997 Blair ottenne il più grande risultato elettorale della storia laburista, con un’ampia maggioranza di 418 seggi su 650. Quella vittoria non è mai stata eguagliata da nessun altro leader laburista, e fu ripetuta prima nel 2001 e poi nel 2005.
I primi anni di Blair da primo ministro furono i più intensi e probabilmente quelli di maggior successo ed entusiasmo.
Blair non rinnegò le privatizzazioni e le deregolamentazioni di Thatcher, e anzi in alcuni casi le approfondì, come successe per esempio con il settore finanziario, che in quegli anni nel Regno Unito divenne eccezionalmente sviluppato e uno dei più importanti del mondo.
Al tempo stesso mise in atto alcune riforme che riuscirono a restituire elementi di giustizia sociale alle politiche estremamente rigide e ostili nei confronti dei lavoratori di Thatcher e Major. Introdusse un salario minimo e approvò un’importante riforma di agevolazioni fiscali per le classi più povere. Aumentò notevolmente la spesa pubblica per l’istruzione, che tra il 1997 e il 2010 crebbe dell’83 per cento, e per la sanità, che nello stesso periodo passò da 64 miliardi di sterline a 136 miliardi.
Nelle sue riforme economiche Blair fu anche fortunato: i suoi dieci anni al potere furono estremamente floridi per tutta l’economia mondiale, e il New Labour poté approfittare di una congiuntura economica eccezionalmente favorevole per la crescita. Con le sue dimissioni del 2007 Blair evitò per un pelo la grande crisi finanziaria mondiale, che invece schiantò l’economia e costrinse dopo il 2010 il governo guidato dai Conservatori a durissime misure di austerity.
A ogni modo i risultati delle riforme economiche di Blair furono notevoli: nei dieci anni del blairismo l’economia crebbe in maniera consistente e il tasso di povertà si abbassò. Al tempo stesso, però, le diseguaglianze economiche cominciarono ad aumentare in maniera considerevole, soprattutto negli ultimi anni del governo laburista.
Blair ottenne anche alcuni successi storici: fece approvare importanti riforme costituzionali (la cosiddetta “devolution”) che diedero grande autonomia ai governi locali di Scozia e Galles e ne aumentarono considerevolmente i poteri. Fu anche il firmatario dell’Accordo del Venerdì Santo, che pose fine a trent’anni di sanguinosi scontri tra indipendentisti e unionisti in Irlanda del Nord.
I governi di Tony Blair fecero anche alcuni timidi passi verso un maggiore riconoscimento dei diritti delle persone LGBT+.
La “terza via”
La creazione del New Labour e il suo successo nel Regno Unito non furono fenomeni isolati. Blair, anzi, fu uno dei principali esponenti – il principale in Europa – di una corrente politica che dalla metà degli anni Novanta e per tutti gli anni Zero del Duemila fu quella di maggior successo in Occidente: la cosiddetta “third way”, cioè la “terza via”.
Semplificando molto, l’idea alla base della “terza via” era che fosse necessario trovare un’alternativa ragionevole, moderata e centrista sia alle rigidità del socialismo tradizionale sia agli estremi del neoliberismo di destra di Thatcher e Reagan: una terza via, appunto. Questa terza via – anche qui semplificando – fu trovata coniugando le aperture al libero mercato e le deregolamentazioni tipiche del neoliberismo con una maggiore attenzione alla giustizia sociale tipica della sinistra tradizionale.
Il maggiore esponente della terza via fu il presidente americano Bill Clinton (1993–2001), che ebbe una parabola molto simile a quella di Blair: esponente del Partito Democratico, spostò il suo partito al centro e fu eletto con grande entusiasmo in un paese che era stato profondamente mutato dalle politiche neoliberali di Ronald Reagan, come era successo al Regno Unito con Thatcher. Clinton non rinnegò del tutto le liberalizzazioni e lo smantellamento del “welfare state” di Reagan, ma ne smussò gli aspetti più duri, e riuscì a creare le condizioni per un periodo di eccezionale crescita economica negli Stati Uniti.
Assieme, Clinton e Blair divennero i grandi sponsor internazionali dell’idea che la politica economica non dovesse necessariamente essere di destra o di sinistra, ma che dovesse più generalmente essere “di buon senso”, e occuparsi di favorire la crescita economica senza lasciare nessuno indietro. Le differenze principali tra destra e sinistra, secondo alcuni teorici della terza via, non dovevano cercarsi tanto nelle politiche economiche, quanto nell’attenzione all’espansione dei diritti civili per tutti.
Questa prospettiva ebbe un successo eccezionale tra tutti i partiti di centrosinistra dell’Occidente. Tra gli altri, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder (1998–2005) e il presidente del Consiglio italiano Romano Prodi (1996–1998 e 2006–2008) furono con alcune differenze sostenitori della terza via e misero in atto nei loro paesi riforme ispirate a quelle di Blair e Clinton, con tutte le differenze del caso.
Oggi le idee della terza via si sono molto appannate, anche se continuano a essere diffuse: si potrebbe dire che il presidente francese Emmanuel Macron è un politico decisamente “blairiano”. Nel tempo, tuttavia, soprattutto analisti ed economisti di sinistra hanno sostenuto che i politici della terza via si limitarono a proporre una versione soft e addolcita del neoliberismo thatcheriano, che ebbe enorme successo economico e seppe promuovere politiche progressiste finché la congiuntura dell’economia mondiale rimase favorevole, ma poi non seppe proteggere i lavoratori e le classi più svantaggiate non appena la crisi cominciò a farsi sentire, dopo il 2007.
L’idea che la terza via sia stata una prosecuzione più moderata delle politiche neoliberiste è ben rappresentata da un celebre aneddoto raccontato da Conor Burns, un parlamentare Conservatore (è impossibile dire se l’aneddoto di Burns sia accurato, ma è di fatto entrato nella cultura politica britannica). Nel 2002, durante una cena, Burns chiese a Thatcher quale fosse stato il suo più grande risultato. Lei, un po’ ironicamente e un po’ crudelmente, rispose: «Tony Blair e il New Labour. Abbiamo costretto i nostri avversari a cambiare idea».
Altri analisti ed esponenti politici mostrano al contrario una certa nostalgia per la terza via, che fu anche l’ultimo momento di successo generalizzato del centrosinistra in Occidente, e l’ultimo momento in cui fu possibile approvare politiche progressiste, benché timide, prima del lungo ventennio di austerità provocato dalla crisi del 2007–2008.
L’Iraq e la fine
Dopo l’eccezionale successo del 1997, i consensi politici di Blair si andarono riducendo progressivamente in ciascuna delle tre elezioni vinte, prima nel 2001 e poi nel 2005.
Dopo la fine della presidenza di Bill Clinton negli Stati Uniti nel 2001, in politica estera Blair si associò molto strettamente al Repubblicano George Bush, e tra il 2002 e il 2003 fu assieme all’amministrazione Bush uno dei sostenitori della tesi secondo cui fosse necessario invadere l’Iraq perché l’allora dittatore iracheno Saddam Hussein stava producendo “armi di distruzione di massa”, cioè armi chimiche, batteriologiche e nucleari con cui colpire l’Occidente.
A posteriori questa teoria si rivelò falsa, e la guerra in Iraq si trasformò ben presto in uno dei peggiori errori della politica estera americana (e occidentale) recente. Negli anni successivi, Blair fu accusato di aver ingannato l’elettorato britannico e in più di un’occasione chiese scusa per il ruolo avuto nell’ingresso nella guerra in Iraq, cosa che Bush non ha mai fatto.
La popolarità di Blair subì un grave colpo, a cui si unì una progressiva riduzione dell’iniziativa in campo economico e alcuni scandali, come per esempio quello relativo alla sua vicinanza con il miliardario ed editore di destra Rupert Murdoch.
Blair sarebbe dovuto rimanere in carica fino al 2010, ma fu costretto a dimettersi a causa degli scontri interni al suo partito, guidati dal suo Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown, che ne prese il posto. Secondo un celebre retroscena che fu poi confermato a posteriori dagli interessati, nel 1997 Blair e Brown avevano fatto un patto per la spartizione del potere, che prevedeva che Brown non avrebbe insidiato la leadership di Blair e che Blair in cambio gli avrebbe lasciato la carica di primo ministro dopo due mandati. Blair non rispettò la sua parte dell’accordo, e a metà del suo terzo mandato Brown riuscì a costringere Blair alle dimissioni.
Dopo la fine della sua carriera da primo ministro Blair, ancora relativamente giovane, mantenne una vita politica piuttosto attiva a livello internazionale. Divenne per un periodo inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente, un gruppo composto da ONU, Unione Europea, Stati Uniti e Russia impegnato a favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese. È stato anche consulente e collaboratore di numerose aziende internazionali e di prestigiose università.
Tra il 2015 e il 2020, durante il periodo di Jeremy Corbyn come capo del Partito Laburista, l’eredità del blairismo fu duramente ripudiata in favore di un ritorno a politiche più vicine al socialismo tradizionale. Alle elezioni del 2019, tuttavia, Corbyn subì una storica sconfitta contro il Partito Conservatore di Boris Johnson, la peggiore di tutta la storia del Labour: si dimise poco dopo.
Dopo un periodo di turbolenze, oggi il Partito Laburista è guidato da Keir Starmer, che elogia piuttosto apertamente l’eredità del “blairismo”.