A dieci anni dalla strage nella fabbrica tessile, in Bangladesh non è cambiato molto
Il crollo uccise oltre 1.000 persone: da allora le aziende hanno aumentato i controlli, ma le condizioni di lavoro rimangono pessime
Il 24 aprile del 2013 vicino a Dacca, la capitale del Bangladesh, crollò un palazzo di nove piani in cui stavano lavorando moltissimi operai della manifattura tessile: il palazzo si chiamava Rana Plaza e a causa del crollo morirono 1.138 persone. Fu un evento catastrofico, che spinse circa 200 aziende di abbigliamento straniere (soprattutto occidentali) che producevano i propri capi in Bangladesh a dichiarare di volersi impegnare per migliorare le condizioni dei propri dipendenti, rendendole più sicure e rispettose dei loro diritti.
Dieci anni dopo le cose non sono cambiate granché: a fronte di qualche piccolo miglioramento sulla sicurezza degli edifici, le condizioni di lavoro restano pessime, con salari bassissimi, turni estenuanti e poca trasparenza da parte delle aziende straniere sulla composizione della loro filiera produttiva.
Il Rana Plaza si trovava a Savar, una ventina di chilometri a nord-ovest della capitale Dacca. Crollò poco prima delle nove di mattina: oltre ai morti ci furono più di 2.500 feriti. Solo cinque mesi prima, sempre vicino a Dacca, oltre 100 persone erano morte a causa di un grosso incendio in un altro laboratorio tessile.
Successivamente alcune persone sopravvissute raccontarono che i dirigenti della fabbrica avevano forzato i dipendenti ad andare a lavorare nonostante le segnalazioni di alcune profonde crepe nei muri. Durante le indagini si seppe inoltre che uno degli ingegneri coinvolti nella costruzione del palazzo aveva dichiarato proprio il giorno prima del crollo che il palazzo non era sicuro.
Per produrre i propri capi e massimizzare i propri profitti, le aziende di fast fashion – quelle che producono i capi più economici e a grandissima distribuzione, come H&M, Inditex (il gruppo di Zara) o Primark – si affidano spesso a fabbriche di paesi in cui la manodopera costa molto poco. Come il Bangladesh, il Pakistan e altri paesi nel sud dell’Asia, ma anche in Africa o in America Latina. A loro volta le fabbriche affidano spesso i lavori in subappalto, anche all’insaputa delle aziende che li avevano commissionati, per gestire più facilmente i propri carichi di lavoro.
Che le condizioni di molti di questi laboratori fossero pessime e non soggette a controlli adeguati si sapeva anche prima del crollo del Rana Plaza, anche a causa di altri incidenti, crolli e incendi successi nei mesi e negli anni precedenti. Ma la portata di quell’evento e la visibilità che ebbe spinsero moltissime aziende a dotarsi di strumenti per evitare che se ne verificassero altri, molto probabilmente anche per questioni di immagine e reputazione. Circa 200 aziende – tra cui H&M, Inditex, Primark, Camaïeu, Prenatal, OVS, Mango e United Colors of Benetton, ma anche catene di supermercati come Lidl e Aldi – firmarono uno storico accordo per migliorare le condizioni di sicurezza degli edifici dei laboratori del Bangladesh.
L’accordo, firmato il 15 maggio del 2013, poco più di due settimane dopo il crollo del Rana Plaza, prevedeva una serie di condizioni, tra cui accordi vincolanti tra le aziende e i sindacati locali dei lavoratori dell’industria tessile, il finanziamento di ispezioni indipendenti all’interno delle fabbriche, trasparenza sui risultati di queste ispezioni, che dovevano essere rese pubbliche, un impegno economico a finanziare gli interventi di ristrutturazione necessari a mantenere i laboratori in buone condizioni e il diritto dei lavoratori e delle lavoratrici a rifiutarsi di lavorare in condizioni ritenute poco sicure. Questo secondo accordo è noto come International Accord, accordo internazionale.
I termini dell’accordo furono poi progressivamente rifiniti nel corso degli anni, anche a seguito di nuovi incidenti. Nel 2017, per esempio, l’esplosione di una caldaia provocò la morte di almeno 10 persone in una fabbrica di Dacca: quattro anni dopo, le caldaie furono aggiunte alla lista dei dispositivi da controllare durante le ispezioni. Pochi anni dopo l’accordo fu esteso ad altri paesi con condizioni simili a quelle del Bangladesh, come il Pakistan.
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Gli accordi formulati dopo il crollo del Rana Plaza consentirono un generale miglioramento delle condizioni di molte fabbriche del Bangladesh: furono aggiunti estintori e altri sistemi antincendio, rinnovati gli impianti elettrici, rinforzate le fondamenta degli edifici, messi in atto programmi di formazione sulla sicurezza sul lavoro. Ma è ancora un processo incompleto e per molti versi insufficiente: secondo dati raccolti da Bloomberg, circa la metà delle 4.500 fabbriche di vestiti del Bangladesh hanno effettivamente ottenuto i miglioramenti previsti dall’accordo.
Moltissime aziende, inoltre, decisero di non firmare gli accordi, probabilmente anche per evitare i costi che comportano: a Bloomberg uno dei dirigenti di PVH, l’azienda che possiede marchi come Tommy Hilfiger e Calvin Klein, ha detto che per quanto riguarda soltanto le fabbriche del Pakistan, l’accordo per la sicurezza costa quasi 200mila dollari l’anno e che le aziende più grosse, come la sua, devono anche coprire i costi per l’assunzione e la formazione degli ingegneri e degli esperti impegnati a controllare che l’accordo venga rispettato.
Tra le aziende più importanti degli Stati Uniti, solo tre firmarono l’accordo per la sicurezza delle fabbriche del Bangladesh: American Eagle Outfitters, Fruit of the Loom e PVH. Anche Abercrombie & Fitch acconsentì a firmarlo, ma tuttora non risulta nella lista ufficiale. Le stesse tre aziende firmarono poi anche l’accordo internazionale.
Alcune aziende decisero poi di regolarsi in modo autonomo, mettendo in atto procedure di verifica delle condizioni di sicurezza non altrettanto trasparenti né vincolanti, ma meno costose. 26 grosse aziende statunitensi firmarono per esempio un accordo sulla sicurezza formulato da Walmart, la più grande catena al mondo nel settore della grande distribuzione organizzata, che però non prevedeva ispezioni indipendenti o accordi vincolanti per effettuare le riparazioni richieste. Sull’utilità di questo e altri programmi simili c’è molto scetticismo: lo stesso Rana Plaza era stato soggetto a controlli simili e li aveva passati, salvo poi crollare.
In altri casi le aziende che non hanno firmato l’accordo internazionale (quello che oltre al Bangladesh comprende anche altri paesi), come ad esempio IKEA e Levi’s, ne beneficiano senza finanziarlo, magari producendo i propri capi nelle stesse fabbriche di quelli che lo finanziano, secondo quanto riportato dalla Clean Clothes Campaign, la più grande associazione di sindacati e ong dell’industria dell’abbigliamento.
Il ministro dell’Economia del Bangladesh Tipu Munshi ha detto a Bloomberg che c’è ancora molto da fare e che molte fabbriche sono ancora molto indietro con gli obiettivi previsti dagli accordi. A questo link è possibile consultare i dati per ogni marchio: comprendono il numero di dipendenti, lo stato di avanzamento delle misure di sicurezza attuate nei laboratori e della formazione dello staff sulla sicurezza e i dettagli sulle rilevazioni di ingegneri ed esperti.
Dopo il crollo del Rana Plaza, il miglioramento delle condizioni di sicurezza delle fabbriche di vestiti del Bangladesh è stato l’aspetto più discusso tra quelli che riguardano le tutele e i diritti di chi in quelle fabbriche lavora, ma ovviamente non è l’unico.
Per i lavoratori e le lavoratrici dell’industria tessile bangladese, le condizioni di lavoro sono ancora pessime sotto moltissimi altri punti di vista, a partire dai salari. L’industria dell’abbigliamento è una delle più determinanti per l’economia locale: il Bangladesh produce ogni anno circa 45 miliardi di dollari di vestiti, e secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del commercio relativi al 2022 è il secondo esportatore di vestiti al mondo dopo la Cina. In Bangladesh l’abbigliamento compone circa l’80 per cento delle esportazioni totali, e circa 4 milioni di persone (su circa 169 milioni di abitanti) lavorano in una fabbrica di abbigliamento.
Secondo calcoli di Bloomberg, queste persone guadagnano mediamente l’equivalente di meno di 70 euro al mese, circa il 26 per cento del salario di sussistenza stimato nel paese. Ci sono poi frequenti casi di abusi di vario tipo e i diritti sindacali sono ancora molto limitati. In generale, le filiere produttive di moltissime grosse aziende di abbigliamento sono ancora molto opache e poco trasparenti.
Porre rimedio a queste condizioni e migliorare in modo significativo le condizioni di lavoro dell’industria tessile del Bangladesh, come di altri paesi, è complicato per vari motivi. In paesi in cui la produzione di abbigliamento ha un peso così grosso sull’economia locale, i governi tendono a non voler imporre regole troppo stringenti ai marchi e alle aziende da cui dipendono. E nonostante le pessime condizioni, moltissime persone, tra cui molte donne, vedono nelle fabbriche a cui si affidano le aziende un’opportunità di lavoro.
C’è poi tutto un altro ordine di problemi che riguarda i consumatori, abituati ormai da decenni a comprare abiti che costano poco, e in molti casi probabilmente non intenzionati a spendere di più. Negli Stati Uniti, secondo dati del dipartimento del Lavoro, i prezzi nel settore dell’abbigliamento sono rimasti pressoché invariati dagli anni Novanta a oggi, anche se i prezzi delle materie prime e dei servizi sono più che raddoppiati. È proprio a partire dagli anni Novanta che l’industria del fast fashion si è diffusa su larghissima scala, abituando i consumatori occidentali a comprare vestiti a costi irrisori.
Secondo attivisti ed esperti del settore, un cambiamento strutturale delle condizioni su cui quest’industria si basa dovrebbe partire proprio dai paesi occidentali, dalle scelte degli investitori e dalle regole decise dai governi: cioè proprio da quei paesi che finora hanno beneficiato di più dei prodotti di questo tipo di industria, nonostante le condizioni di lavoro che la caratterizzano.
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