Manca la carta, e anche l’inchiostro
«Da moltissimo tempo sgomito per affermare diritti che arrivano con il possesso di altri passaporti, più potenti. Mi porto da sempre addosso un senso di ingiustizia che gli anni hanno trasformato in frustrazione, diffidenza, rabbia. Il mio confine geografico è definito e ristretto dal documento che mi rappresenta»
A gennaio ho ricevuto una notizia che mi ha gettato nel panico: avevo vinto una residenza negli Stati Uniti, e mi veniva chiesto di partire a inizio aprile. Siccome le notizie belle in momenti assolutamente inopportuni arrivano sempre in compagnia, qualche giorno dopo mi viene proposto di partecipare a un festival letterario a New York, e nel giro di qualche settimana l’ambasciata americana mi candida per un’altra residenza, questa volta in Iowa. Nessuno di questi tre soggetti capisce il mio tono distaccato, rassegnato già alla prospettiva di dover chiedere un visto. Difficilissimo da ottenere per qualcuno con un passaporto come quello dello Sri Lanka che ha un indice di mobilità pari a 54, in confronto al 173 del paese in cui avrei avuto atterrare — qualcuno, ingenuo, mi ha fatto sapere che per l’ESTA è necessario appena qualche giorno. Non ho mai messo piede più a ovest della Spagna e raramente più a nord dell’area Schengen: ho al collo un guinzaglio che tira. Forse per completezza vale la pena anche aggiungere che sulla mia carta d’identità, da più di vent’anni, è stampata la dicitura «non valida per l’espatrio» e, oltretutto, la pagina anagrafica del mio passaporto mi informava di essere un po’ più che carta straccia dal 2021. Complice una pandemia globale, avevo concentrato tutte le mie attività di scrittrice in Italia, e avevo glissato la manciata di inviti ricevuti da oltreconfine.
Ho avuto un’iniziazione precoce alla burocrazia: ricongiungimento famigliare, passaporto, permesso di soggiorno, autorizzazioni a viaggiare non-accompagnata (non di rado respinte alla frontiera aeroportuale — perché non tradotti, con il nome sbagliato, non legalizzati). Il che significa che da moltissimo tempo sgomito per affermare diritti che arrivano con il possesso di altri passaporti, più potenti. Significa anche che mi porto da sempre addosso un senso di ingiustizia che gli anni hanno trasformato in frustrazione, diffidenza, rabbia. Il mio confine geografico è definito e ristretto dal passaporto che mi rappresenta. Il documento di viaggio, il documento di soggiorno, i visti che non otterrò, mi precedono e mi sono sintesi.
Come ogni coetaneo millennial nei momenti più bui ho chiesto a internet di rassicurare le mie ansie che mi suggerivano che non avrei potuto partire per la residenza dei miei sogni. Ho vagato per ore sulle pagine Facebook di consolati e ambasciate dello Sri Lanka sparse in Europa — molti sostenevano di rinnovare il passaporto nel giro di un mese, alcuni con metodi (come la richiesta via posta raccomandata, con sistemi di tracking) che mi parevano innovativi. In Italia ci si deve armare di pazienza e andare di persona al Consolato di Milano o all’Ambasciata di Roma, con alla mano un modulo trilingue debitamente compilato e firmato, e 4 fotografie in cui si vedano bene le orecchie. Mia madre vive qui da abbastanza a lungo per raccontarmi di come non si sia mai resa conto delle distanze sulla penisola fino a quando non ha dovuto prendere un intercity notturno per andare nella capitale per rinnovare il passaporto. I tempi però sono cambiati di nuovo, e se fino a due anni fa si poteva ottenere un nuovo documento di viaggio anche nel giro di un mese, la crisi economica e politica del 2022 in Sri Lanka ha invertito la rotta per un paese che solo poco più di due anni prima era la destinazione dell’anno di Lonely Planet. Il guinzaglio, in poche parole, si è accorciato di nuovo.
Succede che una mattina ti svegli e che il posto che chiami casa è fallito: gli stati sono così, entità precarie e fragili. Lo scorso aprile il governo dello Sri Lanka ha dovuto dichiarare default, non essendo in grado di ripagare gli interessi di 78 milioni di dollari sull’esorbitante debito pubblico. La dichiarazione preventiva serviva anche per conservare le riserve di valuta estera in modo da poter far fronte alla carenza di beni d’importazione. La crisi, innescata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, ma anche da prestiti esteri — in particolare dalla Cina — per il finanziamento di progetti ciclopici (uno su tutti, il porto internazionale di Hambantota) hanno poi portato a un crollo della valuta e alla scarsità di materie prime, tra cui cibo, medicine e carburante. Così, tra proteste durate mesi, un primo ministro dimissionario e suo fratello presidente fuggito alle Maldive a bordo di un jet privato, e manifestanti che fanno il bagno nella residenza presidenziale, si è consumata una tragedia politica.
A un paio di continenti di distanza gli effetti di quella crisi m’investono, certo, in maniera più trascurabile, mentre, insieme a tutto il necessario per il rinnovo del passaporto, raccolgo pure il coraggio di parlare in sinhala con un’autorità dopo almeno un decennio. Optare per l’italiano è escluso — i dipendenti non lo parlano — e temo che l’inglese potrebbe farmi apparire come una snob, quindi l’uomo seduto alla reception deve attribuire a difficoltà di udito i continui «sorry, mata ahunne naha» che infilo di tanto in tanto nella conversazione.
«Dovevi portare le fotocopie di tutto», mi informa, «Noi non le facciamo, ma qui vicino c’è un copy kadeyak». Gli uffici consolari sono a metà strada tra Lampugnano e Quarto Oggiaro, in una traversa dietro viale Certosa, a Milano. Quando esco in cerca di una copisteria su Google Maps, trovo invece un service point srilankese sulla via principale che offre servizi di compilazione del suddetto modulo, scatta foto per il passaporto, e all’occasione sta in fila per te all’ambasciata.
Quando mi ripresento al videocitofono del complesso di uffici, davanti al cancello c’è una signora. «Roti, wade, rolls», cantilena agli srilankesi che stanno uscendo. Constato che è passata la mia ora di pranzo, e che non mangio dei patties dall’ultima volta che mia madre ha mandato i soldi ai suoi genitori. «Kiyakda rolls ekak?», chiedo occhieggiando il carrellino della spesa che ha ai piedi. «Elawalu roll euro ekak», risponde piazzandomi tra le mani un roll di verdure avvolto in un tovagliolo. Con un gesto speculare e sincronizzato le porgo una moneta da un euro. Mentre lo mangio, seduta su una delle sedie imbottite lungo il corridoio, mi rendo conto che in fila, sì, ci sono molti singalesi, ma anche diversi tamil e musulmani — mi piace pensare che quel campionario umano sia lo specchio di quindici anni di pace. È un pensiero che distende il guinzaglio. Molti hanno bambini al seguito, anche molto piccoli, probabilmente per registrare le nascite all’estero.
Quando arriva il mio turno, a un’ora e mezza di distanza, l’impiegato raccoglie, firma, timbra, pinzetta i miei documenti e mi chiede con voce meccanica i 140 euro di fee. Gli porgo il bancomat, illudendomi di essermela cavata in un lasso di tempo più che accettabile: «Only cash», ribatte. Esco, prelevo, rientro e pago only cash. «Wadiwenna oyage nama announce karanakan», mi intima incassando il denaro. Mi siedo studiando per la successiva ora e mezza ogni dettaglio della ricevuta gialla e trilingue che mi ha rilasciato. «Mrs. Nadeesha Dilshani», annunciano quando ormai nell’ufficio sono rimaste solo una ventina di persone. «Photos clear naha», Only Cash mi mostra il punto in cui si intravedono le mie orecchie, «Ai photos aragena heta enna. Application eka yawanne friday», mi propone conciliante di ritornare l’indomani, una volta assicuratosi che non sia giunta lì da un’altra regione. Mi ripresento il giorno successivo, non senza aver tediato una fotografa con le mie orecchie eccessivamente attaccate al cranio: di nuovo non sono soddisfatti, ma accettano la richiesta.
A febbraio, un mese dopo, del passaporto non ho notizie e il guinzaglio quasi mi soffoca — il pensiero del visto da richiedere mi ossessiona. Chiedo a un conoscente che è in Sri Lanka in ferie se può andare all’Ufficio di Colombo per informarsi della situazione. «Dicono che la tua application non è stata ancora inviata da Milano», mi riferisce. Naturalmente alla mia email pacatamente piccata il Consolato risponde assicurandomi che la domanda di rinnovo è stata spedita, e, data l’urgenza del caso, mi suggeriscono di scrivere al Dipartimento Immigrazione ed Emigrazione di Colombo — di cui però non possono darmi il contatto («Google karanna»), né possono sollecitare direttamente.
Per la prima volta dalla fine della guerra civile nel 2009, i parenti e conoscenti che annovero tra gli amici su Facebook ricominciavano a chiedermi delle possibilità di emigrare in Italia: mi ha scritto la penultima delle mie cugine, impiegata amministrativa; mi ha inviato un messaggio un’amica di famiglia, che si era costruita una vita di relativo agio quando il marito aveva ottenuto un visto di lavoro di una manciata di anni in Giappone; uno zio mi chiedeva il parere sulla rotta che, a detta sua, andava per la maggiore — arrivare in Romania, fermarsi un anno, e poi tentare di sconfinare. Era frustrante, e mi sembrava uno scherzo del destino: ovunque fossimo, il nostro guinzaglio era sempre troppo corto.
La scorsa estate, fuori dai quartieri generali dell’Immigration and Emigration Department, per due giorni migliaia di persone si sono ammassate in fila per ottenere un passaporto e, con quello, la possibilità di lasciarsi alle spalle un paese nella sua peggiore crisi economica dall’Indipendenza. Secondo Reuters nei primi cinque mesi del 2022 lo Sri Lanka ha stampato 288.645 passaporti, tre volte il numero di quelli emessi nello stesso periodo l’anno precedente. Il governo sembra voler supportare i lavoratori che sperano di emigrare: ricevo per messaggio lo screenshot di un’informativa dello Sri Lanka Bureau of Foreign Employment che rimanda a una pagina dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, «Assumere lavoratori non comunitari anno 2023». È così che si materializza il guinzaglio, quando la speranza è barattata con un’esigenza economica, quando l’illusione di un’opportunità ti trasforma in capitale umano. Siamo immigrati, in fin dei conti, non possiamo permetterci di avere ideali. Si stima che lo scorso anno 310mila lavoratori abbiano lasciato il Paese, un numero che potrebbe incrementare le rimesse estere che, stando ai dati della Banca Centrale dello Sri Lanka, si sono dimezzate nel giro di un paio di anni.
Prima di scrivere una lettera al dipartimento di competenza, mando un messaggio WhatsApp a mio cugino che vive a Dubai, sperando che conosca un impiegato dell’ufficio passaporti. «Devo rinnovare anche il mio», mi risponde, «Ma pensavo di andare in Sri Lanka a farlo, perché da qui mi dicono che ci vogliono almeno tre mesi. Dicono che di questi tempi manca la carta anche per stampare i documenti di viaggio, per non parlare dell’inchiostro». Lo scorso aprile Upali Wanigasuriya, la presidente dell’Associazione Nazionale degli Editori, lamentava la crisi del settore proprio a causa della mancanza di carta. La situazione era così seria che il Ministero dei Trasporti aveva proposto di sostituire la patente con un QR code.
Alla fine, ho inviato tre email al Dipartimento Immigrazione ed Emigrazione di Colombo, allegando le lettere di invito dagli Stati Uniti per sottolineare l’urgenza, senza ricevere nessuna risposta. Ho cercato di contattarli su Twitter e Facebook. Al costo di sembrare una stalker, ho chiesto il collegamento su LinkedIn a un buon numero di dipendenti del Dipartimento. Alla fine lo stesso Consolato di Milano mi ha informata di «aver separatamente inoltrato» la mia richiesta all’ufficio che in precedenza mi aveva detto di non poter sollecitare direttamente.
A quasi tre mesi di distanza, del mio passaporto non c’è traccia. Il guinzaglio mi strattona e mi confina.