Quel guaio con gli alberi del PNRR ha cause che vengono da lontano
Ce ne sono pochi a disposizione pronti da piantare perché negli ultimi anni sono stati abbandonati molti vivai forestali dove venivano coltivati
Alla fine di marzo la Corte dei Conti ha segnalato un grosso problema del piano di forestazione urbana, cioè i finanziamenti per piantare milioni di nuovi alberi in 14 grandi città italiane e nelle loro province. I fondi, in totale 330 milioni di euro, sono stati stanziati nell’ambito del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza. L’obiettivo è piantare 6,6 milioni di alberi entro il 2024, ma le cose non stanno andando come previsto, soprattutto perché ci si è accorti che non ci sono abbastanza alberi da piantare. Per rimediare a questa mancanza sono stati acquistati e piantati semi che nei prossimi anni cresceranno fino a diventare alberelli da trapiantare nelle città.
L’obiettivo del PNRR sarà comunque rispettato, tuttavia l’inevitabile ritardo ha portato la Corte dei Conti a interrogarsi sulla legittimità di questo approccio. In sostanza, non è chiaro se il PNRR permetta di pagare ora per alberi che saranno piantati nelle città soltanto tra diversi anni.
Nelle ultime due settimane questa equiparazione tra semi e alberi ha suscitato alcune polemiche. «L’UE paga 300 milioni di euro per sei milioni di alberi, e noi piantiamo sei milioni di semi», ha scritto il Foglio, mentre Milena Gabanelli sul Corriere della Sera ha definito questa strategia un «inganno», anche se una valutazione puntuale e definitiva sulla correttezza del piano spetterà alla Commissione Europea. Si è parlato poco, invece, di come mai ci sono pochi alberi da piantare: è una carenza che viene da lontano, risultato di una cattiva programmazione che avrà conseguenze non soltanto sulla forestazione urbana del PNRR.
Il bando del PNRR relativo alla forestazione urbana è stato pubblicato il 30 marzo del 2022 e rientra nell’obiettivo più generale di «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano». È rivolto alle 14 città metropolitane, che sono Torino, Genova, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Palermo, Messina, Catania e Cagliari. La previsione è di piantare un milione e 650mila alberi nel 2022 con un investimento di 74 milioni di euro, un altro milione e 650mila nel 2023 e 3,3 milioni entro il 2024. Non sono piante ornamentali, come quelle che si trovano nei parchi delle città, ma alberi di specie autoctone per realizzare nuovi boschi.
Gli obiettivi principali del bando sono un «miglioramento della situazione climatica locale in ambito urbano», cioè la limitazione delle cosiddette isole di calore, il recupero del paesaggio urbano attraverso la forestazione di aree dismesse, anche industriali, la conservazione della notevole biodiversità italiana e il sostegno alla filiera locale nella produzione delle piante e nella gestione dei boschi.
Nonostante ci sia il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste che ha competenza in questo ambito, il lavoro di preparazione del bando è stato gestito esclusivamente dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Non è stato creato un comitato di gestione nazionale, che per esempio sarebbe servito a coordinare i due ministeri e farli collaborare, e la Direzione generale delle foreste, che fa capo al primo, non è stata coinvolta.
Il risultato dello scarso coordinamento, per non dire nullo, è stato che molti criteri del bando si sono rivelati poco appropriati. Non si è tenuto conto, per esempio, della disponibilità limitata di aree: molte delle città non sono riuscite a trovare la superficie minima di almeno 30 ettari (300mila metri quadri) nelle città metropolitane densamente popolate e di 50 ettari (500mila metri quadri) nelle zone a scarsa densità abitativa, come i comuni della provincia. Tra le altre cose, il piano non considerava le iniziative già avviate in diverse città come Milano, che dal 2018 aveva avviato il progetto Forestami per piantare 3 milioni di alberi entro il 2030. Diverse città metropolitane hanno quindi fatto fatica a trovare aree abbastanza grandi per creare nuove foreste urbane.
Il problema più grosso alla base della segnalazione della Corte dei Conti è stata la sottovalutazione della disponibilità di alberi nei vivai forestali. I vivai sono terreni gestiti dalle regioni o dalle province autonome dove vengono coltivate specie forestali tipiche del territorio. Le piante dei vivai forestali vengono concesse gratuitamente ai comuni che ne fanno richiesta per la forestazione urbana oppure per ripristinare boschi distrutti da incendi o alluvioni.
Fino a pochi anni fa i vivai forestali erano considerati un patrimonio regionale indispensabile per preservare la biodiversità. Molti erano gestiti dal Corpo forestale dello Stato, che nel 2017 è stato inglobato nei Carabinieri. Il passaggio ha portato alla dismissione di diversi vivai forestali. «Molti vivai delle regioni sono in condizioni di abbandono» spiega Alessandro Cerofolini, dirigente della Direzione generale delle foreste e autore del libro Le meraviglie dei boschi italiani. «Le regioni storicamente più efficienti sono la Toscana, il Piemonte e il Veneto, ma anche in queste gli addetti regionali sono sempre meno e in altre il servizio forestale è stato addirittura smantellato. La Direzione Foreste non dispone di personale e mezzi. I Carabinieri forestali, diventati di fatto una forza armata, non piantano più alberi come faceva il Corpo forestale».
Il risultato di questa scarsa programmazione è che i vivai forestali rimasti in Italia sono soltanto 71, di cui 31 esclusivamente forestali, mentre gli altri hanno una parte di piante ornamentali disponibili anche per i privati. Nel 2019 la loro capacità produttiva totale era di 4,1 milioni di piante per tutti gli utilizzi e con una distribuzione poco omogenea: 1,8 milioni di alberi nelle regioni del Nord, poco meno di 200mila nel Centro e 600mila al Sud e 1,5 milioni soltanto in Sardegna.
La distribuzione è importante perché, come spiega il bando del PNRR, bisogna piantare l’albero giusto nel posto giusto: non si può piantare una foresta di abeti rossi a Roma o un sughereto a Torino. Anche per questo le piante dei vivai forestali vengono prodotte da semi certificati di specie autoctone con l’obiettivo di non alterare la biodiversità delle foreste. È il motivo per cui è rischioso affidarsi ai vivai privati che trattano prevalentemente piante ornamentali, spesso importate dall’estero.
Molti addetti ai lavori segnalarono le stime troppo ambiziose del bando già pochi giorni dopo la pubblicazione. Il ministero trovò un rimedio a maggio del 2022, quando comunicò alle città metropolitane che avrebbero potuto usare «semi finalizzati al rimboschimento». Venne individuata un’azienda umbra, Umbraflor, che gestisce tre grandi vivai privati, dove piantare i semi e far crescere gli alberi da trapiantare quando saranno pronti, alti almeno un paio di metri. Con questo sistema nel 2022 le città metropolitane hanno piantato poco più di 500mila piantine.
Lo scorso anno la Corte dei Conti ha incaricato i carabinieri di fare accertamenti per capire come stesse andando il piano di forestazione urbana. In questa fase di controlli è emerso il dubbio sulla legittimità dell’equiparazione tra semi e alberi. «Alla luce delle risultanze istruttorie, dei riscontri effettuati dai comandi dei carabinieri, delle risposte alle richieste di chiarimento della Commissione Europea, emergono dubbi e perplessità sulla effettiva proponibilità di una tale equiparazione tra le due modalità» ha scritto nella delibera la Corte dei Conti. «I magistrati contabili, dubitando dell’effettiva equivalenza tra coltivazione dei semi e piantumazione di alberi già adulti hanno invitato il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ad acquisire un pronunciamento certo in materia da parte della Commissione Europea e a vigilare sia sulla corretta ed efficace esecuzione dei lavori in ogni città interessata sia sulla tempestiva attuazione delle fasi successive del Piano».
L’ufficio stampa del ministero, in replica a un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, ha spiegato che piantare semi o piantine nei vivai per la fase iniziale della coltivazione, prevista per cinque anni, era un’attività prevista negli obiettivi del piano e quindi regolare: «Non c’è stato trucco né inganno da parte del MASE [il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, ndr]. Naturalmente il ministero continuerà a vigilare e monitorare sull’attività delle città metropolitane ammesse alla misura per assicurare la corretta attuazione del provvedimento. E quindi, in conclusione, confermiamo che ai fini del conseguimento dell’obiettivo, Target PNRR 2022, sono state messe a dimora, secondo i parametri richiesti dall’Unione Europea oltre un milione e 708 mila piante, superando la milestone PNRR [cioè una specie di traguardo intermedio da raggiungere per l’obiettivo, ndr] che ne chiedeva un milione e 650 mila a quella data. Questa la realtà, magari noiosa ma vera».
Restano tuttavia i limiti di programmazione, che avranno effetti nei prossimi anni perché gli alberi previsti nel 2022 si potranno trapiantare soltanto nel 2027, con ritardi anche per le fasi successive almeno fino al 2030. Secondo Davide Pettenella, professore di economia e politica forestale dell’università di Padova e coordinatore della strategia forestale nazionale, questi sono i risultati di una politica poco lungimirante sul lungo e sul lunghissimo periodo.
Pettenella racconta spesso che quando si vanno a tagliare gli alberi nei boschi sull’altopiano di Asiago, in Veneto, prima di portarli nelle segherie vanno controllati al metal detector per rilevare l’eventuale presenza di granate e bombe della Prima guerra mondiale. «Sono alberi che hanno turni produttivi di 120 anni: questo è l’orizzonte temporale con cui dovremmo fare politica forestale», dice. «Purtroppo spesso l’orizzonte sono i cinque anni tra un’elezione e l’altra. Un altro problema riguarda la manutenzione. Non basta piantare milioni di alberi, le città e in generale la pubblica amministrazione deve avere le risorse economiche e umane per gestire e curare le nuove piante e quelle che c’erano già per un lungo periodo di tempo».