Come sono fatte le barche dei migranti

Dai pescherecci che possono contenere centinaia di persone ai pericolosissimi barchini di ferro che partono dalla Tunisia

di Luca Misculin

Alcune barche di migranti abbandonate a Lampedusa (Tommaso Merighi/Il Post)
Alcune barche di migranti abbandonate a Lampedusa (Tommaso Merighi/Il Post)
Caricamento player

Dall’inizio del 2023 si stima che più di 600 migranti siano morti nel Mediterraneo centrale cercando di raggiungere l’Italia. Sono numeri molto alti, che non si vedevano da anni: si possono spiegare con l’aumento delle partenze dalla Tunisia e dalla Libia, col fatto che le navi delle ong sono sempre meno presenti nel Mediterraneo centrale, ma anche col peggioramento della qualità delle imbarcazioni su cui viaggiano i migranti.

Queste barche possono essere anche molto diverse fra loro: dipende dall’organizzazione criminale che ha organizzato la traversata, dal porto di partenza, dalla disponibilità del momento, dalla cifra che i migranti sono disposti a spendere per cercare di raggiungere l’Italia. In comune hanno l’inadeguatezza a trasportare decine o centinaia di persone per giorni, in un tratto di mare dove le condizioni meteo cambiano molto rapidamente. Per capire meglio come soccorrerle, le persone che si occupano di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo hanno costruito una specie di classificazione delle barche usate più di frequente.

Ne esistono 4-5 tipi: ex pescherecci e barchini in legno, gommoni, barche piatte in vetro-resina. Dalla Turchia partono soprattutto barche a vela. Da poco meno di un anno nel tratto di mare fra la Tunisia e le coste della Sicilia si è diffuso un tipo di imbarcazione giudicato da molti particolarmente instabile e pericoloso. Sono barchini in ferro lunghi pochi metri: sulle spiagge di Lampedusa, l’isola italiana più vicina alla Tunisia che alla Sicilia, se ne trovano moltissimi abbandonati dopo la traversata.

Un barchino in ferro abbandonato vicino alla costa di Lampedusa (Tommaso Merighi/Il Post)

Sono di lunghezza variabile, intorno ai 7-8 metri, e secondo varie stime possono contenere fino a 50-60 persone. Sono imbarcazioni usa e getta, costruite in serie dai trafficanti di esseri umani a Sfax, una città costiera della Tunisia. Di recente il giornalista Francesco Battistini del Corriere della Sera ha visitato una di queste fabbriche. I barchini vengono realizzati appositamente per coprire i circa 150 chilometri che separano le spiagge della città da Lampedusa. Spesso non ci arrivano nemmeno.

I barchini in ferro hanno uno scafo più basso rispetto alle barche di dimensioni paragonabili, e quindi sono più esposti alle onde. «Anche con mare poco mosso iniziano a dondolare e ad imbarcare acqua, che a sua volta aumenta il peso sullo scafo», spiega Emanuele Nannini, capo missione della nave Life Support di Emergency. «Avendo piccoli motori fuoribordo non hanno nemmeno delle pompe di sentina per scaricare fuori bordo l’acqua che imbarcano, che quindi va svuotata manualmente». Le placche di ferro sono semplicemente saldate fra loro. Il peso dell’acqua e delle persone a bordo sollecita le giunture. Quando si rompono o imbarcano troppa acqua vanno a fondo quasi subito, essendo fatti di metallo, così come le persone che trasportano: non c’è nulla a cui possano aggrapparsi per evitare di affogare.

Molti giornali citano una descrizione del procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella, che le avrebbe definite «bare galleggianti»

Un barchino di ferro abbandonato al porto nuovo di Lampedusa (Tommaso Merighi/Il Post)

Se anche rimangono intere, il loro soccorso è complicato. In alcuni punti gli spigoli appuntiti dello scafo sono molto pericolosi per i mezzi di soccorso delle ong, come i gommoni di soccorso a scafo semi-rigido, i cosiddetti RHIB. «Stiamo studiando come approcciarli per evitare che buchino i nostri RHIB», spiega Luca Marelli della ong Sea-Watch.

Le più difficili da soccorrere sono quelle che hanno delle maniglie montate ai lati, verosimilmente per metterle più facilmente in acqua. Durante un’operazione di soccorso però queste maniglie rischiano di penetrare la parte gonfiabile dei RHIB, il cui pilota dev’essere molto bravo ad affiancare questi barchini – in modo che le persone a bordo possano saltare sul RHIB – senza però che i due scafi si tocchino.

Un barchino di ferro arrivato a Cala Palme, una piccola insenatura del porto vecchio di Lampedusa: si vedono bene le maniglie sui lati dello scafo (Luca Misculin/Il Post)

Da qualche giorno Marelli si trova a Lampedusa e racconta che ormai la stragrande maggioranza delle traversate verso l’isola vengono fatte a bordo dei barchini di ferro. Non tutti i barchini arrivano a destinazione. In molti casi le persone a bordo vengono soccorse dai mezzi italiani della Guardia Costiera o della Guardia di Finanza, che poi le fa sbarcare sul molo militare dell’isola. Anche a terra, però, si può capire se un gruppo di persone era a bordo di un barchino di ferro: «in quel caso hanno i vestiti sporchi di ruggine», spiega Marelli.

Secondo informazioni raccolte da alcune ong che lavorano a Lampedusa, il primo barchino di ferro è apparso nel settembre del 2022. Da allora fino a marzo del 2023 le ong in questione ne hanno individuati 165 fra quelli arrivati a Lampedusa, intercettati dalle autorità tunisine, o naufragati. È una stima per difetto, ma mostra che in media ne è partito almeno uno al giorno: tenendo conto che ci sono stati diversi giorni di maltempo, il principale fattore che determina le partenze dalle coste del Nord Africa, significa che nei giorni di bel tempo sono arrivati a Lampedusa diversi barchini di ferro.

In tutti i casi rilevati a bordo dei barchini di ferro c’erano persone provenienti dall’Africa subsahariana, fra cui intere famiglie, con una presenza di donne e bambini intorno al 40 per cento del totale (molto più alta, per esempio, delle persone che partono dalla Libia, che sono in gran parte uomini).

Negli ultimi mesi il presidente tunisino Kais Saied sta usando i migranti subsahariani già presenti nel paese come capri espiatori per la grave crisi economica in corso da anni, e ha istigato indirettamente aggressioni razziste nei loro confronti. Molti non si aspettavano di dover partire per l’Europa e hanno pochi soldi da parte: i trafficanti si sono adeguati a questa richiesta facendo fabbricare i barchini in ferro, assai più economici da produrre rispetto all’acquisto di una vera barca. Per salire a bordo i trafficanti chiedono a ciascuna persona poco meno di mille euro, rispetto alle migliaia di euro che in genere servono per imbarcarsi dalla Libia. Le tariffe comunque variano a seconda del gruppo che organizza la traversata e di vari fattori contingenti.

Secondo Beppe Caccia, fra i responsabili della ong Mediterranea, questi ultimi arrivi dimostrano che «le persone partono con qualsiasi mezzo a disposizione per fuggire dall’ondata di violenze razziste nella Tunisia di Saied o dai campi di detenzione e dai loro orrori in Libia. Anche il più precario e insicuro, come nel caso delle barche in ferro da Sfax».

– Leggi anche: Al molo di Lampedusa non comanda nessuno

Qualche anno fa invece erano diffusissimi i gommoni a scafo rigido, soprattutto per i migranti che partivano dalla Libia. In un articolo del 2015 Associated Press raccontava che spesso erano lunghi circa 12 metri e che potevano ospitare un massimo di 20 persone, ma a volte ne salivano a bordo più di 100, anche a cavalcioni lungo i bordi. È una dinamica che si osserva sistematicamente: più persone riescono a salire a bordo, più soldi i trafficanti ricavano da ogni traversata. Secondo fonti di intelligence di Frontex, la controversa agenzia di guardia costiera dell’Unione Europea, questi gommoni erano realizzati in Cina e a Taiwan. Ancora oggi si possono acquistare a poco prezzo sul popolare sito di e-commerce cinese Alibaba.

Oggi si vedono ancora diversi gommoni partire dalla Libia, soprattutto dalle città della costa occidentale dove è più intenso il traffico di esseri umani, come Zawiya e Zuara. «Il rischio più grande che corrono è il cedimento strutturale», spiega Nannini di Emergency. «Il peso delle persone imbarcate fa pressione sullo specchio di poppa, la tavola verticale che tiene distanziati i due tubolari gonfiabili dando forma allo scafo: se si apre, i tubolari rimangono a galla ma tutto il resto si sfalda», spiega Nannini.

C’è un altro rischio, comune a tutte le barche più piccole ma più frequente sui gommoni, forse per la loro superficie irregolare. Quando il carburante per il motore si rovescia e si mischia all’acqua di mare, forma una soluzione che brucia la pelle: il risultato è che le persone più vicine al motore si procurano le cosiddette «ustioni da carburante», molto dolorose.

I gommoni di questo tipo si possono soccorrere in vari modi, se sono stabili e il mare è calmo: i RHIB possono affiancarli oppure avvicinare la propria prua, cioè la punta dell’imbarcazione, al lato più gonfio del gommone, per creare una specie di ponte e portare le persone in salvo.

Un gommone con scafo rigido abbandonato al porto di Lampedusa: lo specchio di poppa è quel pezzo di legno chiaro che separa i tubolari gonfiabili, bianchi (Tommaso Merighi/Il Post)

Poi ci sono le imbarcazioni di legno, di varie dimensioni, che partono quasi sempre dalla Libia. Le più grandi spesso sono vecchi pescherecci in cattive condizioni, usati per un ultimo viaggio. Sono le barche più grandi fra quelle utilizzate dai trafficanti, ma anche queste vengono riempite di persone ben oltre il livello di sicurezza. A inizio aprile la Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere, ha soccorso un peschereccio di pochi metri che aveva a bordo 440 persone, fra cui 8 donne e 30 bambini.

A prima vista queste imbarcazioni possono sembrare in buone condizioni. Spesso però sono barche vecchie e malandate che i pescatori hanno rivenduto per pochi soldi, con diversi pezzi di legno ormai marcio o un motore vecchio. E pur essendo più stabili dei barchini in ferro e dei gommoni, presentano comunque dei rischi.

Spesso hanno uno spazio sotto il ponte principale, chiamato sottocoperta, in cui vengono stipate più persone possibili. È uno dei posti più scomodi in cui passare i giorni della traversata: sottocoperta si respirano i fumi di scarico del motore, c’è pochissimo spazio per muoversi, per sgranchirsi le gambe o per fare i propri bisogni (su nessuna imbarcazione di migranti esistono dei bagni, tranne che sulle barche a vela che partono dalla Turchia).

Sottocoperta si sta così scomodi che vengono sistemate qui le persone che muoiono durante una traversata. Durante un naufragio, poi, le prime persone a finire sott’acqua sono proprio quelle che si trovano sottocoperta.

(Tommaso Merighi/Il Post)

Un peschereccio sovraffollato non è al sicuro nemmeno durante un’operazione di soccorso. Su un’imbarcazione del genere basta che un gruppo di persone si sposti da una parte all’altra, o che la nave responsabile del soccorso si avvicini troppo generando delle onde, perché il peschereccio perda l’equilibrio e si ribalti. Era un ex peschereccio, poi, l’imbarcazione con a bordo circa 250 migranti naufragata a inizio marzo a Cutro, in provincia di Crotone, a poche decine di metri dalla riva: per ribaltare l’imbarcazione è bastato che incontrasse una zona di secca.

Per portare in salvo i migranti a bordo, i RHIB si avvicinano con la propria prua alla parte più stabile e meno piena d’acqua del peschereccio, per evitare di sovraccaricare le parti più instabili.


A volte per le traversate nel Mediterraneo centrale vengono usate barche in legno di piccole e medie dimensioni, che prima erano impiegate da singoli pescatori. Anche queste, ogni tanto, hanno uno spazio sottocoperta, ancora più angusto rispetto ai pescherecci più grandi. Nel novembre del 2021 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere soccorse una barca di legno di medie dimensioni: nel sottocoperta furono trovati 10 corpi di persone soffocate dai fumi del motore.

(Tommaso Merighi/Il Post)

Le barche di legno possono avere dimensioni variabili: alcune hanno uno scafo allungato dai bordi più larghi, altre uno più basso e ampio, e possono quindi ospitare decine di persone. A seconda della loro forma, delle loro condizioni e di quanto sono affollate, cambiano anche i metodi di soccorso.

(Tommaso Merighi/Il Post)

Sono più rare le barche in vetroresina, cioè il materiale con cui spesso vengono realizzate le barche a vela. In genere le barche a vela ospitano i migranti più ricchi, che possono permettersi un viaggio più sicuro e in condizioni migliori: partono dalla Turchia, cercano di arrivare in Puglia o in Calabria e spesso a bordo hanno uno skipper che guida l’imbarcazione, pagato dai trafficanti.

Anche queste barche, sebbene siano forse le più stabili in assoluto, possono trovarsi in difficoltà: mercoledì mattina la Guardia Costiera italiana ha traghettato nel porto di Crotone una barca a vela piuttosto malconcia individuata a circa 40 chilometri dalle coste italiane, dopo cinque complicati giorni di navigazione. A bordo c’erano 40 persone: 35 afghani, due iraniani e tre pakistani.

Una barca a vela con a bordo un gruppo di migranti sbarcata in provincia di Lecce, nel 2012 (Whiroo/LaPresse)

Non vengono impiegate mai navi in condizioni perfette. In alcuni casi i trafficanti di esseri umani le usano, ma soltanto per ingannare i migranti: nel caso dei 190 migranti soccorsi dalla Geo Barents a metà marzo, nella missione raccontata nel podcast del Post La nave, i trafficanti avevano fatto imbarcare in Libia i migranti su una nave descritta come solida e piuttosto sicura, probabilmente per rassicurarli sull’esito del viaggio. Dopo qualche ora di viaggio li hanno costretti a trasferirsi su un vecchio peschereccio, che li aspettava nei pressi delle acque nazionali tunisine.

A bordo di quel peschereccio sono riusciti a proseguire per qualche ora di viaggio, poi il motore si è rotto. Nel momento in cui è stata soccorsa, l’imbarcazione era praticamente alla deriva.