Non sappiamo cosa fare con i centri commerciali abbandonati
Ce ne sono molti soprattutto al Nord e recuperarli è molto complicato, per via dei costi elevati e dei limiti architettonici
di Isaia Invernizzi
Non si può dire che i tre piani dell’Orceana Park siano vuoti. Pezzi di vetro, calcinacci, cavi elettrici, tavole di legno e rifiuti di ogni genere occupano i grandi spazi del centro commerciale abbandonato nella periferia di Orzinuovi, in provincia di Brescia. Aveva trenta negozi, due ristoranti, un bowling e una multisala cinematografica. Sono durati poco: l’Orceana Park è stato aperto nel 2009 e ha chiuso nel 2012. Da allora è diventato un simbolo dei non-luoghi abbandonati, inutilizzati, distrutti dal tempo e dal vandalismo.
È perfetto per i writer o per gli youtuber specializzati nell’esplorazione di edifici diroccati. Qualche anno fa venne visitato da architetti e urbanisti durante una gita organizzata da Padania Classics, un progetto di ricerca visiva nato nel 2010 per raccontare il paesaggio contemporaneo padano, le sue architetture e le persone che ci abitano. Sono gli unici modi in cui l’Orceana Park è stato utilizzato negli ultimi anni. Ora nessuno sa cosa farne.
Non è un caso strano o particolarmente disgraziato. Nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia e in Veneto, i centri commerciali dismessi sono molti. Quelli aperti da un po’ invecchiano in fretta, servono troppi soldi per mantenerli attraenti, e i clienti si spostano altrove. Quando chiudono è molto complicato recuperarli per via di come sono stati progettati spazi e servizi.
Negli Stati Uniti, dove supermercati e centri commerciali si sono sviluppati prima rispetto al resto del mondo, è un problema noto: da almeno due decenni si discute di come convertire i dead mall, cioè i “centri commerciali morti”. In Italia, invece, finora comuni e istituzioni se ne sono occupati poco. Si continuano a costruire nuovi enormi edifici con centinaia di negozi senza considerare cosa succederà dopo, quando presto o tardi diventeranno vecchi e verranno superati.
In Italia i primi centri commerciali furono costruiti dalla metà degli anni Ottanta. Già allora erano in zone periferiche, vicini alle autostrade, isolati e con un grande parcheggio. La crescita più significativa avvenne però dalla fine degli anni Novanta.
Nel 1997 la riforma Bassanini semplificò molte procedure di autorizzazione, nel 1998 la cosiddetta legge Bersani — il decreto legislativo 114 — trasferì le responsabilità del settore commerciale alle Regioni. I princìpi su cui si basavano erano innovativi. Furono introdotti i concetti di impatto ambientale, concorrenza, pluralismo ed equilibrio commerciale, oltre a una generale liberalizzazione del settore.
In sostanza, alle Regioni venne dato il compito di gestire le domande delle grandi strutture di vendita, che interessano un territorio esteso, mentre ai comuni spettò la gestione urbanistica delle strutture medie e piccole. Ma il controllo non fu molto efficace, anzi spesso le amministrazioni locali incoraggiarono la costruzione di nuovi insediamenti commerciali solo con l’obiettivo di aumentare le entrate fiscali, sottovalutando gli effetti di una possibile saturazione del mercato.
Tra le altre cose, l’aumento del numero dei centri commerciali non venne affiancato da un analogo sviluppo della qualità degli edifici, sia dal punto di vista architettonico che per i materiali utilizzati. Sostenuta dalla liberalizzazione, l’iniziativa imprenditoriale passò dalle società della grande distribuzione agli investitori immobiliari: l’attenzione si spostò gradualmente dai prodotti e dai clienti al profitto legato alla semplice occupazione degli spazi, un orientamento prevalente tuttora.
Oggi in Italia la maggior parte dei centri commerciali è nella fascia inferiore ai 40mila metri quadrati. Si dividono principalmente in tre categorie chiamate con nomi presi in prestito dagli Stati Uniti: shopping mall, big box store e strip mall.
Lo shopping mall ha una galleria commerciale chiusa, su uno o più piani, su cui si affacciano i diversi negozi. Al suo interno ci possono essere grandi superfici di vendita, spesso della grande distribuzione, che servono ad attirare i consumatori. È una tipologia che evoca l’ambiente urbano, la passeggiata in centro città. Come dice il nome stesso, il big box store è una grande scatola che vende di tutto. Di solito questi edifici sono organizzati su un unico piano e arrivano a una superficie massima di 25mila metri quadrati. Lo strip mall consiste in una serie di negozi più o meno grandi senza una galleria che li collega.
Negli ultimi anni si sono aggiunti nuovi formati. Ci sono per esempio i factory outlet, negozi costruiti in un ambiente simile alle strade di un piccolo paese. Vendono prevalentemente eccedenze di produzione di prodotti di marca. Con il processo di adattamento alle mode si è sviluppato anche l’entertainment center, dove il commercio è sempre più legato all’intrattenimento assicurato da cinema multisala, sale giochi, ristoranti e locali, palestre.
Le aree vicine agli svincoli autostradali, alle tangenziali o comunque nelle zone periferiche di città e paesi sono ancora le preferite dagli investitori. I terreni agricoli inutilizzati risultano particolarmente appetibili. Sono zone collegate a strade molto trafficate, con un bacino potenziale di clienti notevole, e a cui si accede prevalentemente in auto, una caratteristica che favorisce gli acquisti e il consumo.
La concorrenza del commercio online ha sicuramente contribuito alla crisi di molti centri commerciali. Oggi i consumatori si trovano a proprio agio a fare acquisti di qualsiasi tipo su internet, anche se l’interazione fisica con il prodotto viene ancora considerato un vantaggio, in certi casi. Ma lo sviluppo del commercio online spiega solo in parte il rapido fallimento di molti centri commerciali. Il successo o l’insuccesso spesso dipendono da fattori esterni, soprattutto la concorrenza di nuove strutture più moderne.
Sulle porte scorrevoli del centro commerciale Freccia Rossa le scritte «benvenuti» stridono con gli avvisi che vietano l’ingresso. Ci si può affacciare alle vetrate solo dopo aver oltrepassato mucchi di escrementi di piccioni accumulati negli androni alle entrate. Le scale mobili sono ferme, i lunghi corridoi vuoti, ma si sente l’ultima canzone di Madame trasmessa dagli altoparlanti della radiodiffusione. Il Freccia Rossa si trova vicino al centro di Brescia, in una ex zona industriale chiamata “comparto Milano”.
È stato inaugurato il 21 aprile del 2008 e per costruirlo sono stati spesi 144 milioni di euro. Aveva 120 negozi, ora ne sono rimasti due: un bar e un’edicola. Fino a gennaio è rimasto aperto il supermercato Italmark, uno degli ultimi a resistere. «Apro alle 9 perché ormai passa pochissima gente» dice l’edicolante. L’unica cliente, una donna anziana, è entrata per acquistare un gratta e vinci, da cui ricava cinque euro, investiti subito in un altro. «Il Freccia Rossa ha perso il confronto con altri centri commerciali costruiti nel cordone urbano di Brescia, lungo le tangenziali» ha spiegato l’architetto Alessandro Benevolo in una puntata del podcast Breccast dedicata al declino del Freccia Rossa. Elnòs, aperto a Roncadelle nel 2016, ha attirato l’attenzione di moltissimi clienti e contribuito all’invecchiamento precoce di tutti gli altri centri commerciali bresciani.
Nel 2019 Resolute Asset Management, un fondo inglese specializzato nella gestione dei cosiddetti crediti deteriorati, cioè quelli che non si riescono a ottenere dai debitori, ha acquistato il centro commerciale per rilanciarlo con un piano da 5,8 milioni di euro, mai partito. Lo scorso anno è subentrato un nuovo fondo, Efesto, disponibile a investire 20 milioni di euro. «Il rilancio commerciale è stato tentato più volte senza successo» continua Benevolo. «Sulle possibilità di riconversione sono scettico perché è un’area privata, con valori immobiliari consistenti». È un problema comune ai centri dismessi.
Inizialmente il Freccia Rossa era stato progettato come un centro commerciale accessibile a piedi, perché piuttosto vicino al centro della città. L’idea era che sarebbe servito a far sviluppare l’intero “comparto Milano”. L’impostazione cambiò radicalmente con la costruzione di un parcheggio da 2.500 posti autorizzata e per certi versi sostenuta dall’amministrazione di centrosinistra di Paolo Corsini. Il Freccia Rossa diventò un centro commerciale come un altro. Lo stentato sviluppo immobiliare delle aree circostanti e la mancanza di grandi strade di collegamento mostrarono tutti i limiti di quella decisione.
Ora il comune deve trovare una soluzione. Secondo Benevolo, l’unica prospettiva è aspettare una decina d’anni per una svalutazione immobiliare. A quel punto il comune potrà acquistarlo per abbatterlo e farci un grande parco o un parcheggio per i mezzi di trasporto pubblico. A Brescia si voterà a metà maggio per le elezioni amministrative. I candidati principali sono Laura Castelletti, di centrosinistra, negli ultimi anni vice del sindaco Emilio Del Bono, e Fabio Rolfi, leghista, ex assessore regionale all’Agricoltura. Finora in campagna elettorale si è parlato poco o nulla del Freccia Rossa.
I dati citati da diversi studi sullo sviluppo del commercio nazionale dicono che in Italia il 51 per cento dei centri commerciali è considerato obsoleto, ovvero non è stato sottoposto a interventi di ampliamento o ammodernamento negli ultimi dieci anni. Le percentuali più alte sono in Veneto, dove il 75 per cento dei centri commerciali è obsoleto, in Lombardia (61), Trentino-Alto Adige (60), Emilia-Romagna e Liguria (58). Senza nuovi investimenti, nei prossimi anni queste percentuali aumenteranno. Le strutture più deboli o esposte alla concorrenza di nuovi centri sono destinate al fallimento.
Le alternative all’abbattimento sono poche. La disposizione degli spazi, la presenza delle gallerie e la scarsa luce naturale rendono i centri commerciali poco adattabili ad altri usi.
L’architetto Gabriele Cavoto, autore del libro Demalling. Una risposta alla dismissione commerciale, spiega che i limiti maggiori riguardano come sono organizzate le strutture degli impianti: «L’adeguamento architettonico di un centro commerciale è davvero complicato. Sono edifici costruiti per rendere il massimo in poco tempo. Il riuso è più semplice per la tipologia chiamata big box, dove possono insediarsi attività che hanno bisogno di molti metri quadri come uffici di grandi aziende. Per tutte le altre è difficile e molto costoso».
La grande cupola di vetro al centro della galleria delle Acciaierie, un centro commerciale abbandonato a Cortenuova, nella Bassa bergamasca, è un buon esempio degli ostacoli architettonici che impediscono la conversione delle grandi strutture. Aperto nel 2005, è stato chiuso nove anni dopo. Ci lavoravano 700 persone. A differenza dell’Orceana Park di Orzinuovi non è stato vandalizzato: da quando è fallito, due guardie lo presidiano per impedire intrusioni e furti. Negli ultimi anni si sono fatti avanti diversi fondi e imprenditori, ma alle intenzioni non sono seguiti investimenti concreti.
Costruito in una zona poco abitata, all’epoca non collegata a grandi strade in mezzo alla campagna, non è chiaro come potesse pensare di sopravvivere a lungo. «Ha una forma che ricorda un fungo, in effetti era la stagione dei funghi» dice Paolo Falbo, presidente del circolo di Legambiente di Romano di Lombardia, paese accanto a Cortenuova. La metafora si riferisce al notevole aumento dei centri commerciali in Lombardia avvenuto nei primi anni del Duemila, spuntati “come funghi”. Come accaduto al Freccia Rossa, anche a Cortenuova l’apertura di un nuovo centro commerciale più moderno, ad Antegnate, ha segnato la fine delle Acciaierie.
«Prima di autorizzare la costruzione di superfici commerciali estese si dovrebbe valutare con attenzione la possibile domanda, l’offerta, il consumo di suolo, le prospettive future» continua Falbo. «Purtroppo questa lungimiranza non esisteva anni fa e non esiste nemmeno oggi. I sindaci sono in una posizione di debolezza, esposti al potere persuasivo di gruppi che promettono soldi per rifare le strade o le piazze. Le province hanno poco potere di controllo».
La scarsa visione viene replicata oggi con lo sviluppo spesso caotico dei poli logistici. Non è un caso che nei campi coltivati accanto alle Acciaierie di Cortenuova ne siano stati costruiti alcuni, nonostante un enorme edificio dismesso a disposizione, distante pochi metri. In uno dei terreni di fronte al vecchio centro commerciale si vorrebbe costruire il nuovo scalo merci della provincia di Bergamo con polo intermodale da cui far passare le merci dirette verso tutta la Pianura Padana.
Negli Stati Uniti quasi tutte le amministrazioni locali adottano contromisure in vista della possibile dismissione, prima ancora di acconsentire alla costruzione dei centri commerciali.
Fort Collins, in Colorado, è stata tra le prime città a introdurre accorgimenti progettuali per favorire il riuso degli spazi. Già nel 1995 impose che almeno il 60 per cento delle facciate dovesse ospitare portici, aperture, ingressi o vetrine. I tetti devono avere cornicioni per evitare la monotonia tipica del capannone. L’allineamento dell’edificio, inoltre, deve seguire il confine della strada per almeno il 30 per cento della struttura allo scopo di evitare l’isolamento da altri edifici. I parcheggi, infine, devono essere distribuiti e non occupare superfici troppo estese. In alcuni casi le amministrazioni hanno introdotto cauzioni sostanziose, da versare in anticipo, per finanziare la demolizione o la riconversione degli edifici in caso di fallimento.
Queste regole sono diventate standard, utilizzate in moltissime altre città americane. A Charlotte, in North Carolina, nel 2001 è stata aperta la scuola Sugar Creek Charter all’interno di un supermercato dismesso dalla catena Kmart. A Denton, in Texas, un centro commerciale è diventato una biblioteca pubblica. A Woodstock, in Georgia, una chiesa è stata ricavata nei 12mila metri quadrati di un vecchio supermercato. Ad Hastings, in Nebraska, un altro Kmart è diventato un centro socio-sanitario.
In Italia, spiega l’architetto Cavoto, non c’è ancora questa consapevolezza. Nella fase di progetto non viene mai presa in considerazione l’idea che nei successivi cinque o dieci anni possano aprire nuove strutture competitive e di conseguenza che ci possa essere una crisi. «La vera questione è che bisogna anticipare i problemi» dice. «È chiaro che costa fatica e soldi, però a mio avviso è necessario. Altrimenti ci ritroveremo con sempre più edifici dismessi, destinati a rimanere vuoti per un tempo molto lungo, con notevoli conseguenze per il paesaggio e con il rischio che diano origine a degrado urbano anche nelle zone vicine».