Le tregue in Sudan non reggono
L'esercito regolare bombarda i paramilitari, a Khartum e in Darfur ci sono scontri e saccheggi, ma si riparla di negoziati
In Sudan da ormai due settimane l’esercito regolare e il potente gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RSF) stanno combattendo una guerra che ha già causato almeno 528 morti e più di 4.000 feriti. Da lunedì scorso ufficialmente è in corso una tregua, prorogata domenica di altri tre giorni, che dovrebbe permettere l’evacuazione dei civili dalle zone maggiormente interessate dagli scontri.
In realtà queste interruzioni dei combattimenti, decise e annunciate da entrambe le parti su forti pressioni internazionali, non sembrano reggere. Soprattutto in due regioni, quella della capitale Khartum e quella occidentale del Darfur, gli scontri non si sono mai fermati: sono numerose le testimonianze di sparatorie, colpi di artiglieria e anche bombardamenti aerei.
Come sempre in questi casi, le due parti in causa si accusano reciprocamente delle violazioni. Da una parte ci sono le forze del generale Abdel Fattah al Burhan, che è il capo dell’esercito regolare e il presidente del paese, dall’altra i paramilitari delle RSF, comandati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, che è anche il vicepresidente.
Burhan definisce i rivali “ribelli”, ma molti analisti internazionali sottolineano come il conflitto sia qualcosa di più rispetto a uno scontro fra esercito regolare e “ribelli”. I due generali erano alleati durante il colpo di stato militare nel 2021 e sono al comando di due veri e propri eserciti, molto equipaggiati e organizzati: entrambi hanno costruito in questi anni relazioni internazionali, con i paesi vicini e anche con il gruppo paramilitare russo Wagner, presente nel paese dal 2014.
Le forti pressioni internazionali e la volontà dei due generali di presentarsi come interlocutori credibili hanno portato dall’inizio della scorsa settimana all’annuncio della tregua e alle successive proroghe. Lunedì il Rappresentante speciale per le Nazioni Unite Volker Perthes ha detto all’agenzia di stampa AP che i due generali avrebbero acconsentito ad incontrarsi per trattare, prima di tutto per un «cessate il fuoco stabile e affidabile». Questo incontro potrebbe avvenire in Arabia Saudita o in Sud Sudan, anche se lo stesso Perthes ha aggiunto che esistono ancora molti dettagli da definire prima di poter dare per certo l’inizio di un negoziato.
Intanto la tregua è solo parziale: nonostante gli scontri siano diminuiti, entrambi gli eserciti sembrano aver portato avanti alcune operazioni considerate militarmente importanti in questa settimana, rendendo molti quartieri della capitale e intere regioni del paese pericolose per la popolazione civile.
In particolare l’esercito regolare sta cercando di scacciare le forze del generale Dagalo dalla capitale, sfruttando anche le forze aeree: Burhan è l’unico ad avere a disposizione aerei da guerra, mentre le RSF stanno organizzando una guerriglia nella capitale presidiando non solo le numerose caserme, ma anche abitazioni private. L’esercito ha bombardato con raid aerei vari obiettivi in città con numerosi danni anche per la popolazione civile.
I paramilitari delle RSF, poi, secondo varie testimonianze raccolte dai media internazionali si stanno accaparrando beni e aiuti praticando forme diffuse di saccheggio, ai danni degli uffici pubblici, delle organizzazioni internazionali, ma anche dei cittadini rimasti nella capitale. La gran parte degli aiuti e del materiale medico sembra essere finita nelle mani delle due fazioni in guerra, mentre oltre il 70 per cento degli ospedali di Khartum è stato costretto a chiudere.
La situazione è descritta come particolarmente pericolosa anche in Darfur, regione occidentale dove dal 2003 al 2006 (e poi con minore intensità anche in anni successivi), si combatté una sanguinosa guerra civile che secondo l’ONU provocò 300mila morti e lasciò senza casa 2 milioni e mezzo di persone. Allora alcuni gruppi armati ribelli insorsero contro il governo sudanese, accusandolo di discriminazioni e di mancanza di tutele nei loro confronti. Per combattere i ribelli, il governo intervenne assoldando i Janjawid, un gruppo di miliziani arabi di etnia baggara (quindi etnicamente distanti dagli abitanti del Darfur) che attaccarono numerosi villaggi uccidendo o torturando decine di migliaia di persone, rendendosi colpevoli di vari crimini di guerra e, secondo molte interpretazioni, di genocidio.
Il gruppo paramilitare delle RSF che oggi combatte per il potere in Sudan è un diretto discendente dei Janjawid, e il generale Dagalo nel corso della guerra fu uno dei capi dei miliziani attivi in Darfur. Nella regione sono ricominciate le violenze tribali: le RSF avrebbero attaccato alcune strutture della città di Genena, città con circa 500.000 abitanti vicina al confine col Ciad, a ovest, provocando la reazione di alcune milizie locali auto-organizzatesi. In questo caso l’assenza di interventi da parte dell’esercito regolare avrebbe aumentato il caos, con l’inserimento nel conflitto e nei saccheggi di gang criminali.
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La situazione ha portato a un esodo da parte della popolazione civile: molti si sono spostati all’interno del paese, verso zone meno interessate dagli scontri, ma secondo una stima dell’ONU ci sarebbero almeno 75mila persone sfollate all’estero provenienti da tutto il Sudan.
Migliaia di persone hanno raggiunto la città di Port Sudan, principale porto sul mar Rosso, da dove partono alcune navi, soprattutto dirette verso i porti dell’Arabia Saudita. La gran parte degli stranieri è stata evacuata all’inizio della scorsa settimana, ma nel paese rimangono molti cittadini britannici e statunitensi, per cui stanno procedendo ulteriori operazioni di evacuazione. La rapida fuga dei diplomatici internazionali avrebbe lasciato molti cittadini sudanesi che avevano richiesto un visto per l’espatrio senza documenti: i loro passaporti sono rimasti nelle ambasciate abbandonate.
Domenica è atterrato nel paese un primo aereo con gli aiuti della Croce Rossa Internazionale, con un carico di otto tonnellate: si tratta principalmente di materiale medico, sufficiente per curare oltre 1000 feriti. Al momento anche fornire cure di base è complesso o impossibile in certe aree del paese.
Secondo il responsabile per le crisi umanitarie dell’ONU Martin Griffiths «la velocità e le dimensioni della crisi in corso in Sudan sono senza precedenti». L’organizzazione di un negoziato, se effettivamente avverrà, sarà il principale avanzamento verso una trattativa di pace dallo scoppio della guerra. Il generale Burhan, a capo dell’esercito regolare, aveva più volte ripetuto di non avere intenzione di trattare con il generale Dagalo, a meno che prima questi non decidesse di arrendersi e interrompere ogni attività militare. Una condizione che le RSF non sembrano aver alcuna intenzione di accogliere.
– Ascolta la puntata di Globo: Capirci qualcosa degli scontri in Sudan