Perché collaboriamo
Quando lo facciamo, i motivi non sono banali: per esempio la paura di essere screditati ci condiziona più degli incentivi economici
Ci sono molti comportamenti sociali che tendiamo a dare per scontati ma che non lo sono affatto: per esempio, che persone sconosciute tra loro e ammassate su un autobus o in fila alle poste il più delle volte non finiscano per picchiarsi è un fenomeno che consideriamo normale per degli esseri umani, ma che è abbastanza raro nel regno animale. E ha basi sia biologiche che culturali.
Le interazioni e la collaborazione tra gli individui sono uno dei principali campi di studio delle scienze del comportamento, l’insieme di varie discipline che con metodo scientifico analizzano il comportamento umano e animale. Diversi studi recenti in quest’ambito hanno dimostrato negli ultimi anni come il comportamento cooperativo tra gli esseri umani sia condizionato da fattori a volte trascurati. Per esempio, hanno trovato che la paura di essere screditati agli occhi degli altri avrebbe una maggiore influenza rispetto alla presenza di eventuali incentivi economici alla cooperazione. E anche l’inclinazione a seguire le tendenze, anche quelle relativamente poco diffuse, sembra essere un fattore potente.
Lo studio dei fattori e delle condizioni che influenzano abitualmente il comportamento cooperativo nei diversi contesti sociali è considerato utile perché permette sia di comprendere meglio il comportamento umano in generale, sia di sviluppare strumenti e metodi adatti a migliorare la cooperazione nei contesti in cui è possibile e spesso necessario farlo. Queste conoscenze, come ha scritto il giornalista scientifico Bob Holmes sulla rivista Knowable, potrebbero per esempio essere utili a favorire il genere di collaborazione su larga scala che i tentativi politici di affrontare gravi crisi globali faticano a stimolare.
La collaborazione non è un comportamento ovvio. Le persone che agiscono cooperando tra loro, infatti, ne ricavano sì un vantaggio reciproco, ma sono allo stesso tempo esposte al rischio di sfruttamento da parte di chi beneficia dei vantaggi di far parte della rete sociale senza sostenere alcun costo personale. Un esempio tipico è quello delle tasse, che servono a sostenere i costi di servizi utilizzati da tutta la comunità: sia la parte che contribuisce effettivamente, sia l’altra.
In linea teorica il comportamento individuale più vantaggioso dovrebbe essere quello dello “scroccone”, che beneficia delle risorse collettive senza sostenerne i costi (quello che in economia è definito free rider). Ma se tutti facessero questa valutazione, il vantaggio si perderebbe perché non ci sarebbe più alcuna risorsa condivisa. Le istituzioni, le pratiche e le norme sociali che impediscono la realizzazione di questa eventualità e permettono di vivere in società sono il risultato di un’evoluzione genetica e culturale che in migliaia di anni ha reso la cooperazione stabile un comportamento intelligente tra gli esseri umani, hanno scritto il docente di biologia evolutiva umana alla Harvard University Joseph Henrich e lo studioso di psicologia economica e sociale alla London School of Economics Michael Muthukrishna, in un lungo articolo uscito nel 2021 sulla rivista scientifica Annual Review of Psychology.
Le circostanze mutevoli e le condizioni ambientali, economiche e sociali presenti nei vari luoghi del mondo hanno influenzato l’evoluzione culturale in modo diverso, generando differenti abitudini e norme sociali a sostegno della cooperazione. Fattori come il rischio di subire una punizione, o di essere segnalati e screditati come individui non cooperativi, subendo un danno di reputazione, esercitano quindi un’influenza diversa a seconda dei contesti e generano abitudini diverse. Che è la ragione per cui questi fattori incentivano, per esempio, a lasciare la mancia al ristorante in alcuni paesi e non in altri, oppure a obbedire in modo diverso e più o meno elasticamente alle leggi che regolano la circolazione stradale.
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L’influenza sul comportamento cooperativo esercitata da condizionamenti psicologici e culturali emerge attraverso alcuni esperimenti tradizionalmente utilizzati nella psicologia sociale e in economia utili a misurare il valore attribuito dalle persone ai concetti di equità e fiducia.
Nel cosiddetto “gioco del dittatore”, per esempio, lo sperimentatore dà una certa quantità di soldi al soggetto dell’esperimento (il “dittatore”) e gli dice che può dividerla con un’altra persona che non conosce e non incontrerà mai, e che quindi non ha strumenti di ritorsione contro il dittatore nel caso in cui la somma da lui elargita sia zero.
La letteratura scientifica sugli studi che utilizzano il gioco del dittatore indica che nella maggior parte dei casi il soggetto dell’esperimento condivide i soldi in percentuali variabili, nonostante abbia la possibilità di tenerli tutti per sé. La frequenza di questo comportamento e le percentuali di condivisione dei soldi ricevuti variano a seconda delle norme sociali prevalenti nei diversi contesti culturali, ma le persone tendono a condividere una quantità di soldi comunque non nulla anche nelle società in cui il senso di equità sociale è meno affermato.
Le percentuali tendono a essere più alte nel caso di un altro esperimento, il “gioco dell’ultimatum”, che prevede che la persona con cui il dittatore può decidere di dividere la propria somma possa rifiutarla (perché troppo bassa) e far saltare la negoziazione, con il risultato che nessuno riceve niente e lo sperimentatore si riprende i soldi. Tra i due, il primo gioco – quello del dittatore – è considerato più adatto a misurare attitudini non condizionate da alcune variabili note, come appunto il timore di una ritorsione e quindi l’inclinazione del soggetto a condividere equamente la somma.
Il gioco del dittatore propone un tipo di dilemma che può presentarsi spesso anche in contesti non sperimentali. Una tipica situazione reale che pone il soggetto in questa condizione – ma fino a un certo punto – è il caso della mancia al ristorante. Dal momento che viene lasciata (o non lasciata) alla fine del pasto e del servizio, la scelta di dare la mancia non è subordinata alla paura che il personale possa rifarsi contro il cliente che non la lascia fornendogli un servizio peggiore. Ma già la situazione cambia parecchio se la persona è un cliente abituale di quel ristorante e se è una persona del luogo, eventualità che fa venire meno una condizione essenziale del gioco (il dittatore non conosce e non incontrerà la persona che può ricevere o no una parte della somma).
L’aspettativa di un mutuo soccorso reciproco in circostanze future è spesso un fattore alla base della cooperazione nei gruppi molto piccoli, in cui esistono legami familiari o di amicizia tra persone che si frequentano e interagiscono spesso. Ma al crescere del gruppo crescono anche le probabilità di avere a che fare con persone con cui non si è mai avuto a che fare prima e con cui non si avrà più a che fare dopo. E in quel caso, secondo gli studi, uno dei fattori più potenti nel condizionamento del comportamento cooperativo è la reputazione: si tende a scegliere di avere a che fare con chi, anche se non conosciuto direttamente, ha una reputazione di persona che fa la propria parte (e non quella di “scroccone”) e quindi essere cooperativi diventa vantaggioso.
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Quando poi non è possibile nemmeno contare sulla reputazione, perché il gruppo è troppo grande per tenere traccia di quella di tutti, la cooperazione dipende dalle norme sociali, cioè dalle aspettative su come in generale ci si dovrebbe comportare in società. Le aspettative tendono a essere interiorizzate e a esercitare un’influenza anche quando non c’è il rischio di una ritorsione: è generalmente sufficiente la paura che la trasgressione di una norma porti a una disapprovazione sociale e a un danno di reputazione. Questa eventualità limiterebbe le possibilità di collaborazioni future, quantomeno con le persone del gruppo in cui viene compiuta la trasgressione.
Secondo uno studio della Yale e della Harvard University, pubblicato nel 2015 sulla rivista Current Opinion in Behavioral Sciences, gli incentivi al comportamento cooperativo che si concentrano sulla reputazione sono spesso più efficaci anche rispetto agli incentivi economici. Rendere pubblico il comportamento cooperativo delle persone – la donazione del sangue, per esempio – tende a incrementare la loro inclinazione a cooperare più di quanto la incrementino le ricompense in denaro o di altro tipo (gadget e magliette).
I risultati di uno studio condotto su 782 persone residenti in Germania, pubblicato nel 2022 sulla rivista PLOS One, hanno mostrato che gli incentivi economici hanno avuto un’efficacia limitata, per esempio, riguardo all’intenzione delle persone di ricevere il vaccino contro il coronavirus. E che un aumento significativo del tasso di vaccinazione avrebbe richiesto incentivi individuali troppo cospicui (da 3.250 euro a salire), rendendo questa misura di difficile attuazione.
Esiste inoltre il rischio che gli incentivi economici siano controproducenti rispetto alla necessità di incentivare il comportamento cooperativo, ha detto a Knowable Erez Yoeli, ricercatore in scienze del comportamento presso la Sloan School of Management del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Proporre un premio per la propria disponibilità a cooperare potrebbe infatti indebolire la reputazione di chi lo accetta suggerendo al gruppo che le motivazioni di quella persona siano stimolate da un tornaconto aggiuntivo rispetto a quello derivante dalla cooperazione in sé.
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Allo stesso modo, il rischio che qualcuno renda pubblico un comportamento antisociale e quindi leda la reputazione della persona “spifferando” la sua condotta è anche uno dei più potenti disincentivi alla trasgressione delle norme sociali: anche più della paura di subire una punizione (la ritorsione del ricevente nel gioco dell’ultimatum). È un condizionamento che alcune ricerche hanno riscontrato e misurato attraverso un altro tipo di esperimento, noto in economia comportamentale come “dilemma dei beni pubblici”.
In pratica, il gioco prevede che a ciascun partecipante sia data una certa somma e che ciascuno possa scegliere se tenerla per sé o condividerla – tutta o in parte – versandola in un fondo comune. Ciascun partecipante non sa cosa faranno gli altri, ma sa che l’importo complessivo del fondo sarà poi raddoppiato dallo sperimentatore e che il fondo sarà ridistribuito equamente tra tutti i partecipanti, a prescindere dal loro contributo individuale. Chiaramente il gruppo ottiene il massimo guadagno se tutti investono per intero la somma ricevuta, ma un ipotetico free rider (lo scroccone) potrebbe teoricamente guadagnare di più: terrebbe i soldi per sé e in più riceverebbe una quota legata a quanto gli altri avranno condiviso.
Nel 2016 tre ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam utilizzarono una particolare variante del gioco dei beni pubblici in uno studio di psicologia condotto su un gruppo di 265 partecipanti statunitensi volontari. Erano previsti quattro turni diversi di gioco con partner diversi ogni volta. E tra un turno e l’altro ad alcuni partecipanti era data la possibilità di punire l’eventuale scroccone del loro gruppo più recente pagando di tasca propria una somma a loro scelta: gli sperimentatori avrebbero triplicato quella somma per stabilire l’importo della multa che avrebbero inflitto allo scroccone. Ad altri partecipanti in altri turni era invece data semplicemente la possibilità di far sapere dello scroccone ai suoi futuri partner di gruppo nel turno subito successivo.
I risultati mostrarono che i partecipanti cooperavano di più – cioè contribuivano con somme maggiori ottenendo maggiori guadagni individuali – quando era data la possibilità di spifferare della presenza dello scroccone che non quando era data la possibilità di infliggergli una multa. I ricercatori scoprirono che le persone tendono a controllare e valutare il comportamento degli altri, e a condividere volentieri le loro valutazioni con terzi soggetti. E conclusero che strutturare gruppi e comunità in modo da promuovere la possibilità di rendere nota la reputazione dei trasgressori delle norme sociali può migliorare la cooperazione. È inoltre un modo sia più efficace che più efficiente rispetto alla punizione (la multa), perché comporta costi minori e abbastanza ridotti in assoluto. E favorisce tra l’altro valutazioni e discussioni utili a rafforzare le norme sociali e a coordinare la risposta collettiva alle violazioni.
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Un altro fattore che tende a condizionare l’inclinazione a cooperare è l’informazione riguardo alle tendenze effettive presenti all’interno del gruppo riguardo all’adesione a una certa norma sociale. La filosofa della University of Pennsylvania Cristina Bicchieri, che si occupa di ricerca sull’etica del comportamento e l’evoluzione delle norme sociali, distingue tra «aspettative empiriche», ciò che ci aspettiamo che gli altri facciano, e «aspettative normative», cosa crediamo che gli altri pensino che dovremmo fare. E sulla base di diversi esperimenti condotti per uno studio del 2008 ritiene che, in caso di conflitto tra questi due tipi di aspettative, quelle empiriche tendano a essere più influenti.
In uno degli esperimenti dello studio fu detto ad alcuni partecipanti al gioco del dittatore che gli altri partecipanti avevano condiviso la loro somma di denaro, mentre ad altri fu detto che i partecipanti pensavano che tutti dovessero condividere la somma: soltanto il primo messaggio aumentò le probabilità di condivisione. Il messaggio attraverso cui si cerca di incentivare un certo comportamento collettivo, secondo Bicchieri, può essere determinante. E alcuni messaggi, per quanto ben intenzionati, possono essere controproducenti.
Dire, per esempio, che la maggior parte delle persone sta cercando di ridurre la frequenza con cui prende l’aereo (ammesso che sia un comportamento che si vuole incentivare) è più efficace che dire alle persone di prendere meno spesso l’aereo. Perché dire che dovrebbero fare una certa cosa, secondo Bicchieri, può generare in loro il sospetto che in realtà le persone non stiano facendo quella cosa.
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L’informazione sulle aspettative empiriche può essere influente anche “involontariamente”, riguardo a comportamenti che non si intende promuovere. Sapere che una certa quantità più o meno ampia di persone non paga le tasse e che magari quella quantità è in aumento, per esempio, può ridurre l’inclinazione del soggetto ad aderire alla norma. Un’informazione sui livelli crescenti di evasione fiscale, afferma Bicchieri, tende infatti a favorire l’impressione che una violazione della norma in più o in meno non faccia poi molta differenza. Al contrario, descrivere un certo comportamento virtuoso – cioè aderente alla norma sociale – come parte di una tendenza favorisce la popolarità di quel comportamento, anche se riguarda una minoranza di persone.
In uno studio pubblicato nel 2008 sulla rivista Journal of Consumer Research i ricercatori misurarono l’efficacia di diversi messaggi che incoraggiavano gli ospiti di un hotel a riutilizzare i propri asciugamani anziché riceverli freschi di bucato ogni giorno. Il messaggio che chiedeva di «mostrare rispetto per la natura» aderendo al programma di riutilizzo degli asciugamani incentivava la cooperazione meno del messaggio che riferiva della percentuale di altri clienti che avevano già scelto di aderire al programma.
Diversi studi indicano inoltre che gli esseri umani tendono a imitare il comportamento degli altri anche se quel comportamento è minoritario, purché esista una tendenza in aumento ad attuarlo e quella tendenza sia resa nota. Limitarsi a dire che il 15 per cento delle persone installa i pannelli solari, per esempio, normalizza il fatto che l’85 per cento non li installa. Ma, a parità di condizioni empiriche, se quella percentuale è in aumento rispetto a una condizione precedente, e se questo fatto viene comunicato, l’efficacia del messaggio cambia. «Non serve a niente dire che c’è una minoranza che si comporta bene, ma cambia molto le cose dire che c’è una minoranza che ha cominciato a comportarsi bene», ha detto Bicchieri.
In un esperimento condotto per uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Social Psychological and Personality Science i ricercatori misurarono la quantità di acqua utilizzata dai partecipanti mentre si lavavano i denti. Quelli a cui veniva detto che una piccola ma crescente quantità di persone stava riducendo il consumo di acqua ne utilizzavano meno rispetto ai partecipanti a cui veniva soltanto comunicata la percentuale di persone che avevano ridotto il consumo di acqua.