Uno dei più celebri “cold case” della storia italiana
Le indagini sulla morte di Wilma Montesi coinvolsero politici ed esponenti della nobiltà romana, ma non arrivarono mai a una conclusione
di Stefano Nazzi
Wilma Montesi uscì dalla sua casa a Roma alle 17 di giovedì 9 aprile 1953. Sarebbe dovuta tornare prima di cena. Alle 23 non era ancora tornata e la famiglia denunciò la scomparsa. Alle 7:30 dell’11 aprile il suo corpo fu trovato sulla spiaggia di Torvaianica, a 35 chilometri da Roma. Non indossava calze, scarpe, gonna e reggicalze.
Il “caso Montesi” è uno dei cold case, cioè vecchi delitti non risolti, più celebri della storia d’Italia. Coinvolse politici molto noti, attrici, nobili romani e fu utilizzato per regolamenti di conti interni al partito che allora governava il paese e che lo avrebbe fatto ancora per molti anni: la Democrazia Cristiana. A distanza di 70 anni ancora oggi non si sa esattamente come morì Montesi, chi era con lei e che cosa accadde nelle sue ultime ore di vita.
Quando scomparve aveva 21 anni. Viveva in via Tagliamento 76, in zona Trieste, poco lontano dal quartiere Coppedè. Abitava con il padre Rodolfo, falegname, la madre Maria Petti, casalinga, la sorella Wanda e il fratello Sergio, entrambi più piccoli di lei. Era fidanzata con un agente di polizia che lavorava a Potenza, in Basilicata, Angelo Giuliani. Avrebbero dovuto sposarsi presto.
A dire che Wilma Montesi quel giorno uscì di casa verso le 17 fu la portinaia dello stabile di via Tagliamento. La madre e la sorella in quel momento erano al cinema. Sempre secondo la portinaia, Montesi indossava scarpe col tacco e una giacca di tweed, ma non aveva gioielli, che infatti furono trovati sul comò della sua camera.
La sorella e il padre andarono al commissariato di polizia a denunciare la scomparsa di Montesi poco dopo le 23 del 9 aprile. Il padre ipotizzò che potesse essere fuggita oppure che potesse essersi suicidata perché in realtà non voleva sposarsi e trasferirsi a Potenza dove lavorava il fidanzato a cui il padre, il 10 aprile, spedì due telegrammi. Nel primo scrisse:
Wilma scappata di casa – Non conosco i motivi.
Il testo del secondo era:
Prevedesi suicidio – Stai calmo – Vieni subito.
Il corpo di Montesi venne trovato alle 7:30 dell’11 aprile. Un diciassettenne, manovale, stava percorrendo la litoranea a Torvaianica per andare a lavorare in una villetta in costruzione. Vide il corpo, scese in spiaggia e scoprì il volto che era coperto dalla giacca rivoltata sopra la testa. Poi chiamò aiuto. Alle dieci arrivò sul posto un medico, Agostino Di Giorgio, che dopo i primi rilievi disse che il decesso era avvenuto tra le 12 e le 18 ore prima e che la causa era annegamento. Montesi era quindi morta annegata tra le 16 e le 22 del 10 aprile.
L’autopsia si svolse il 14 aprile e rilevò che Montesi non aveva subìto violenza sessuale. Sul corpo però presentava alcuni segni: escoriazioni sul volto e lividi sulle gambe. Secondo il medico che fece l’autopsia i segni sul volto erano dovuti allo sfregamento mentre il corpo era in acqua. Gli esami confermarono quanto detto da Di Giorgio, Montesi era annegata. I verbali certificarono che indossava giacca, maglione, reggiseno, sottoveste e slip. Mancavano la gonna, le scarpe, le calze e il reggicalze, un indumento chiuso sui lati da cinque piccoli ganci: difficilmente poteva togliersi durante la permanenza del corpo in acqua.
La polizia disse ai cronisti che seguivano il caso che l’ipotesi più probabile era quella del suicidio.
Il pomeriggio del 13 aprile in via Tagliamento 76 si presentò una donna, dicendo di aver letto la notizia sui giornali e di essere sicura di aver visto Montesi alle 17:30 salire sul treno per Ostia alla stazione di Piramide. Solo allora la sorella Wanda sembrò ricordarsi che quel giorno, il 9 aprile, Montesi aveva detto che avrebbe avuto bisogno di immergere i piedi nell’acqua del mare, visto che soffriva di dermatite. L’altra ipotesi formulata, oltre a quella del suicidio, fu quindi che Montesi si fosse sentita male in riva al mare mentre stava immergendo i piedi in acqua e che poi la corrente l’avesse trascinata da Ostia a Torvaianica, a circa 15 chilometri di distanza. Gli investigatori sembrarono propendere per questa seconda ipotesi.
Il giorno del funerale la famiglia ricevette una lettera in cui si diceva che Montesi era stata uccisa da uno spasimante, che non accettava il suo matrimonio con il fidanzato poliziotto. Da questo punto in poi si cominciò a capire che il caso non riguardava solo una ragazza ordinaria, figlia di un falegname, ma che in qualche modo c’entrava anche la politica.
Bisogna però inquadrare la morte di Montesi nel contesto di quel periodo storico. Il 7 e l’8 giugno 1953 ci sarebbero state le elezioni politiche. Le avrebbe vinte la Democrazia Cristiana, come già avvenuto nel 1948, con i suoi alleati, il Partito Repubblicano, il Partito Liberale e il Partito Socialdemocratico: insieme i quattro partiti raggiunsero il 49,85% dei voti.
Il 4 maggio 1953 il quotidiano napoletano Roma scrisse che una decina di giorni prima del 9 aprile Wilma Montesi era stata vista intorno a Torvaianica in compagnia del «figlio di una nota personalità politica governativa». Il giorno dopo, un settimanale satirico di destra, Il merlo giallo, scrisse: «Dopo tutto le note personalità cui allude il Roma non sono poi tante e non possono nemmeno sparire senza lasciare tracce come i piccioni viaggiatori». Chi seguiva la politica all’epoca capì immediatamente l’allusione ad Attilio Piccioni, vice presidente del Consiglio e segretario nazionale della Democrazia Cristiana dal 1946 al 1949, molto vicino all’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi e in contrapposizione alla nuova corrente di democristiani di cui Amintore Fanfani, più giovane di Piccioni, era a capo.
Dopo l’estate sui giornali cominciarono a comparire i primi articoli che criticavano le indagini. Nelle redazioni iniziò a circolare l’ipotesi secondo cui nella morte della ragazza fosse coinvolto Piero Piccioni, musicista jazz con il nome d’arte di Piero Morgan e figlio di Attilio Piccioni, che in quelle settimane era in procinto di essere nominato a capo del governo. Tuttavia le voci su un possibile coinvolgimento di suo figlio nel caso Montesi, per quanto non confermate, lo danneggiarono. L’incarico di presidente del Consiglio venne affidato a Giuseppe Pella, anche lui democristiano.
Il 16 ottobre del 1953 uscì in edicola un nuovo settimanale scandalistico, Attualità. Nel primo numero il direttore Silvano Muto scrisse che la morte di Montesi, archiviata frettolosamente come incidente, era avvenuta in realtà durante un festino a base di sesso e droga nella villa del marchese Ugo Montagna a Capocotta, sul litorale tra Castel Porziano e Torvaianica. A quel festino e anche ad altri precedenti sempre in quella tenuta avrebbero partecipato politici, militari d’alto grado, persone appartenenti alla nobiltà romana. Secondo questa versione Montesi si sarebbe sentita male per l’eccessivo consumo di stupefacenti e sarebbe stata abbandonata, ancora viva, sulla vicina spiaggia di Torvaianica, per evitare lo scandalo.
Silvano Muto venne subito denunciato per aver diffuso notizie false. Lui ritrattò, disse che si era inventato tutto. Nel gennaio del 1954 iniziò il processo a suo carico e lui, a sorpresa, ritrattò ancora e disse di aver saputo delle feste nella tenuta di Capocotta da una ragazza, Adriana Concetta Bisaccia, arrivata a Roma da Avellino con il desiderio di lavorare nel mondo del cinema. Bisaccia al processo non confermò quanto detto da Muto e anzi disse che il giornalista voleva diventare «eroe nazionale a mie spese».
Il clamore sembrava rientrato quando emerse il racconto di un’altra donna, la 25enne Maria Moneta Caglio, milanese, anche lei a Roma per fare l’attrice. Era arrivata con una lettera di presentazione del padre, notaio e politico democristiano, che avrebbe dovuto aiutarla a introdursi negli ambienti cinematografici romani.
A Roma, Moneta Caglio conobbe il marchese Montagna, con cui ebbe una relazione. Ascoltando certi discorsi del marchese Caglio si convinse che Montesi era morta davvero durante una festa nella tenuta di Capocotta. Riferì agli investigatori di aver capito che Montesi aveva avuto un malore durante la festa e che uno dei partecipanti, Piero Piccioni, amico del marchese, l’aveva portata al mare con l’aiuto dei guardiani della tenuta e lasciata lì. Moneta Caglio disse che sia Montagna che Piccioni erano amici del capo della polizia, Tommaso Pavone, che aveva fatto di tutto per insabbiare l’indagine con la collaborazione di Saverio Polito, questore di Roma.
Il racconto di Maria Moneta Caglio, che la giornalista Camilla Cederna soprannominò “Cigno nero” per via del collo lungo e dei maglioni neri indossati, suscitò grande scalpore e occupò per settimane le cronache di giornali. La procura di Roma decise di riaprire l’indagine e vennero esaminati nuovamente i risultati dell’autopsia. La conclusione fu la stessa: morte accidentale.
Moneta Caglio intanto aveva consegnato alla procura un memoriale, in cui scrisse:
Ho motivo di ritenere che qualche convegno, a sfondo orgiastico, deve essere avvenuto a Castel Porziano e non a Capocotta che conosco bene e dove non c’è luogo adatto; non nella tenuta del Presidente della Repubblica in cui non si può assolutamente entrare perché i cancelli sono chiusi ma forse nella tenuta dei Conti Campello che è attigua alla Capocotta e il cui cancello, sulla strada verso il mare è sempre aperto […]. Il due o tre novembre del 1953, parlando con il mio buon amico tal Romano Cirillo ho espresso a lui il mio rammarico per quanto avevo appreso dalla rivista Attualità […]. Il giovane Cirillo disse di saper anche lui qualcosa sul Montagna e finì per confidarmi di aver appreso che circa dieci giorni prima verso mezzogiorno al bar Canova, una certa Gioben Jo (in realtà si chiamava Jole Giovine) era stata invitata da Ugo Montagna e Piero Piccioni e uno della Polizia del quale non mi fu indicato il nome ad andare alla Capocotta, che lì avevano giocato a carte e fatto cose innominabili.
Intervistata dal quotidiano Il Giorno nel 2015, Moneta Caglio disse: «Io non so come morì effettivamente Wilma Montesi. Come dissi sempre, io non c’ero, riferivo solo quello che mi diceva Ugo».
Il 19 settembre del 1954 Attilio Piccioni, all’epoca ministro degli Esteri, diede le dimissioni. Il 21 settembre il figlio Piero venne arrestato insieme a Ugo Montagna con l’accusa di omicidio colposo.
Il caso venne riaperto, la procura di Roma chiese nuove perizie. Le conclusioni confermarono che Montesi non aveva subìto violenza, che la sabbia trovata sul corpo non era quella di Ostia, ferrosa, ma quella di Torvaianica, e che le correnti non avrebbero potuto trasportare il cadavere da Ostia alla spiaggia dove era stata trovata, oltretutto togliendole alcuni vestiti. Secondo il presidente della Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Roma, Raffaele Sepe, Montesi era annegata ma qualcuno l’aveva lasciata nell’acqua quando era ancora viva.
Sempre nel 1954 il quotidiano romano Il Messaggero ipotizzò che a essere coinvolto nella morte della ragazza potesse essere lo zio, Giuseppe Montesi, che era molto affezionato alla nipote e la spingeva a rompere il fidanzamento con il poliziotto. Giuseppe Montesi inizialmente si rifiutò di dire dov’era il giorno della scomparsa della nipote, poi diede un alibi che venne confermato: era in compagnia della sorella della sua fidanzata.
Anche Piccioni aveva un alibi. Nei giorni precedenti alla scomparsa di Montesi era a Ravello, sulla costiera amalfitana, con l’attrice Alida Valli. Era tornato a Roma il pomeriggio del 9 aprile e si era messo a letto perché aveva un forte mal di gola. Era stato visitato alle 18 da un medico e alle 21 un’infermiera era andata a casa sua per fargli un’iniezione. Piccioni e Montagna furono liberati dopo 54 giorni di carcere. Vennero comunque rinviati a giudizio, Piccioni per omicidio colposo e Montagna per concorso in omicidio colposo. Venne rinviato a giudizio anche il questore Polito, accusato di favoreggiamento, e altre 14 persone per spaccio di stupefacenti. Il processo venne spostato a Venezia perché a Roma non sarebbe stata garantita l’imparzialità.
Piccioni, Montagna, Polito e gli altri imputati vennero assolti con formula piena. Maria Moneta Caglio e Silvano Muto furono riconosciuti colpevoli di calunnia nei confronti di Piccioni, Montagna e Polito e condannati in via definitiva, rispettivamente a due anni e due anni e quattro mesi di reclusione.
Dopo 70 anni le circostanze della morte di Wilma Montesi restano ancora sconosciute. Il giornalista Pasquale Ragone ha scritto un libro, uscito nel 2015 e intitolato La verginità e il potere, in cui sostiene che Montesi sia morta durante un incontro con una persona di cui si fidava ma che non c’entrava nulla con il contesto politico e aristocratico di cui si è parlato per anni.
Nel 1987 i giornalisti Indro Montanelli e Mario Cervi scrissero di ritenere improbabile che Montesi il 9 aprile di 34 anni prima fosse uscita di casa per andare a una festa, perché sia la sua sottoveste che l’intimo erano lisi e rammendati. Non li avrebbe mai indossati sapendo che potevano essere visti. A indagini e processo conclusi si seppe che durante l’autopsia i medici legali non le avevano fatto le analisi del sangue, limitandosi a escludere la presenza di sostanze stupefacenti nello stomaco.