Perché Sergio Mattarella celebra la Resistenza a Cuneo
E a Borgo San Dalmazzo e a Boves, luoghi piemontesi fondamentali per la storia della lotta di Liberazione dal nazifascismo
Il 25 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella celebra la festa della Liberazione rendendo omaggio ad alcuni luoghi piemontesi simbolo della lotta contro nazisti e fascisti: Cuneo, Boves (entrambe Medaglie d’oro al valor militare) e Borgo San Dalmazzo, Medaglia d’oro al merito civile. Quella del cuneese è una delle zone in cui si concentrò la Resistenza in Italia, e fu raccontata tra gli altri dal giornalista Giorgio Bocca nei suoi libri sulla guerra partigiana: Bocca era di Cuneo, e insieme a Duccio Galimberti e Benedetto Dalmastro fondò le formazioni partigiane di Giustizia e Libertà.
La giornata di Mattarella prevede una cerimonia a Cuneo al Parco della Resistenza, seguita da una visita al Museo Casa Galimberti e poi da un incontro con le autorità e un discorso al Teatro Toselli. Poi Mattarella raggiungerà Borgo San Dalmazzo, poco distante, città ai piedi delle montagne alla quale è legata la deportazione di centinaia di persone ebree ad Auschwitz, e la salvezza di altre centinaia che gli abitanti del posto riuscirono invece ad aiutare. Infine Mattarella passerà da Boves, comune dove nel 1943 si tenne uno dei più gravi eccidi compiuti dai nazisti tedeschi, nel quale morirono decine di persone.
Tancredi Galimberti, soprannominato Duccio, è uno dei personaggi più importanti nella storia della Resistenza. Era un avvocato, nato a Cuneo nel 1904, e nonostante le pressioni e le intimidazioni non si iscrisse mai al Partito fascista. Prese posizione in maniera esplicita nel 1940 quando tentò di organizzare gli antifascisti di Cuneo: il 26 luglio 1943, il giorno successivo alla votazione del Gran Consiglio del fascismo che mise in minoranza Benito Mussolini e che fu seguito dal suo arresto, si affacciò alla finestra del suo studio, in piazza Vittorio, e tenne un comizio improvvisato. Replicò al proclama del giorno prima del generale Pietro Badoglio, diventato nuovo capo del governo, che aveva detto:
Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. Viva l’Italia. Viva il Re.
Duccio Galimberti, dal suo balcone a Cuneo e poi in un comizio a Torino, disse invece:
Sì, la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista….
Lo stesso giorno viene emesso contro di lui, da parte delle autorità badogliane, un mandato di cattura che fu ritirato tre settimane più tardi. Dopo l’armistizio firmato dallo stesso Badoglio con gli angloamericani l’8 settembre 1943, lo studio di Galimberti a Cuneo si trasformò in un centro operativo della Resistenza ai nazifascisti. Galimberti tentò inutilmente di convincere le autorità militari di Cuneo a schierarsi contro i nazisti. Tre giorni dopo l’8 settembre, con Dante Livio Bianco e altre decine di antifascisti, fondò la prima banda partigiana di Italia Libera. Contemporaneamente in Valle Grana Giorgio Bocca e Giorgio Dalmastro formarono un gruppo analogo. Dalle due formazioni nacque poi Giustizia e Libertà, movimento partigiano composto da esponenti liberal democratici e liberal socialisti.
Nel gennaio del 1944 Duccio Galimberti venne ferito durante un combattimento con le truppe tedesche. Fu curato in maniera sommaria da una dottoressa ebrea polacca sfuggita ai nazisti. Le sue condizioni erano però molto gravi: venne portato in slitta all’ospedale di Canale dove fu curato clandestinamente. Dopo essere uscito dall’ospedale, divenne il comandante di tutte le formazioni di Giustizia e Libertà del Piemonte.
Da capo delle formazioni partigiane, Galimberti incontrò a Barcelonnette, oltre il confine con la Francia, alcuni leader maquisards francesi (maquis, e cioè “macchia-boscaglia”, era il nome della Resistenza francese). Venne infine catturato dai fascisti il 28 novembre 1944. I partigiani tentarono con i nazisti uno scambio di prigionieri tra l’avvocato e alcuni militari tedeschi, ma i fascisti piemontesi si opposero. Il 2 dicembre, il comandante di Giustizia e Libertà venne prelevato da un gruppo di fascisti di Cuneo dell’Ufficio politico della Repubblica sociale italiana. Venne rinchiuso nella caserma Principe Amedeo che era diventata sede delle Brigate nere, i cosiddetti Muti, chiamati così in riferimento a Ettore Muti, comandante fascista morto a Fregene nell’agosto del 1943 cercando di sfuggire all’arresto da parte dei carabinieri.
In caserma Galimberti fu torturato, e morì in seguito alle sevizie. Il 3 dicembre il suo corpo fu abbandonato ai margini di un campo a Centallo, in provincia di Cuneo, dopo che i fascisti avevano inscenato una finta esecuzione. Dopo la sua morte venne proclamato eroe nazionale dal Comitato di Liberazione Nazionale piemontese e, dopo la guerra, ricevette i riconoscimenti della Medaglia d’oro al valor militare e la Medaglia d’oro della Resistenza.
A meno di otto chilometri da Cuneo si trova Borgo San Dalmazzo, altro luogo della visita di Mattarella. Qui dal 18 settembre 1943 nella ex caserma degli alpini erano state rinchiuse circa 800 persone di nazionalità non italiana. Dopo l’armistizio dell’8 settembre infatti il comando tedesco del Piemonte aveva emesso un bando ordinando l’arresto di tutti gli stranieri. A eseguire l’ordine erano stati i fascisti di Cuneo: gli stranieri erano tutti ebrei fuggiti dal sud della Francia cercando rifugio in Italia.
Il sud della Francia era infatti, fino all’armistizio, controllato dalle truppe dell’esercito italiano: qui erano state concentrate, con il sistema della “residenza forzata”, centinaia di famiglie. Erano francesi ma anche polacchi, tedeschi, ungheresi, austriaci, slovacchi, rumeni, russi, greci, turchi, croati, belgi. Dopo la confusione che si diffuse nell’esercito italiano in seguito alla firma dell’armistizio, molte di quelle famiglie passarono il confine e cercarono rifugio in Piemonte, dove però vennero catturate dalle milizie fasciste.
Furono 349 le persone prese dalle camicie nere: di queste, 328 vennero deportate nei campi di sterminio, molti ad Auschwitz. Ne sopravvissero 18. I fascisti arrestarono poi altre 28 persone in base alle norme stabilite dalla carta di Verona, in cui il regime di Mussolini indicava gli appartenenti a quella che veniva chiamata dai fascisti «razza ebraica» come stranieri nemici. Anche queste 26 persone furono inviate nei campi di sterminio dopo essere transitate dal campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena.
Molti degli stranieri riuscirono a sfuggire alla cattura grazie ai cittadini di Borgo San Dalmazzo, che accolsero e nascosero decine di famiglie. A coordinare e organizzare l’opera di salvataggio furono due preti, don Raimondo Viale e don Francesco Brondello. Sono entrambi Giusti dello Stato di Israele, il riconoscimento attribuito alle persone non ebree che salvarono anche una sola persona ebrea durante la Shoah. Borgo San Dalmazzo è invece Medaglia d’oro al merito civile.
Sempre vicino a Cuneo si trova Boves, dove il 19 settembre del 1943 avvenne la prima strage di civili compiuta dai nazisti in Italia. A Boves, dopo l’8 settembre, si era costituita una delle prime formazioni partigiane. A fondarla era stato Ignazio Vian, tenente delle forze armate italiane che, con molti altri soldati, si schierò dopo l’armistizio contro fascisti e nazisti. Il 19 settembre un gruppo di partigiani della formazione di Vian scese a Boves dalle montagne per fare provviste. Qui incontrarono un’auto con a bordo due esponenti delle SS (Schutzstaffel), che vennero catturati. Subito dopo arrivarono in zona truppe delle SS provenienti da Cuneo che fecero un primo tentativo di liberare i prigionieri. In uno scontro a fuoco morirono un partigiano e un soldato tedesco: i militari si ritirarono a Boves, lasciando sul campo il corpo del commilitone ucciso.
Lo standartenführer (colonnello) Joachim Peiper convocò il parroco di Boves, don Giuseppe Bernardi, e il commissario prefettizio. Quest’ultimo non fu trovato: al suo posto si offrì di parlare con gli ufficiali delle SS un imprenditore locale, Antonio Vassallo.
L’ufficiale delle SS disse che se Bernardi e Vassallo avessero convinto i partigiani a rilasciare i due soldati catturati, Boves sarebbe stata risparmiata. I due chiesero un impegno scritto, ma Peiper disse che bastava la sua parola di ufficiale delle SS.
Bernardi e Vassallo salirono in montagna e ottennero da Vian il rilascio dei due tedeschi prigionieri e la consegna del corpo del militare ucciso. Immediatamente dopo il ritorno dei due a Boves, Peiper diede ordine di effettuare la rappresaglia. Furono bruciate 350 case. Ventiquattro persone vennero assassinate. Il viceparroco, Mario Ghibaudo, fu ucciso mentre stava dando l’estrema unzione a un anziano. Bernardi e Vassallo furono portati in giro per il paese dai soldati delle SS per vedere la distruzione, quindi furono fucilati e bruciati. Tra dicembre e gennaio 1943 la zona di Boves fu nuovamente attaccata dalle truppe naziste: furono uccise altre 59 persone, partigiani e civili.
Il comandante partigiano Ignazio Vian fu arrestato dai nazisti mentre era in missione a Torino il 19 aprile 1944. Fu torturato per settimane. Il 22 luglio fu impiccato a un albero di corso Vinzaglio assieme agli altri partigiani Felice Briccarello, Battista Bena e Francesco Valentino. I loro corpi furono lasciati appesi dai tedeschi per una settimana. Nove mesi dopo, il 29 aprile 1945, Giuseppe Solaro, commissario del Partito fascista repubblicano di Torino, venne impiccato nello stesso luogo.
Joachim Peiper fu arrestato dalle truppe alleate dopo la liberazione e condannato a morte per aver ordinato l’omicidio di 80 prigionieri americani a Malmedy, in Belgio, nel 1944. La sentenza venne commutata in carcere a vita. Due avvocati italiani tentarono, senza successo, di farlo incriminare per la strage di Boves. Peiper tornò libero nel 1956 e si trasferì in Francia, a Traves, utilizzando un nome falso. Venne però riconosciuto, e la sua foto venne pubblicata sul giornale. Morì in un incendio della sua casa, nel 1976. Non è stato mai del tutto chiarito se l’incendio fu provocato dal lancio di bottiglie molotov, come sospettato.