Il Met di New York ha un grosso problema di reperti archeologici rubati
Un'inchiesta internazionale ha raccontato come per anni abbia allargato la propria collezione con metodi spericolati
Da oltre un decennio, l’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan (l’equivalente della nostra procura, più o meno) ha un’intera unità dedicata all’individuazione e al rimpatrio di reperti archeologici e opere d’arte antiche che sono arrivati nelle collezioni di gallerie, musei e privati statunitensi dopo essere stati dissotterrati o trafugati illegalmente nei paesi d’origine.
Dal 2011 l’ufficio dice di aver recuperato quasi 4.500 di questi pezzi: il caso più recente è quello del Metropolitan Museum of Art di New York – uno dei più grandi e importanti musei al mondo, noto anche solo come “il Met”, e dove si è appena tenuto un famoso annuale evento mondano – a cui sono stati sequestrati a marzo 15 reperti provenienti originariamente da Turchia e India. I procuratori stanno indagando sulla possibilità che siano stati ottenuti dal museo attraverso Subhash Kapoor, noto contrabbandiere di manufatti antichi recentemente condannato al carcere da un tribunale indiano per traffico di oggetti d’antiquariato per un valore superiore ai 100 milioni di dollari.
Negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, le indagini incentrate sull’identificazione e la restituzione di oggetti di valore artistico e culturale importati illegalmente da commercianti e collezionisti si sono moltiplicate: dal 2007 sono state più di 20mila le opere restituite ai paesi di origine. «Per dirla senza mezzi termini, ogni museo [statunitense, ndr] che colleziona reperti archeologici ne ha alcuni ottenuti attraverso saccheggi. La scala del fenomeno è enorme e inquietante» ha detto al San Francisco Standard Donna Yates, criminologa esperta di traffici illegali di oggetti culturali.
Il Met è particolarmente coinvolto in questo fenomeno. Secondo una recente inchiesta giornalistica a cui ha lavorato il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) insieme ai giornalisti di varie testate internazionali – tra cui L’Espresso in Italia – sono almeno un migliaio gli oggetti nella collezione del Met che erano precedentemente di proprietà di individui che sono stati incriminati o condannati per reati tra cui saccheggio e traffico di opere d’arte. E soltanto tra il 2021 e il 2022 i procuratori di Manhattan hanno ordinato sei operazioni di sequestri di reperti archeologici appartenenti al museo.
Un caso che ha fatto particolarmente discutere è stato quello dell’antica bara egizia accanto a cui ha posato l’influencer Kim Kardashian durante il gala annuale organizzato dal Met nel 2018. Il fatto che la foto della bara fosse stata vista da milioni di persone ha permesso di scoprire che era stata rubata nel 2011 – e non acquistata legalmente nel 1971, come diceva una finta licenza di esportazione – e che era passata per Dubai, Germania e Francia prima di arrivare al Met. Il suo contenuto, la mummia di un sommo sacerdote, era stato invece gettato nel Nilo dai contrabbandieri.
«Dopo aver appreso che il museo è stato vittima di una frode e aver partecipato inconsapevolmente al commercio illegale di antichità, abbiamo collaborato con l’ufficio del procuratore distrettuale per il suo ritorno in Egitto» ha detto il presidente del Met, Daniel H. Weiss. Ma in realtà il fatto che un museo abbia acquisito in buona fede un’opera antica rubata, senza sapere che era stata saccheggiata, non ha importanza secondo la legge statunitense: non si può mai legalmente essere in possesso di un’opera rubata.
Fondato nel 1870, fino agli anni Settanta del Novecento il Met ha utilizzato metodi piuttosto aggressivi per allargare la propria collezione. Il museo non poteva ottenere opere d’arte e altri manufatti dalle colonie, come facevano spesso inglesi e francesi, ma aveva l’ambizione di competere comunque con il Louvre di Parigi e il British Museum di Londra: per farlo, si affidò molto frequentemente a grossi acquisti sul mercato dell’arte internazionale, trascurando il fatto che le opere in questione fossero spesso state portate via dal paese d’origine in modo illegale.
Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, per esempio, il museo acquistò vari reperti archeologici provenienti dall’Italia dal trafficante statunitense Robert E. Hecht. Tra il 1959 e il 1961, Hecht fu formalmente accusato di contrabbando di opere d’arte antiche dalle autorità italiane, che nel 1973 emisero anche un mandato di arresto nei suoi confronti, ma il Met continuò comunque ad acquistare oggetti da lui e dai suoi soci. In un caso acquistarono anche un vaso greco molto raro per un milione di dollari. Secondo Bruce McNall, ex socio di Hecht che lo aiutò nella vendita delle opere al Met, il museo non fece molte domande su come fosse entrato in loro possesso: «Sapevano che gli oggetti erano stati trafugati in modo illegale? No, ma esisteva il sospetto. Non ci siamo mai veramente addentrati nel merito», ha detto ai giornalisti dell’ICIJ.
Il Met possiede tuttora una ventina di pezzi che sono passati per le mani di Hecht, tra cui sette vasi greci: il museo non offre alcuna informazione sulla loro provenienza o su come abbiano lasciato il paese d’origine. Inoltre possiede 800 oggetti che sono stati di proprietà di Jonathan P. Rosen, un altro stretto socio di Hecht che nel 1997 è stato accusato insieme a lui di contrabbando di opere d’arte antiche. Altre istituzioni statunitensi, come il Cleveland Museum of Art e l’Università Cornell, negli ultimi anni hanno restituito ai paesi d’origine dei reperti che erano stati donati da Rosen, sospettando che fossero stati trafugati.
La persona che più lavorò per trasformare il Met in un museo che potesse rivaleggiare con le grandi istituzioni europee – anche a costo di fare affari con personaggi loschi – fu però Thomas Hoving, direttore del museo tra il 1967 e il 1977. Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, Hoving si vantò esplicitamente di avere una lunghissima rubrica di «contrabbandieri e trafficanti» e scrisse che avere a che fare con questo genere di figure era necessario per poter dirigere al meglio il Met.
Tra i vari aneddoti citati nel libro, Hoving ricorda di aver approvato l’acquisto di un grande lotto di reperti indiani e cambogiani pur sospettando che fossero stati contrabbandati, e anche di aver avuto dubbi sul fatto che un’opera in ceramica dell’antica Grecia fosse stata trafugata da un sito archeologico. Il libro riporta anche una conversazione tra Hoving e un curatore greco in cui il direttore del Met dice che «crediamo tutti che [le opere acquistate dal Met] siano state dissotterrate illegalmente. E per l’amor di Dio, se i turchi tirano fuori le prove che è andata così, restituiremo loro le opere. Quella è la nostra politica. È il rischio che abbiamo corso quando abbiamo acquistato le opere».
Soltanto negli anni Settanta, dopo aver partecipato a varie udienze dell’Unesco sul tema, Hoving cambiò il proprio approccio all’acquisizione di opere, dicendo che «l’era della pirateria è finita» e che il Met non avrebbe più fatto ricorso a «metodi di raccolta imprudenti».
Rispondendo alle accuse dei giornalisti dell’ICIJ, il Met ha detto che oggi il museo «fa di tutto per garantire che tutte le opere che entrano nella collezione rispettino le leggi in vigore nel momento dell’acquisizione. Inoltre, poiché le leggi e le linee guida sul collezionismo sono cambiate nel tempo, anche le politiche e le procedure del museo sono cambiate. Il Met fa ricerca continuamente sulla storia delle opere nella collezione, spesso in collaborazione con colleghi in paesi di tutto il mondo, e ha una lunga esperienza nell’agire in base alle nuove informazioni, se è il caso di farlo».
La principale convenzione internazionale a cui fa riferimento il Met è la Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali, firmata nel 1970. La convenzione vieta il commercio di opere che non si trovassero già al di fuori dei loro paesi d’origine nel 1970 e impegna le nazioni firmatarie a cooperare e seguire le migliori pratiche per frenare l’importazione di oggetti rubati.
A ciò si aggiunge il fatto che non tutti gli stati concordano sul fatto che gli oggetti ottenuti prima del 1970 possano continuare a circolare nel mercato dell’arte: vari paesi hanno infatti delle leggi nazionali sul patrimonio culturale che erano già in vigore nel 1970 e che determinano che è illegale esportare determinati manufatti senza una licenza ufficiale. In Italia, per esempio, una legge simile risale al 1909.
Nella pratica, però, queste leggi si sono rivelate insufficienti a mettere fine a pratiche di saccheggio e traffico illegale che si verificano soprattutto in situazioni di conflitto armato, instabilità politica, sociale ed economica o disastri naturali. Per esempio, per anni dopo l’invasione dell’Iraq sul mercato dell’arte si sono trovati a prezzi piuttosto bassi reperti archeologici trafugati durante la guerra. E si ritiene che quasi tutte le opere provenienti dal Nepal e dalla Cambogia che si trovano nei musei occidentali siano state portati via dai due paesi illegalmente.
«Il mercato dei reperti antichi è stato definito il più grande mercato non regolamentato del mondo. Si autoregola e nessuno sa bene cosa succede a porte chiuse», ha detto al Guardian Angela Chiu, ricercatrice esperta di arte asiatica antica. La National Gallery of Australia, uno dei più grossi musei del paese, ha recentemente deciso di smettere di acquistare opere d’arte antiche dopo che si era scoperto che varie sculture nella sua collezione, acquistate a New York dalla galleria del trafficante Subhash Kapoor, erano state molto probabilmente rubate. Le opere sono state restituite al governo indiano.
Musei diversi si stanno approcciando alla questione in modo diverso: nel 2010, per esempio, il Museum of Fine Arts di Boston ha creato la carica di “curatore della provenienza”, incaricato di identificare l’origine di tutti gli oggetti nella collezione. «La strategia adottata dai musei finora è fingere che questi oggetti si siano materializzati dal nulla. Ma stiamo scoprendo sempre più spesso che alcuni sanno esattamente da dove provengono questi pezzi e decidono di mentire al riguardo», ha detto al New York Times Patty Gerstenblith, esperta di patrimonio culturale.