I complessi tentativi per organizzare una tregua in Sudan
Il cessate il fuoco annunciato dai paramilitari per la fine del Ramadan non ha retto, e sono ricominciati gli scontri
Nelle ultime ore stanno aumentando le pressioni diplomatiche e internazionali per cercare di convincere le parti in causa nel conflitto in Sudan ad accettare una tregua temporanea, di almeno tre giorni, in modo da garantire i primi soccorsi e permettere l’evacuazione dei civili, soprattutto dalla capitale Khartum. Al momento, tuttavia, le proposte di cessate il fuoco non hanno retto, e gli scontri sono proseguiti anche nella giornata di venerdì.
Da sabato nel paese è in corso un conflitto molto violento tra l’esercito regolare del Sudan, comandato dal presidente del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, e il potente gruppo paramilitare RSF, che di fatto è un esercito parallelo (conta tra i 70 e i 100 mila membri) ed è comandato dal vicepresidente del Sudan, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti. Negli scontri tra i due gruppi sono morte almeno 350 persone e ci sono più di 3.000 feriti, secondo diverse organizzazioni internazionali.
Nella serata di giovedì le forze paramilitari di Dagalo avevano annunciato un cessate il fuoco temporaneo di tre giorni a partire dalle prime ore di venerdì, in corrispondenza dell’Eid al-Fitr, una delle feste più importanti della religione islamica che segna la fine del Ramadan. L’esercito regolare non ha risposto a questa proposta, dopo averne rifiutate altre negli scorsi giorni. E le testimonianze di alcuni corrispondenti di media internazionali, fra cui Al Jazeera, segnalano che grossi scontri sono ancora in atto. Venerdì alcuni quartieri della capitale sono stati oggetto di un pesante bombardamento da parte dell’esercito regolare.
Nei giorni scorsi ci sono stati vari interventi internazionali per provare a organizzare una tregua, fra cui quello del segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken, due giorni fa: sono state annunciate due interruzioni temporanee degli scontri che non sono state rispettate, e in particolare nella capitale Khartum i combattimenti sono sempre continuati.
Giovedì è invece intervenuto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che ha definito una tregua come «assolutamente cruciale, nonché primo passo necessario verso un cessate il fuoco definitivo».
L’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite ha comunicato che sono ormai quasi ventimila i profughi che hanno lasciato il Sudan in direzione del Ciad: fra questi la maggioranza sarebbero donne e bambini, mentre a Khartum molti civili sarebbero bloccati dagli scontri nelle proprie case e molti ospedali sarebbero inagibili perché interessati dai bombardamenti. La tregua di tre giorni permetterebbe di evacuare feriti e civili dalle zone dove il conflitto è più intenso.
Finora però il presidente del paese Burhan ha rifiutato ogni dialogo, accusando il rivale Dagalo di aver cominciato la guerra. I due erano formalmente alleati all’interno della giunta militare che governa il paese, ma Dagalo ha sempre mantenuto una grossa autonomia, e le Rapid Support Forces sono rimaste un gruppo separato dall’esercito, sotto il suo diretto controllo. L’alleanza tra i due è diventata sempre più precaria negli ultimi mesi, dopo che nel dicembre del 2022 il governo di Burhan aveva acconsentito a un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile.
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L’accordo prevedeva lo scioglimento delle Rapid Support Forces, tra le altre cose. Dagalo si era però opposto da subito, temendo di perdere il suo potere, che ha anche importanti rivolti economici, soprattutto legati alle miniere d’oro del paese. Da allora lui e Burhan avevano cominciato a scambiarsi accuse durissime, facendo capire di essere pronti allo scontro armato, che si è infine verificato sabato.