La sentenza per lo stupro di una bambina di 11 anni contro cui si protesta in Marocco
Tre uomini sono stati condannati a pene ridottissime, 18 e 24 mesi di carcere, per le numerose attenuanti riconosciute dai giudici
In Marocco si protesta da settimane contro una sentenza per stupro. Tre uomini hanno abusato per mesi di una bambina di 11 anni, chiamata dai giornali solo con l’iniziale del nome: S. Dopo le violenze subite, S. è rimasta incinta e ha partorito all’età di 12 anni. Uno dei tre uomini è stato condannato a due anni di carcere, gli altri due a diciotto mesi. Il codice penale marocchino prevede pene superiori per i reati sessuali contro minori, ma lascia anche ai giudici la piena discrezionalità nell’applicare le circostanze attenuanti. Oggi c’è stato un nuovo presidio fuori dal tribunale di Rabat, la capitale del paese, per denunciare come tale discrezionalità si traduca spesso in impunità degli stupratori.
La prima persona a raccontare la vicenda di S. e a farla diventare un caso pubblico è stata la sociologa Soumaya Naamane Guessous, che ha scritto una lettera aperta al ministro della Giustizia poi pubblicata lo scorso 28 marzo su un giornale locale.
Nella lettera si dice che S. viveva vicino a Tiflet, nel nord-ovest del Marocco: è figlia di un pastore e di una contadina, e non è mai andata a scuola. Nella primavera del 2021, mentre si trovava a casa da sola, S. è stata stuprata da un uomo che ora ha 22 anni. Le violenze si sono ripetute nei giorni successivi e sono state commesse anche da un secondo uomo di 37 anni, parente del primo, e da un terzo uomo che era un vicino di casa di S. e che ora ha 32 anni. Negli abusi è stata coinvolta anche la nipote adolescente di uno dei tre: le è stato chiesto di controllare che, durante le violenze, non arrivasse nessuno e ha assistito in più occasioni agli stupri. Tutti e tre gli uomini hanno minacciato S. dicendole che se avesse raccontato a qualcuno quello che aveva subito avrebbero ucciso lei e la sua famiglia. S. non ha parlato per mesi.
Guessous ha poi raccontato che, durante uno stupro, uno degli uomini aveva notato la pancia di S. e aveva diffuso la voce che la bambina fosse «di facili costumi». Il padre S., avvisato di queste voci da un vicino di casa, ha portato la figlia da un medico: era incinta di otto mesi. Il 9 marzo del 2022 il padre di S. ha parlato con la polizia e i tre uomini sono stati arrestati. Il 15 marzo S. ha partorito e il test del DNA ha dimostrato che la gravidanza era la conseguenza di uno degli stupri. «Tuttavia, nessuna legge obbliga lo stupratore a riconoscere il bambino, tanto meno a mantenerlo», ha aggiunto Guessous.
I tre uomini sono stati processati a Rabat, S. si è presentata in tribunale con il padre, la nonna e il figlio appena nato. E il 20 marzo sono stati condannati: uno dei tre a due anni di carcere e gli altri due a diciotto mesi. Due di loro, tenendo conto della custodia cautelare, saranno liberati tra meno di sei mesi. Sono stati condannati anche al risarcimento complessivo di una cifra che corrisponde a circa 4.500 euro.
Il codice penale del Marocco prevede che lo stupro di un minore e di una minore possa essere punito con la prigione da dieci a venti anni. La pena è aumentata da venti a trent’anni se c’è stata «deflorazione», se cioè il minore o la minore non avevano mai avuto prima rapporti sessuali. I giudici che si sono occupati del caso di S. hanno invece concesso diverse attenuanti ai tre imputati, dovute, come riporta il sito Medias24, alle loro «condizioni sociali», all’«assenza di precedenti penali» e al fatto che «la pena prevista dalla legge è severa se rapportata ai reati commessi».
Il codice penale lascia infatti piena discrezionalità ai giudici nell’applicare le circostanze attenuanti, come hanno ricordato nella sentenza i giudici stessi: «Il tribunale prende di volta in volta in considerazione la gravità dei fatti e la personalità del criminale, avendo la possibilità, se lo ritiene necessario, di accordare il beneficio delle circostanze attenuanti poiché nessun testo legale lo esclude».
Stephanie Willman Bordat, di Mobilizing for Rights Associates (MRA), un’associazione con sede a Rabat che si occupa di diritti di donne e bambine, ha commentato che «qui c’è un vero e proprio problema di procedura penale». La discrezionalità dei giudici sull’applicazione delle attenuanti «ha come conseguenza la riduzione delle pene applicabili o addirittura quella di non applicarle affatto. Questo lascia liberi i giudici di basare le loro decisioni su stereotipi sessisti». Willman Bordat ha anche spiegato che nei casi di violenza sessuale su minori o donne, l’applicazione delle circostanze attenuanti «per favorire l’impunità» dei colpevoli è molto diffusa. Il caso di S. non è insomma isolato.
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Nel 2012 una ragazza di 16 anni, Amina Filali, si suicidò dopo essere stata costretta a sposare il suo stupratore. Un articolo del codice penale, all’epoca, prevedeva infatti questa possibilità. La morte dell’adolescente aveva provocato proteste molto ampie anche fuori dal Marocco che avevano portato, nel 2014, all’abrogazione di quella norma.
Nel frattempo di S. si sta occupando l’associazione INSAF (Istituzione Nazionale di
Solidarietà con Donne in Difficoltà). S. e il figlio hanno avuto a disposizione medici, pediatri e psicologi. Sono stati dati loro dei vestiti, latte e ciò di cui avevano bisogno. S., ha fatto sapere l’associazione, sarà sostenuta fino a quando non sarà completamente indipendente. Ora ha quasi 13 anni, grazie all’INSAF frequenta una scuola e torna dalla sua famiglia nei fine settimana per prendersi cura del figlio.
Molte associazioni, movimenti, accademiche e intellettuali si sono mobilitate per chiedere la revisione della sentenza sugli stupratori di S. e denunciare il fatto che la «leggerezza» delle pene tende a caratterizzare i casi di violenza sessuale commessa su donne e minori: «Due anni di carcere quando la legge prevede fino a trent’anni per questo tipo di reato. Quali circostanze attenuanti hanno riscontrato i giudici? In questo caso, ci sono solo circostanze aggravanti», ha detto ad esempio Fouzia Yassine, coordinatrice della rete che si è creata dopo la sentenza e che sta organizzando le proteste. L’antropologa e scrittrice Yasmine Chami, che ha lanciato una petizione che ha raccolto ad oggi più di 33mila firme, ha a sua volta detto: «Significa forse che la vita di una bambina non vale niente? Che la sua integrità fisica e mentale valgono ancor meno? O significa invece che la cultura dello stupro fa parte della mentalità dei giudici, e che i corpi delle donne non meritano protezione e rispetto nella nostra società?»
Dopo le proteste, sul caso di S. è intervenuto anche il ministro della Giustizia. In una dichiarazione alla stampa, Abdellatif Ouahbi si è detto «scioccato» dalla sentenza, affermando che il pubblico ministero aveva già presentato ricorso.