Le aziende stanno speculando sull’inflazione?
L'aumento dei prezzi non è più causato dai rincari dell'energia e forse le imprese se ne stanno approfittando per aumentare i profitti
In Europa e negli Stati Uniti i prezzi di molti prodotti stanno continuando ad aumentare, benché siano venute meno molte delle ragioni che avevano causato l’inflazione di questi ultimi anni. Per questo da qualche mese molti economisti stanno prendendo in considerazione un’ipotesi che finora era sostenuta soltanto da una minoranza di analisti: che le aziende stiano speculando sulla situazione generale di aumenti dei prezzi per ottenere più profitti possibili, e che per questo abbiano aumentato i prezzi dei beni e dei prodotti molto più di quanto sarebbe necessario per coprire l’aumento dei costi.
In molti settori le aziende, in pratica, starebbero aumentando i prezzi per approfittare del fatto che i consumatori sembrano disposti a pagare di più, e starebbero in questo modo contribuendo alla crescita dell’inflazione pur di aumentare i propri profitti.
Questa constatazione deriva dal fatto che molti dei fenomeni che avevano originariamente creato un aumento dei costi per le aziende sembrano ormai essere terminati: la pandemia è conclusa, sembra essersi risolta la crisi dei commerci mondiali – che dopo i vari lockdown aveva causato un blocco dei porti, un eccezionale aumento dei costi delle spedizioni marittime, grossi rallentamenti negli approvvigionamenti di materie prime e di numerosi beni, che di conseguenza sono rincarati – e anche il costo dell’energia è tornato su livelli accettabili, sebbene sia ancora più alto rispetto a prima della guerra in Ucraina.
I rincari di oggi sembrano quindi piuttosto ingiustificati e molti analisti, tra cui alcuni di Bloomberg, ritengono che le aziende stiano decidendo arbitrariamente di continuare ad aumentare i prezzi per far crescere ancora i profitti.
Nonostante gli aumenti che ci sono stati nei costi di produzione, le aziende sono riuscite ad aumentare comunque i margini di guadagno: alzando i prezzi di vendita inizialmente si erano protette dai consistenti rincari dei costi di produzione, causati dalle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina, ma ora gli aumenti non sembrano più giustificati. L’idea che l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato del livello dei prezzi, sia guidata dai profitti delle aziende era prima solo un appannaggio degli economisti più di sinistra, ma ora anche le banche centrali la stanno prendendo molto sul serio.
In questi mesi i consumatori hanno accettato i consistenti aumenti dei prezzi perché li ritenevano tutto sommato giustificati da ciò che stava accadendo – prima la pandemia, poi la crisi dei commerci mondiali, infine la guerra in Ucraina e l’aumento del costo dell’energia. Era quindi plausibile che dovessero aumentare i prezzi di un po’ di tutto. Per questo i consumatori sono stati meno sensibili ai rincari e non hanno ridotto di troppo le quantità acquistate, come succede di solito. Molti di loro avevano a disposizione anche i risparmi accumulati durante la pandemia, quando non potevano spendere i loro soldi per attività che ai tempi erano proibite dalle restrizioni, il che ha contribuito a non farli preoccupare troppo dei rincari.
Inoltre, molte persone non avevano davvero idea di cosa fosse l’inflazione perché non l’avevano mai vissuta in prima persona: simili aumenti dei prezzi non si vedevano dagli anni Ottanta e non tutti erano in grado di capire che i rincari che notavano erano molto più alti di quanto serviva a compensare gli aumenti dei costi di produzione per le aziende.
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Due giornalisti di Bloomberg hanno creato il termine excuseflation, dalla crasi tra excuse – ossia scusa, pretesto – e inflation – inflazione: in molti casi l’inflazione vera, ossia gli aumenti dei prezzi che effettivamente ci sono stati, è stata un pretesto usato dalle aziende per aumentare i prezzi più di quanto fosse necessario, e ottenere in questo modo maggiori profitti.
Questo si può notare da alcuni fenomeni. Innanzitutto i margini delle aziende sono effettivamente molto aumentati in parallelo all’aumento dell’inflazione. I margini operativi delle grandi società quotate in borsa – ossia la percentuale di profitto sul totale delle vendite – sono saliti anche se dai calcoli si tolgono le società energetiche, quelle che notoriamente hanno aumentato i guadagni per l’aumento del costo del gas e del petrolio: rispetto a prima della pandemia nel 2022 sono nettamente più alti sia in Europa che negli Stati Uniti.
Un rapporto della Banca Centrale Europea mostra che nell’ultimo trimestre del 2022 i profitti delle aziende erano del 9,4 per cento più alti rispetto all’anno precedente. Lo studio spiega che «gli elevati costi di produzione (per esempio quelli dell’energia) hanno reso per le imprese più facile aumentare i propri margini di profitto, perché allo stesso tempo rendono più difficile stabilire [per il consumatore, ndr] se i prezzi più elevati sono causati da costi o margini più elevati. Le aziende puntano a recuperare le perdite di guadagno dove possibile e il contesto di inflazione elevata può fornire una buona occasione per farlo».
Il rapporto indica che nello stesso periodo anche gli stipendi hanno in parte contribuito all’aumento generale dei prezzi, ma in misura molto minore rispetto ai profitti: nell’ultimo trimestre del 2022 gli stipendi sono aumentati del 4,7 per cento, la metà di quanto sono aumentati i profitti delle imprese.
Da mesi le banche centrali di tutto il mondo stanno aumentando i tassi di interesse di riferimento per combattere l’inflazione. Questo ha un prezzo: l’aumento dei tassi di interesse ha come obiettivo deliberato di rallentare l’economia, quindi l’aumento dei prezzi, e le banche centrali si muovono su una linea sottile tra rallentamento dell’economia e potenziale recessione. Ma se i prezzi sono in aumento perché le aziende cercano di aumentare i profitti questa politica monetaria non è efficace e rischia di produrre solo danni.
In un’intervista al New York Times Fabio Panetta, membro del Consiglio direttivo della BCE, ossia l’organo che prende tutte le decisioni di politica monetaria come l’aumento dei tassi di interesse, ha detto: «io non sono qui per dare un giudizio su quanto questo sia giusto o ingiusto, ma per indagare le cause dell’inflazione. In alcuni settori i costi di produzione stanno scendendo mentre i prezzi al consumo aumentano, così come i profitti. Il fatto che possano esserci aumenti dell’inflazione generati da aumenti nei profitti mi preoccupa come banchiere centrale».
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Il fatto che l’inflazione non sia più guidata dai rincari dei costi di produzione si nota anche da un particolare andamento dell’inflazione nell’Eurozona e in vari paesi che la compongono. Da ottobre sta scendendo l’inflazione generale, ossia l’indice che misura mensilmente gli aumenti generali dei prezzi rispetto all’anno precedente. Il fatto che l’inflazione sia oggi in calo non significa che i prezzi stiano diminuendo: in quel caso l’inflazione sarebbe negativa e si chiamerebbe deflazione. Significa invece che l’aumento dei prezzi è stato meno intenso rispetto a quello del mese precedente: se a marzo 2022 un prodotto costava 100 euro, oggi ne costa 103,3, ossia comunque in aumento.
I motivi di questa riduzione sono vari e quello più rilevante è di natura statistica. Il tasso di inflazione infatti viene calcolato in termini mobili: si confrontano i prezzi di marzo 2023 con quelli di marzo 2022, quelli di febbraio 2023 con quelli di febbraio 2022 e così via. La base di partenza è quindi sempre diversa e, dal momento che lo scorso anno l’inflazione è cresciuta molto soprattutto da marzo in poi, via via il confronto viene fatto con mesi in cui i prezzi stavano già iniziando a salire in modo sostanziale.
L’inflazione annuale di marzo, per esempio, viene calcolata confrontando i prezzi di oggi con quelli di marzo 2022, ossia il primo mese della guerra in Ucraina, l’evento che ha fatto aumentare tantissimo i prezzi dell’energia e quindi in generale quelli di un po’ di tutto. Oggi i prezzi dell’energia sono tornati su livelli più bassi un po’ ovunque, ma confrontando l’inflazione generale con la cosiddetta inflazione di fondo – quella che si ottiene togliendo dall’indice generale i prezzi di cibo ed energia, cioè quelli più volatili molto suscettibili a movimenti improvvisi – emerge che il tasso di inflazione è ancora molto alto.
Questo significa che i rincari del costo dell’energia non spiegano più gli aumenti dei prezzi: possono essere spiegati anche da un’economia che va piuttosto bene, dove la domanda dei consumatori è superiore a quanto le aziende riescono a produrre, ma anche dal fatto che le aziende stanno continuando ad aumentare arbitrariamente i prezzi di vendita.
Un’ulteriore riprova del fatto che i prezzi ormai non seguono più gli aumenti dei costi di produzione è legata all’andamento dei prezzi del cibo.
L’indice FAO è una misura mensile dei prezzi internazionali di un gruppo di materie prime alimentari come cereali, oli vegetali, prodotti lattiero-caseari, carni e zucchero. Rappresenta bene cosa succede nel mercato del cibo su scala mondiale, a livello complessivo ma anche per singola categoria merceologica. Dopo costanti aumenti a partire dalla fine del 2020, l’indice è in netto calo da maggio 2022. Nonostante questo stanno aumentando ancora i prezzi finali che pagano i consumatori, misurati dall’inflazione sui beni alimentari di Eurostat.
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