Cosa succederebbe ai cani se sparissero gli umani?
Una bioeticista e un biologo hanno provato a fare qualche ipotesi per capire meglio il rapporto che abbiamo con loro (e come migliorarlo)
Immaginare cosa succederebbe al mondo se la specie umana scomparisse da un momento all’altro, del tutto o in grande parte, è un esperimento mentale che hanno fatto moltissimi scrittori e sceneggiatori e probabilmente anche tante altre persone: le fantasie sull’apocalisse esistono da millenni e sono sia una fonte di intrattenimento sia un modo per riflettere sull’esistenza. C’è però anche chi si è figurato possibili scenari di estinzione umana per fare ragionamenti scientifici: ad esempio su cosa succederebbe ai cani.
I cani sono stati i primi animali a essere domesticati e quindi in una certa misura a essere “creati” dagli esseri umani: nel corso dei millenni, favorendo gli accoppiamenti tra animali con certe caratteristiche di comportamento e di aspetto fisico piuttosto che altre, gli umani hanno condotto progressive selezioni artificiali che hanno portato dal lupo (Canis lupus) al cane (Canis lupus familiaris), che ne è una sottospecie, e poi alle diverse e numerose razze che distinguiamo. Come per tutte le specie domestiche, la vita dei cani dipende da quella degli umani, sia nel caso dei cani che hanno qualcuno che li nutre regolarmente, sia nel caso dei randagi, che sopravvivono in gran parte grazie ai rifiuti prodotti dalle persone.
Per questo la prima difficoltà che i cani dovrebbero affrontare in caso di sparizione di tutte le persone sarebbe la ricerca di fonti di cibo, ragionano la bioeticista Jessica Pierce e l’ecologo Marc Bekoff in I cani senza di noi, pubblicato in italiano da Haqihana, una casa editrice specializzata in saggi divulgativi sul comportamento canino.
Secondo i due studiosi, autori di vari libri sui cani e sul nostro rapporto con loro, è «quasi certo» che i cani sopravviverebbero a una scomparsa improvvisa degli umani «ammesso che non avvenisse su un pianeta diventato completamente invivibile per la crisi climatica». Questa conclusione deriva dal fatto che i cani che attualmente vivono in libertà in diverse zone del mondo riescono a sopravvivere abbastanza bene (secondo una stima citata da Pierce e Bekoff i cani randagi sarebbero 800 milioni nel mondo, quelli con una famiglia 200 milioni) e dalla flessibilità alimentare dei cani, che si adattano a mangiare anche cose diverse dalla carne: potrebbero sostentarsi con piante, frutti e insetti, oltre che con piccoli mammiferi e uccelli.
Nell’immediato è verosimile che molti cani morirebbero – alcuni, più piccoli e deboli, anche uccisi e mangiati da altri cani – ma è probabile che nel complesso riuscirebbero ad adattarsi a nuovi stili di vita, facendo affidamento sugli istinti che hanno in comune con i lupi e gli sciacalli. Ovviamente le cose andrebbero in modo diverso in diverse parti del mondo a seconda delle specifiche caratteristiche climatiche, delle risorse naturali di cibo e della competizione con altre specie di predatori: in alcune regioni i cani prospererebbero, in altre potrebbero scomparire a loro volta. In generale però la specie continuerebbe a scorrazzare per il pianeta.
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Pierce e Bekoff hanno poi provato a immaginare cosa ne sarebbe dei cani nel più lungo periodo successivo alla scomparsa degli umani, e più in particolare a come i cani sarebbero cambiati dalla selezione naturale, tolta di mezzo quella artificiale. Per i due studiosi tentare di rispondere a questa domanda, anche senza poter mai verificare la bontà delle proprie ipotesi, è utile per capire meglio che animali sono i cani e i rapporti che abbiamo con loro.
Il punto di partenza del loro ragionamento è che i cani non tornerebbero a essere lupi.
Sappiamo che quando un gruppo di animali domestici si trova a vivere in libertà e perde ogni contatto con gli umani avviene un processo di feralizzazione, cioè di adattamento a uno stato selvatico. Le caratteristiche proprie delle specie domesticate – una maggiore mansuetudine, in aggiunta a tanti aspetti fisici – non scompaiono, quindi non si può parlare di una “de-domesticazione”, ma di un avvicinamento dei singoli animali ai comportamenti delle specie selvatiche sì. Nel caso in cui il gruppo di animali feralizzati continui a vivere in libertà per diverse generazioni, e in cui quindi la selezione naturale inizi ad agire, gli scienziati parlano di inselvatichimento secondario.
Non sappiamo quante generazioni di cani dovrebbero susseguirsi per arrivare ai «cani post-umani», ma secondo Pierce e Bekoff è probabile che sarebbero molto diversi dai cani di oggi e diversi tra loro in base al contesto geografico. I cani più piccoli potrebbero specializzarsi nella caccia di insetti, piccoli rettili e anfibi, mentre quelli più grandi dovrebbero trovare altre strategie di adattamento e nel tempo diverse popolazioni di cani potrebbero evolvere in specie canine diverse.
Ma si può anche ipotizzare che il rimescolamento dei geni canini portato dalla nuova libertà di accoppiamento porti a cani post-umani tutti di “taglia media”, cioè con un peso intorno ai 15 chili – ci sono cani che pesano poco più di un chilo e altri che superano i 100.
Le altre caratteristiche fisiche sarebbero a loro volta influenzate dall’ambiente: ad esempio, ipotizzano Pierce e Bekoff, nei climi più freddi potrebbero essere favorite e dunque prevalere le orecchie più piccole, che disperdono meno il calore; nei climi miti invece è possibile che le orecchie di dimensioni maggiori, più adatte a captare i rumori, si rivelerebbero più utili nella caccia.
Di certo scomparirebbero quei tratti fisici dei cani che gli umani hanno selezionato per ragioni estetiche ma che sono legati a problemi di salute, come i musi schiacciati dei carlini che causano problemi respiratori e l’eccesso di pieghe della pelle degli shar pei. Sparirebbero anche le orecchie pendule dei cocker e le code arricciate dei chow chow, perché sia le code che le orecchie sono usate dai cani per comunicare tra loro, e sarebbero favorite quelle che permettono di farlo meglio. Potrebbero scomparire anche le pellicce a macchie e di colori diversi, che non hanno alcuna funzione biologica.
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Nel campo della riproduzione ci sarebbero sicuramente dei cambiamenti, ed è possibile che le femmine andrebbero in calore solo una volta all’anno invece che due (una più frequente disponibilità all’accoppiamento rispetto alle specie selvatiche è una delle caratteristiche comuni a tutte le specie domesticate). Un’altra possibilità è che, come succede nei branchi di lupi, la collaborazione dei padri, zii e altri membri di un gruppo di cani diventerebbe un elemento importante per la crescita dei cuccioli. Ma può anche darsi che i cani – o certe specie evolute dai cani – svilupperebbero stili di vita solitari.
È più difficile immaginare cosa succederebbe ai tratti comportamentali dei cani selezionati dalla domesticazione: l’ipersocialità sviluppata stando con gli umani verrebbe sfruttata con altri scopi dai cani post-umani o si perderebbe come tratto caratteriale di specie?
Pierce e Bekoff hanno finito il loro ragionamento cercando di stabilire se in prospettiva per i cani un mondo senza umani sarebbe un mondo migliore: sono giunti alla conclusione che i vantaggi (come la scomparsa di patologie dovute agli incroci tra cani della stessa razza, un maggior spazio in cui muoversi e maggiori possibilità di socialità) supererebbero gli svantaggi (come la maggiore esposizione alle malattie, l’assenza di cure e di cibo disponibile in abbondanza).
Per i due studiosi portare avanti l’esperimento mentale, riflettere su questi vantaggi e svantaggi ma anche dedicare maggiori studi ai cani randagi e feralizzati potrebbe aiutarci a comportarci meglio nei confronti dei cani: capendo meglio la loro natura, saremmo più in grado di garantirgli buone condizioni di vita. Ad esempio, evitando che nascano animali sofferenti a causa di certe caratteristiche fisiche comuni a certe razze create dagli umani, ma anche facendo passeggiare e correre i cani in spazi sufficientemente grandi, e facendo interagire i cani tra loro nel modo migliore per dargli una buona qualità della vita.
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