La maratona annuale più vecchia del mondo
È quella di Boston, segnata da storie ed eventi non solo sportivi e resa particolare dai suoi saliscendi
Si corre lunedì la Maratona di Boston, la più antica maratona annuale al mondo, che fu organizzata per la prima volta nel 1897, un anno dopo la prima di sempre, alle prime Olimpiadi moderne. Oltre che per la sua lunga storia la Maratona di Boston è ancora oggi tra le più importanti al mondo: c’entrano le molte storie, non solo sportive, di cui è stata protagonista, ma anche certe sue peculiarità e tradizioni. Per via dei suoi saliscendi è inoltre una gara complicata e spesso dà risultati imprevisti. Quest’anno, per la prima volta, la correrà anche il keniano Eliud Kipchoge, che nell’ultimo decennio ha dominato la corsa, di cui detiene il record mondiale. Tra le sei più importanti maratone al mondo, note come Major, gliene mancano solo due: New York e Boston.
La prima Maratona di Boston – la capitale del Massachusetts, che sta circa 300 chilometri a nord di New York – si corse il 19 aprile del 1897. La organizzò la Boston Athletic Association, che era stata fondata dieci anni prima e che vista l’assenza di altre maratone statunitensi la chiamò American Marathon. Come fece notare il New York Times qualche anno fa, qualcosa di simile in realtà già era stato organizzato nel 1896 a New York, dove però la celebre maratona cittadina esiste soltanto dal 1970.
L’American Marathon fu organizzata nel terzo lunedì di aprile: il Patriots’ Day, il giorno in cui si ricordano le battaglie che diedero inizio alla guerra d’indipendenza americana. Allora la maratona era una novità: la disciplina era stata inventata solo un anno prima perché serviva un evento che nobilitasse la prima edizione delle Olimpiadi moderne, organizzate ad Atene, con una corsa che partì proprio dalla località greca di Maratona. Come tutte le maratone di quel periodo anche quella di Boston fu corsa per diversi anni su una distanza variabile, di almeno qualche chilometro più breve rispetto alla distanza di 42 chilometri e 195 metri, che fu codificata solo nel 1921.
Il primo anno si iscrissero in 18, partirono in 15 e arrivarono al traguardo in 10. Il più veloce, che completò i circa 40 chilometri in poco meno di tre ore, fu il litografo John McDermott, che qualche mese prima aveva vinto la simil-maratona newyorkese.
Nel 1906 la Maratona di Boston superò per la prima volta i 100 partecipanti e nel 1911 ci fu la prima delle molte vittorie di Clarence DeMar, che però dopo aver vinto si ritirò e ricominciò a correre solo negli anni Venti, vincendo altre sei edizioni, l’ultima a 41 anni. Visto il cognome risultò piuttosto semplice decidere di soprannominarlo “DeMarathon”.
Cinquant’anni dopo aver superato i cento partecipanti, nel 1966 l’evento superò i cinquecento. Quell’anno alla partenza c’era anche Roberta Gibb: aveva provato a iscriversi ma le era stato risposto che le donne non erano “fisiologicamente in grado” di correrla. Si presentò lo stesso e partendo poco dopo i maratoneti ufficialmente iscritti corse la sua maratona “non ufficiale” in 3 ore e 21 minuti. Qualcosa di simile lo fece nel 1967 Kathrine Switzer, che si era iscritta come “K.V. Switzer” eludendo così il divieto di partecipazione per le donne. Switzer riuscì quindi a partecipare e perfino finire la gara con un pettorale ufficiale, nonostante poco prima della fine uno degli organizzatori avesse provato a fermarla. Nel 1972 il regolamento fu infine cambiato per permettere anche alle donne di gareggiare.
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta la Maratona di Boston superò i mille e i cinquemila partecipanti e nel 1980 un’altra donna si fece notare, seppur per motivi parecchio diversi: era Rosie Ruiz, che vinse la corsa ma che, si scoprì qualche giorno dopo, l’aveva fatto dopo aver corso solo l’ultimo chilometro e mezzo. In modo molto semplice, Ruiz si era regolarmente iscritta ma anziché correre era stata tra il pubblico per un paio d’ore, per poi entrare nel percorso con il suo pettorale e arrivare al traguardo circa due ore e mezzo dopo la partenza (degli altri e delle altre), cosa che rendeva il suo tempo uno dei migliori di sempre a livello femminile.
Il suo tempo, la sua freschezza all’arrivo, il fatto che prima avesse corso solo un’altra maratona (quella del 1979 di New York) e una serie di altri indizi (compresa un’intervista post-gara in cui palesò di non essere granché esperta di allenamenti e corse) portarono a scoprire il suo imbroglio. Si scoprì tra l’altro che Ruiz nemmeno aveva corso davvero a New York: una fotografa raccontò infatti al New York Times di averla vista in metropolitana nei momenti in cui avrebbe dovuto essere in strada.
La Maratona di Boston è però anche ricordata per le due bombe che esplosero dieci anni fa, vicino al traguardo, poco prima delle 15 del 15 aprile, quando molti partecipanti ancora stavano completando la corsa. Le bombe causarono la morte di tre persone e più di 250 furono ferite, 17 delle quali subirono amputazioni.
Si scoprì in seguito che le due bombe – due pentole a pressione da cucina piene di chiodi e ferro che si disse erano state “progettate per mutilare” – erano state messe da due fratelli con cittadinanza kirghiza-statunitense e discendenza cecena: uno fu ucciso il 19 aprile durante una sparatoria in cui l’altro, Dzhokhar Tsarnaev, fu gravemente ferito e poi arrestato. Tsarnaev, ora ventinovenne, è condannato a morte (la condanna era stata decisa, poi annullata e in seguito ripristinata dalla Corte Suprema statunitense, sebbene in Massachusetts non si eseguano condanne a morte da anni).
L’anno successivo la Maratona di Boston ebbe oltre 35mila iscritti (fu la seconda più partecipata di sempre dopo quella del centenario) e da allora ogni anno si ricordano le vittime e la grande reazione che ebbe la città, identificata con le parole “Boston Strong”.
A livello agonistico la Maratona di Boston è stata in passato terreno di alcuni record del mondo sia maschili che femminili, il primo dei quali già nel 1947. Seppur difficile per i suoi saliscendi, è infatti una maratona in cui il dislivello negativo è di circa tre metri per chilometro, e che essendo tutta corsa nella stessa direzione (non è una di quelle con circuito ad anello) permette di beneficiare di un eventuale vento a favore. Per questi due motivi da oltre trent’anni a Boston è impossibile fare tempi che siano poi ufficialmente registrati come record: successe per esempio nel 2011, quando il tempo di 2 ore, 3 minuti e 2 secondi fatto a Boston dal keniano Geoffrey Mutai fu considerato “il più veloce di sempre” fino ad allora, ma non accettato come nuovo record del mondo.
In attesa di Kipchoge, quello di Mutai è ancora il tempo più veloce di sempre a Boston. Il record per il maggior numero di vittorie podistiche è di DeMar, ma l’atleta ad aver vinto più volte a Boston è il sudafricano Ernst van Dyk, nella categoria per corridori in carrozzina, che la Maratona di Boston fu tra le prime a introdurre nel 1975. Il premio per il partecipante più assiduo va invece a John A. Kelley: la provò a correre una prima volta nel 1928, la vinse due volte (nel 1935 e nel 1945) e in tutto partecipò a 61 edizioni arrivando al traguardo 58 volte, l’ultima delle quali nel 1992, a 84 anni.
All’edizione di quest’anno gli iscritti sono circa 30mila, almeno 200 dei quali di nazionalità italiana. In tutto, dal 1897 al 2022, alle maratone di Boston hanno partecipato oltre 800mila persone. In realtà, però, sono state di più, per via dei cosiddetti “banditi”.
Banditi (“bandits” in inglese) sono, in gergo, le persone che partecipano alle maratone o a parte di esse senza essersi iscritte, e quindi senza pettorale. Ovunque, non solo alle maratone, ci sono persone che si uniscono e mischiano per varie ragioni agli iscritti ufficiali; il fatto è che a Boston il banditismo è stato per molto tempo accettato e tollerato, o perlomeno non disincentivato. Perfino Dave McGillivray, da anni direttore di corsa, raccontò di aver fatto il “bandito” quando aveva meno di 18 anni e quindi ancora non poteva iscriversi ufficialmente. A ben vedere anche Roberta Gibb, nel 1966, corse da bandita. Per anni, a Boston, i “corridori non ufficiali” partivano dopo tutti gli altri, molti di loro approcciandosi alla corsa in modo piuttosto allegro e goliardico, una cosa in genere gradita dagli spettatori.
Ragioni logistiche e di sicurezza, in particolare dopo il 2013, hanno però ridotto parecchio la condiscendenza degli organizzatori verso i corridori non ufficiali.
Restano però un paio di altre peculiarità per cui è nota Boston. Una è il cosiddetto scream tunnel, il tunnel degli strilli, dove per alcune centinaia di metri del tifo si incaricano soprattutto le vivaci e rumorose studentesse di un college femminile di Wellesley. L’altra è la Heartbreak Hill, la “collina spaccacuore”: una salita lunga circa 600 metri, per un dislivello di 27. Arriva dopo 32 chilometri di corsa (un momento di crisi per molti maratoneti) ed è l’ultima in una serie di quattro salite.
Nonostante a Boston ci sia più discesa che salita, è altrettanto vero che spesso le discese creano tutta una serie di problemi muscolari. Il nome “cuore spezzato” arriva dall’edizione del 1936, quando Kelley superò il corridore in testa dandogli una pacca sulle spalle, cosa che si dice portò quel maratoneta a una reazione di orgoglio grazie alla quale ri-superò Kelley (il cuore spezzato sarebbe insomma il suo).
Proprio l’intensità e la frequenza di salite e discese sono gli elementi principali che rendono quella di Boston una maratona atipica e spesso parecchio imprevedibile. Ma ci sono anche le condizioni atmosferiche, assai variabili: anche in tempi recenti si ricordano edizioni molto calde ed altre parecchio fredde, ventose e piovose, come nel 2018.
Tutti questi elementi fanno sì che rispetto ad altre maratone più piatte (non solo dal punto di vista altimetrico), Boston sia considerata – per quanto riguarda la lotta per la vittoria – una gara più tattica, in cui è più difficile gestire le energie e azzeccare le strategie. Ed è proprio su questo, più che sul tempo con cui eventualmente finirà, che molti sono curiosi di vedere come si comporterà il primatista mondiale Kipchoge, uno che nella vita ha vinto 15 maratone sulle 17 a cui ha partecipato.
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