Il «cardinale esterno»

Il rapporto unico e strettissimo di Giulio Andreotti con la Chiesa fu un aspetto centrale della sua vita politica, eppure spesso poco considerato

di Mario Macchioni

(© MICHELE RICCI/LAPRESSE)
(© MICHELE RICCI/LAPRESSE)
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I funerali di Giulio Andreotti si tennero il 7 maggio del 2013 nella basilica romana di San Giovanni dei Fiorentini, a poca distanza dall’appartamento di corso Vittorio Emanuele II in cui era morto il giorno prima. Furono funerali privati, eppure parteciparono le più alte cariche politiche, oltre ad alcuni dei suoi vecchi colleghi democristiani, i pochi ancora in vita. C’era il presidente del Senato Pietro Grasso, l’ex presidente del Consiglio Mario Monti, il sindaco Gianni Alemanno, Pier Ferdinando Casini. E poi Ciriaco De Mita, Emilio Colombo, Paolo Cirino Pomicino. C’erano anche la figlia di Alcide De Gasperi, Romana, e la vedova di Giovanni Leone, Vittoria Michitto. Una rappresentanza giovanile dell’AS Roma portò il vessillo della squadra, per cui Andreotti aveva tifato per tutta la vita.

Alla cerimonia assistettero vari prelati, ma l’omelia la fece don Luigi Veturi, il parroco della basilica. Veturi fu sintetico ma accorato. Disse, tra le altre cose: «l’Andreotti che ho conosciuto non aveva a che fare con quello che si diceva di lui. Chi una cosa, chi un’altra. Non si può prescindere da Andreotti senza comprendere che la fede ha illuminato tutta la sua vita e il suo percorso umano».

A dieci anni dalla morte, Andreotti rimane una delle figure più rappresentative della cosiddetta Prima Repubblica, quel periodo della storia italiana che va dal Secondo dopoguerra ai primi anni Novanta. Il suo mito resiste, basato su una lettura che lo vede come il fulcro di un potere occulto e capillare, e di lui si ricordano spesso i processi per mafia, che segnarono l’ultima parte della sua carriera politica. Su Andreotti sono stati pubblicati centinaia di articoli, libri e film, che cedono facilmente al racconto della dimensione di politico abile e manovratore, e in cui altri aspetti non meno importanti rimangono sullo sfondo: per esempio il suo rapporto con il Vaticano e con la Chiesa in generale.

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Che Andreotti avesse un’entratura di un certo livello in Vaticano è un fatto noto, ma viene citato più che altro come una prova ulteriore di quanto fosse ramificata la sua influenza politica. In realtà, come ha sintetizzato efficacemente Andrea Riccardi nella prefazione del libro I diari segreti, il legame di Andreotti con la Chiesa fu più complesso e per certi versi centrale nella sua attività politica. Riccardi, che è storico, politico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, inventò una definizione assai fortunata per riassumere il ruolo di referente politico che Andreotti aveva presso la Santa Sede: «cardinale esterno». In un’intervista del 2020 Riccardi la spiegò così:

La Santa Sede, fino a Leone XIII, aveva cardinali laici, che avevano ricevuto solo ordini minori cioè non ordinati sacerdoti. Non è questo il caso di Andreotti, laico, che era un “cardinale esterno” nel senso figurativo. Non era un cattolico qualsiasi, bensì un cattolico che contava in Vaticano soprattutto con Giovanni Paolo II, ma che fin da ragazzo era stato abituato a parlare con Pio XII e ad avere rapporti. Contava rispettosamente, ma contava. È a lui che si rivolgono i comunisti quando devono parlare con il Vaticano […].

La Chiesa Cattolica per Andreotti era un riferimento da sempre. Durante le estati che passava da bambino a Segni, in Ciociaria, frequentava assiduamente suore e sacerdoti. Poi anche nella casa romana di via dei Prefetti, dove ascoltava i racconti di sua zia Mariannina, che da adolescente era stata testimone dello storico passaggio dalla Roma dei papi alla Roma capitale del Regno d’Italia, nel 1870. Un giorno Andreotti raccontò che in gioventù invidiava i sacerdoti per le loro calzature senza lacci, e aggiunse: «Se non avessi avuto allergia al celibato avrei seguito la loro strada».

Andreotti a colloquio con papa Pio XII nel 1953 (Felici/FARABOLAFOTO)

Anche nei decenni successivi il cattolicesimo rimase il suo principale orizzonte culturale. Massimo Franco, commentatore politico del Corriere della Sera e autore di un’apprezzata e completa biografia su Andreotti, ha scritto che «il suo universo mentale ha sempre racchiuso il Vaticano come una fonte di ispirazione, valori, potere, identificazione». E anche per questo, quando nel 1993 iniziò il processo che vedeva Andreotti accusato di associazione a delinquere e associazione mafiosa, il Vaticano lo assistette di più rispetto al suo partito, la Democrazia cristiana. Scrive Franco:

[…] accadde banalmente che il «suo» mondo gli rimase vicino: molto più della Dc, che era il suo partito ma non lo amava. E poi, fra i democristiani, ce n’erano molti che pensavano che forse, sacrificando Andreotti, si sarebbero salvati loro. E altri che ritenevano che, sotto sotto, «Giulio» fosse quasi un estraneo, più «vaticano» che democristiano […].

A conferma di tutto questo c’è un’altra espressione caustica ma efficace, stavolta di Francesco Cossiga, leader democristiano e presidente della Repubblica tra il 1985 e il 1992. Cossiga definì Andreotti «segretario di Stato vaticano permanente», cioè quasi un emissario della Santa Sede. Ma la visione di Cossiga era in realtà più sfumata di quanto non si intuisca: in un’intervista al Giorno del 1999 disse che Andreotti rappresentava «il popolo del papa dentro la Dc», che prima di essere un democristiano era stato «un grande esponente del cattolicesimo politico. Chi non ha capito questo, non ha capito nulla della sua importanza storica per la società civile e la Chiesa».

Con cattolicesimo politico si possono intendere molte cose, ma nel caso di Andreotti il riferimento è a una visione del mondo conservatrice ma ecumenica, incline al compromesso e al dialogo con tutti. Non a caso Andreotti ebbe un ruolo chiave in alcuni momenti estremamente delicati della storia italiana, come il periodo della violenza politica negli anni Settanta: fu lui a presiedere il primo governo in cui ci fu la partecipazione attiva del Partito comunista, in virtù del suo anticomunismo conclamato che da una parte avrebbe rassicurato gli americani, ma dall’altra non gli impediva di condividere iniziative e progetti politici con chi non la pensava come lui.

Erano gli anni della Guerra fredda, in cui si confrontavano Stati Uniti e Unione Sovietica tra continue tensioni militari intervallate da periodi di distensione. Andreotti veniva considerato «l’uomo degli americani» anche per la fiducia di cui godeva in Vaticano.

Giovanni Paolo II con Andreotti e il cardinale Fiorenzo Angelini nel 1995 (ARCHIVIO – MASSIMO CAPODANNO/ANSA)

Questa fiducia restava più o meno invariata a prescindere dal papa di turno, ma Andreotti ebbe un rapporto speciale in particolare con Paolo VI e con Giovanni Paolo II. Negli anni Sessanta accompagnò l’apertura del primo verso i paesi cattolici dell’Europa orientale, che all’epoca erano controllati indirettamente o direttamente dall’Unione Sovietica. Poi ascoltò le sue lamentele per la legge sul divorzio del 1970 e per il successivo referendum abrogativo, che lui stesso cercò di evitare senza successo proprio su richiesta della Chiesa. Durante i giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, nel 1978, Andreotti ricevette più volte il segretario particolare di Paolo VI, don Pasquale Macchi, che lo teneva costantemente aggiornato sulle trattative del Vaticano per salvare Moro.

In tutto ciò Andreotti mantenne comunque una certa autonomia. Il suo ruolo era informale ma anche indipendente. Lo si vide una volta nel 1980 quando l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, lo criticò per alcune sue frasi sul comunismo, e lui reagì pretendendo una rettifica. Probabilmente fu anche per questo che Andreotti ricevette di rado critiche dirette per la sua vicinanza al Vaticano, e i suoi avversari, in particolare i comunisti, lo attaccavano soprattutto per questioni politiche legati ai governi che presiedeva piuttosto che per un tradimento del principio di laicità.

Nonostante l’autonomia, comunque, il più delle volte la comunanza di ideali e di approcci portavano Andreotti e il Vaticano a convergere e coltivare un rapporto di mutuo interesse.

Il canale preferenziale con il Vaticano rimase aperto anche dopo, persino negli anni in cui l’influenza politica di Andreotti era ormai marginale. Nel 1999, quando la Dc non esisteva più da anni e la classe politica era ormai del tutto cambiata, Andreotti era sotto processo a Perugia con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Quattro anni dopo sarebbe stato assolto con formula piena, ma nel frattempo sui giornali e in tv le sue vicende giudiziarie facevano scalpore. Nonostante questo, durante la messa per la beatificazione di Padre Pio del 2 maggio papa Giovanni Paolo II non esitò a mostrare pubblicamente l’appoggio della Santa Sede ad Andreotti.

Sul sagrato di San Pietro, in presenza di altre autorità pubbliche come il sindaco Francesco Rutelli e il presidente del Consiglio Massimo D’Alema, il papa strinse la mano di Andreotti, gli sussurrò parole di incoraggiamento e impartì su di lui la benedizione. Potrebbe sembrare un gesto scontato, ma in quel periodo Andreotti era politicamente ai margini e la tendenza generale era di tenerlo il più possibile a distanza.

È sempre lo storico Andrea Riccardi ad aggiungere un’altra dimensione della prossimità tra Andreotti e la Chiesa, un po’ sfuggente ma importante: Andreotti, scrive Riccardi, era un «cattolico romano» non solo «nel senso confessionale, ma culturale». Cioè la sua romanità era allo stesso tempo laica e papale senza che i due aspetti entrassero in conflitto, come se avesse ereditato in parte la concezione della vecchia Roma dell’Ottocento, pur vivendo nello Stato laico e accettando – anzi sostenendo – i suoi principi. «C’era l’identità dei preti romani, che Andreotti conosceva e frequentava» spiega Riccardi. «È quella romanità che rende prossimi al papa».

Secondo Riccardi non è un caso che Andreotti abbia vissuto la gran parte della sua vita alla fine di corso Vittorio Emanuele II, in un palazzo ad angolo che affaccia su un ponte che poi porta in via della Conciliazione, davanti a San Pietro. Al di qua del Tevere, «esterno», ma comunque in qualche modo collegato con l’altra sponda, «l’Oltretevere» sinonimo della Città del Vaticano.

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