Gli abitanti della nostra casa
«Tanti anni fa ho fatto leggere l’inventario allo scrittore Luis Sepúlveda, una volta che è venuto a trovarmi, e mi ha detto: "Ma questa è pura letteratura, dove dice una pala basta aggiungere 'macchiata di sangue' e comincia un romanzo". Aveva ragione. A me, che ho avuto una vita molto meno avventurosa della sua, sembra un romanzo perfino senza la macchia di sangue»
Quasi trent’anni fa mi sono trasferita in un casolare lungo e stretto sulle colline fra Lucca e il mare. Ai piedi della gradinata di olivi che parte dal cancello passa la via Francigena. Se là in fondo si prende a destra rimontando un torrentello pieno di garzette e rane fino al valico di Montemagno, si va a Pietrasanta, Pontremoli, Parigi e, volendo arrivare fino in fondo, Canterbury; se invece si prende a sinistra scendendo il torrentello si va a Lucca, San Gimignano, Siena e Roma, e poi dalla città eterna, avendo tempo e voglia, si può proseguire per la Puglia e imbarcarsi per la Terrasanta, come facevano una volta i pellegrini. Non l’ho mai fatto ma mi piacerebbe.
La casa, disabitata dalla Seconda guerra mondiale, senza bagni né acqua corrente, aveva l’aria di essere vecchissima: la muratura in pietra a filaretto, i barbacani, l’arco di conci di un antico portone d’ingresso mezzo sepolto da un terrapieno. Anche le proporzioni erano quelle antiche, legate alle misure tradizionali dei vernacchi, i grossi getti di castagno selvatico che tagliati in due per lungo venivano usati come travicelli; l’umile meravigliosa sezione aurea della campagna toscana. E mai una linea perfettamente dritta, mai un angolo retto: muri fuori piombo, intonaci ondulanti, scalini consunti, pavimenti di cotto scavato, acquai dove la goccia era ormai pozza nel marmo. Tutto morbido, smussato dagli anni e da chi era vissuto lì prima di noi.
Essendo sempre stata un topo di biblioteca, ho deciso di indagare negli archivi locali sui precedenti abitanti. Non so perché ma coincidere nello spazio, anche se non nel tempo, in quella casa mi sembrava una forma tangibile di convivenza. E mentre entravamo in punta di piedi nelle stanze, toccando il meno possibile nel tentativo di non lasciare il segno con gli inevitabili lavori, un po’ come chi semplicemente si mette comodo in una poltrona, sono andata a frugare all’archivio notarile che a Lucca si conserva intatto dal Duecento a oggi. Sembra incredibile che un materiale delicato come la carta sia così resistente, ma in effetti le cose, anche fragilissime, lasciate sole, in pace, vivono molto più a lungo di noi. Il vestito buono di mio padre è ancora lì, nell’armadio, perfetto, mentre lui è un quarto di secolo che non c’è più.
Il metodo di ricerca è molto semplice: nella compravendita di un immobile il notaio indica con quale atto di quale notaio chi vende è entrato in possesso del bene. Così di atto in atto sono risalita indietro, o forse sono sprofondata in registri sempre più giganteschi, con rilegature sempre più pesanti, cuoio e pergamena, la calligrafia aguzza ormai quasi indecifrabile illuminata da incipit sempre più fioriti. Ricordo che quando venivo via avevo sulle dita delle scaglie minutissime fra il blu e il nero, luccicanti, i microscopici frammenti di inchiostro che si erano staccati dalle parole tracciate col pennino, quasi che le scritte delle compravendite volessero venire alla casa con me dall’archivio.
Una sorpresa è stata veder mutare il nome del luogo nel tempo: i toponimi sono in genere molto tenaci. La casa era all’Oliveto, ma andando indietro regrediva al Castagneto. A quanto pare la collina nel Cinquecento era ancora coperta di “selve”, i boschi di castagni di cui tra frutti e legna ha vissuto per secoli tutto l’Appennino; solo in seguito i terrazzamenti l’hanno scolpita coi loro muretti a secco bagnati dal sudore dei mezzadri. Il nome Torre di Sotto, invece, tornava e tornava fino a suggerire che quello dovesse essere stata in origine la casa, una torre che finito il bellicoso medioevo si era allargata dandosi scopi pacifici, domestici, agricoli, ipotesi che il portale di conci mezzo sepolto dal terrapieno, le finestrelle e le feritoie tappate dagli ampliamenti in cantina, la pianta quadrata del corpo centrale e soprattutto il metro di spessore delle pareti interne al terzo piano sembravano voler confermare. Tutto quel tempo chiuso in quattro mura ci stordiva, ci faceva sentire sempre più di passaggio nella casa. E anche nel mondo: ospiti per lo spazio di un mattino.
Frugando nell’archivio, sono affiorati subito i nomi di chi ci aveva preceduto nelle stanze di Torre di Sotto e, dietro i toni compassati degli atti notarili, alcune storie. Il 19 giugno 1860, per esempio, la casa viene acquistata da una coppia, Luigi ed Eleonora, coniugi Mariani, per darla in dote alla figlia Maria, che va in sposa a un giovane gentiluomo; il gentiluomo però si abbandona al vizio del gioco d’azzardo, sperpera in breve tempo tutto il patrimonio familiare, e Maria, sgomenta, è costretta a svendere la casa per far entrare il marito nell’esercito come ufficiale, rendita modesta ma sicura.
Non era la prima volta che il casolare veniva messo all’asta. Per quasi tutta la seconda metà del Settecento, Torre di Sotto è un conventino del monastero lucchese di Santa Giustina. Dovevano starci proprio poche suore, ma avevano la loro cappella, di là dal giardino murato, con dentro un altare in marmorino e qualche panca. Le monache di Santa Giustina erano benedettine di clausura; il luogo in effetti si presta a una vita di contemplazione, ancora oggi passano più volpi e caprioli che persone. La Regola di san Benedetto prescriveva l’obbligo della «divina lettura» ed è così che mi piace immaginarle qua, chine sulle pagine da quando il sole si alza dietro Montecatino a quando cala dietro il Formicoso; mi fanno compagnia mentre traduco. Comunque, nel 1799 Lucca viene occupata dalle truppe francesi di Napoleone, che confisca tutti i beni ecclesiastici e li manda all’asta, compreso il conventino di Torre di Sotto, comprato il 23 luglio 1808 da un ignoto Angelo Bossi. Come è facile sparire nel nulla se nulla ti ricorda.
Il monastero di Santa Giustina aveva a sua volta acquistato il casolare tramite pubblica subasta (atto rogato dal notaro Giuseppe Maria Buzzaccarini) il 19 luglio 1759 dalla famiglia Pagnini, che l’aveva acquistata dai Pergola il 3 gennaio 1678 (rogato Nicolao Colle), che l’aveva acquistata dai Vannulli il 28 febbraio 1553 (rogato Antonio Santini). Poi, all’improvviso, quando Bartolomeo di Giuliano Vannulli compra la casa «vignata» di Torre di Sotto «per fiorini 82 d’oro larghi» da Gregorio quondam Andrea dal Portico, il notaio Francesco Mordecastelli tralascia di indicare l’atto precedente. È il 30 ottobre 1500. Il filo di Arianna si spezza. Spero un giorno, con più tempo, di poterlo riannodare.
Fra le cose più belle che ho trovato nei cinquecento anni di passaggi c’è un inventario di tutto ciò che era presente in casa nel 1535, alla morte dello stesso Bartolomeo Vannulli, proprietario che come tutti i proprietari qui teneva i contadini ma viveva in un palazzo in città: in cucina due pentole e un paiolo, un servito di piatti di cui tre sbreccati, un vassoio ovale di terraglia, dieci bicchieri, un grattacacio, sei strofinacci di canapa, tre tovaglie di cui una rammendata, un catino… in cantina sei botti, tre bigonce, venti tegoli… in sala un gioco di scacchi… Ogni tanto mi vien voglia di rimetterlo un gioco di scacchi in sala, mi sembra che manchi. Tanti anni fa ho fatto leggere l’inventario allo scrittore Luis Sepúlveda, una volta che è venuto a trovarmi, e mi ha detto: «Ma questa è pura letteratura, dove dice una pala basta aggiungere “macchiata di sangue” e comincia un romanzo». Aveva ragione. A me, che ho avuto una vita molto meno avventurosa della sua, sembrava un romanzo perfino senza la macchia di sangue.
La cosa più bella che ho trovato però è il testamento di un altro proprietario, di qualche tempo dopo il Vannulli: «A dì 7 maggio 1695, io sottoscritto Francesco Pagnini, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e pienamente capace di intendere e di volere, vista la peste nera che sta arrivando, ho deciso, pur non toccando ancora i quarant’anni, di fare testamento». E dopo aver disposto a chi lasciare quel palazzo e a chi quella vigna, a un certo punto scrive: «A Torre di Sotto, voglio che la mia devota serva Annina possa entrare nella casa da sola, senza che nessuno guardi, e portar via, senza che la medesima sia molestata, tutto ciò che chiuderà nel grembiule…».
Chissà chi era Annina per lui, per me è il nume tutelare della casa.