Che cos’è il Sudan
Il terzo paese più grande dell'Africa è ricco di risorse petrolifere ma è estremamente povero, a causa dei conflitti interni e dei numerosi colpi di stato
In Sudan e in particolare nella zona della capitale Khartum sono già oltre 200 i morti nei combattimenti che da alcuni giorni vedono opposti l’esercito regolare e un gruppo paramilitare noto come Rapid Support Force (RSF), guidati rispettivamente da Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, presidente e vicepresidente della giunta di governo. Gli scontri in corso sono l’ultima crisi di un paese che dalla sua indipendenza nel 1956 ha vissuto due lunghe guerre civili (terminate con l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011), numerosi colpi di stato militari e alcuni conflitti locali ed etnici molto sanguinosi.
Guerra, violenze e conflitti armati hanno condizionato lo sviluppo del Sudan: il paese è molto povero, ha vissuto ripetute crisi umanitarie ed è soggetto a fasi di grande siccità e carestie, nonché a una progressiva desertificazione. Tra le altre cose, è uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo.
Il Sudan è il terzo paese più grande del continente africano, dopo Algeria e Repubblica Democratica del Congo: collocato geograficamente a sud dell’Egitto, con la costa nord-orientale sul Mar Rosso come unico sbocco sul mare, ha ampie porzioni di territorio desertiche. Ha circa 48 milioni di abitanti, che possono contare su un reddito pro capite lordo inferiore ai 1.000 euro l’anno (in Italia è di circa 36.000 euro): è uno dei 20 paesi più poveri al mondo, benché la sua economia abbia avuto tassi di crescita importanti dal 2000 e soprattutto negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza delle regioni del sud, intorno al 2010. Le lingue ufficiali sono l’arabo e l’inglese (introdotto nel 2005), ma nel paese si parlano oltre 70 lingue diverse e un numero molto superiore di dialetti.
La regione che oggi corrisponde al Sudan è abitata praticamente da sempre: le prime testimonianze di attività umane risalgono all’ottavo millennio avanti Cristo, poi sin dal periodo faraonico la sua storia è stata per lo più legata a quella dell’Egitto, con cui ha in comune il fiume Nilo: nei pressi della capitale Khartum Nilo Bianco e Nilo Azzurro confluiscono nel fiume che scorre verso nord per sfociare nel Mediterraneo.
La sua popolazione è a larghissima maggioranza musulmana e per ampia parte di etnia araba, ma la presenza di minoranze i cui diritti non sono stati sempre rispettati ha dato origine a conflitti interni, come quello della regione occidentale del Darfur, dove dal 2003 al 2006 si combatté una sanguinosa guerra civile che secondo l’ONU provocò 300mila morti e lasciò senza casa 2 milioni e mezzo di persone.
In estrema sintesi, le violenze nel Darfur iniziarono nel febbraio del 2003, quando alcuni gruppi armati locali ribelli insorsero contro il governo sudanese, accusandolo di discriminazioni e di mancanza di tutele nei loro confronti. Per combattere i ribelli, il governo intervenne assoldando i Janjawid, un gruppo di miliziani arabi di etnia baggara (quindi etnicamente distanti dagli abitanti del Darfur). Durante il conflitto, i Janjawid combatterono contro i gruppi di guerriglieri di popolazione non baggara, attaccando numerosi villaggi e uccidendo o torturando decine di migliaia di persone, rendendosi colpevoli di vari crimini di guerra e, secondo molte interpretazioni, di genocidio. Il conflitto si intensificò in particolare nel 2006, e negli anni successivi intervennero varie associazioni umanitarie e organizzazioni non governative.
Il gruppo paramilitare delle Rapid Support Force (RSF) che oggi combatte per il potere in Sudan è un diretto discendente dei Janjawid, e il generale Dagalo nel corso della guerra fu uno dei capi dei miliziani attivi in Darfur.
Nonostante un accordo di pace firmato nel 2020 le violenze in Darfur sono riprese su scala minore a partire dall’anno seguente, ma la regione non è l’unica in cui sono aperte dispute locali o territoriali. La regione dell’Hala’ib Triangle è contesa fra Sudan ed Egitto, mentre le aree di Abeyi, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro sono ancora motivo di tensione fra Sudan e Sud Sudan.
La separazione del Sud Sudan
Sudan e Sud Sudan hanno fatto parte del protettorato egiziano-britannico dal 1899 fino all’indipendenza: il governatore era nominato dall’Egitto ma doveva essere approvato dal Regno Unito. Durante la Seconda guerra mondiale alcune zone del paese furono oggetto anche di incursioni dell’esercito italiano dalla confinante colonia etiope.
Il nuovo stato indipendente nato nel 1956 – che riuniva assieme sia Sudan sia Sud Sudan – fu immediatamente gestito da regimi militari che organizzarono lo stato su princìpi islamici e favorirono anche economicamente le regioni del nord a maggioranza araba. Per questo le regioni meridionali corrispondenti all’attuale Sud Sudan, abitate da gruppi etnici dell’Africa equatoriale e sub-sahariana, e a maggioranza cristiana (con minoranze animiste), rivendicarono da subito la volontà di costituirsi come stato indipendente.
Una prima guerra civile iniziò nel 1955, terminò nel 1972 e portò alla creazione di una regione con maggiori autonomie. Non funzionò, il conflitto riprese nel 1983 e durò fino al 2005: la prima guerra civile sudanese causò 500.000 morti, la seconda oltre due milioni, anche per gli effetti della fame e della diffusione di malattie causate dal conflitto. Dopo forti pressioni della comunità internazionale, nel 2011 un referendum approvato con oltre il 98 per cento dei voti creò ufficialmente lo stato del Sud Sudan, riconosciuto dalla comunità internazionale.
La separazione ha complicato le gestione della principale risorsa economica dei due paesi, il petrolio: il 75 per cento dei pozzi e delle risorse di greggio sono in Sud Sudan, mentre le raffinerie e gli stabilimenti per rendere il petrolio esportabile nel nord. È stato necessario rinegoziare il sistema di divisione degli utili e gli accordi per l’utilizzo, da parte del Sud Sudan, degli oleodotti che attraversano il Nord e che sono rimasti sotto il controllo di Khartum. Gli accordi sono stati favoriti dall’intervento della Cina: lo sfruttamento delle risorse petrolifere è per lo più in gestione ad imprese cinesi. La Cina è anche il principale partner commerciale del Sudan.
Se il Sud Sudan è stato considerato a lungo uno «stato fallito» incapace di darsi un governo democratico, anche il Sudan ha vissuto gran parte della propria storia retto da regimi autoritari. Le parentesi democratiche sono state brevi e traballanti, i colpi di stato militari numerosi: sono riusciti quelli del 1958, 1969, 1985, 1989, 2019 e 2021. Per trent’anni, dal 1989 al 2019, il Sudan è stato governato dal colonnello Omar al Bashir, autore di un colpo di stato militare con cui mise fuori legge i partiti, introdusse nel paese la sharia islamica e concentrò sulla sua persona i poteri legislativi ed esecutivi, con la carica di presidente. Durante il suo regime il Sudan è stato anche inserito dagli Stati Uniti nella lista dei paesi “sponsor del terrorismo”, cioè quei paesi che secondo il governo americano finanziano, sostengono o proteggono gruppi terroristici.
La caduta di Bashir nel 2019 fu provocata dalle proteste cominciate per un grande aumento dei prezzi dei beni di prima necessità: dopo tentativi di repressione violenta, il presidente fu deposto dall’esercito e accusato di corruzione.
Dopo una breve parentesi democratica, nell’ottobre del 2021 i due generali Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, unirono le forze per rovesciare il governo civile con un colpo di stato e instaurare una dittatura militare. Da allora il paese è governato da una giunta militare chiamata Consiglio Sovrano, di cui Burhan è il capo e Dagalo il secondo in comando. Nel dicembre 2022 su pressione internazionale i due generali avevano acconsentito a iniziare una transizione democratica, ma da sabato gli scontri politici si sono trasformati in combattimenti, specie nella capitale, tra l’esercito regolare del Sudan di Burhan e il potente gruppo militare Rapid Support Forces (RSF) di Dagalo.