I film che ci ricorderanno della pandemia
Quelli girati con le restrizioni, quelli che raccontano il lockdown e quelli, più recenti, che parlano d'altro ma dicono molto di questi ultimi anni
di Gabriele Niola
I lockdown prima e la convivenza con la paura del contagio dopo hanno creato negli ultimi anni un filone di film che in vari modi parlano della pandemia. Sono film di generi diversi, budget diversi e storie diverse, che per diversi motivi alcuni commentatori hanno già raccolto sotto l’etichetta “covid film”. Li accomuna il fatto che probabilmente, riguardandoli tra molti anni, li troveremo estremamente rappresentativi del periodo storico in cui sono usciti.
Alcuni trattano la pandemia direttamente, per esempio mostrando personaggi in lockdown, mentre altri lo fanno indirettamente raccontando una trama che comprende marginalmente mascherine, vaccini e quarantene. Ci sono poi quelli che lo fanno in modo allegorico, rappresentando problemi e paure legate al COVID-19 all’interno di storie e scenari molto distanti da questo tema, ma in qualche modo collegati. Altri ancora, infine, rimarranno probabilmente gli unici a contenere le immagini di alcune delle più grandi città del mondo deserte.
Nei tre anni passati dall’inizio della pandemia gli atteggiamenti delle produzioni cinematografiche di tutto il mondo nei confronti delle storie che hanno a che vedere con il COVID-19 sono stati diversi e sono cambiati più volte. Inizialmente c’è chi ha cercato di arrivare per primo e rappresentare quasi in tempo reale la situazione mondiale con film scritti e girati molto velocemente. In poche settimane infatti Contagion, un film del 2011 di Steven Soderbergh che raccontava di una possibile pandemia non troppo diversa da quella in atto in quei mesi, era diventato uno dei più richiesti e noleggiati in tutto il mondo, facendo pensare che ci fosse una forte domanda di storie sul tema. La scarsa risposta del pubblico a questi primi film, però, ha poi dimostrato che non era così.
Per esempio, non appena è terminato il primo lockdown Enrico Vanzina girò Lockdown all’italiana. A produrlo fu Medusa Film in un momento in cui le sale cinematografiche cominciavano a riaprire ma non avevano film da proiettare, perché l’uscita di quelli più attesi era stata rimandata per paura dell’assenza di pubblico. Lockdown all’italiana aveva una trama leggera e molto popolare, con Martina Stella, Paola Minaccioni, Ezio Greggio e Ricky Memphis incastrati in casa tra tradimenti e i più ordinari e comuni problemi portati dal lockdown. L’incasso di Lockdown all’italiana non fu buono, 375mila euro, ma mostrò all’industria cinematografica italiana che era possibile per una produzione tornare sul set, e girare e confezionare un film rispettando le restrizioni.
Poco dopo uscì Songbird, esperimento americano prodotto da Michael Bay (regista di film molto costosi e di grande intrattenimento come Transformers) e primo film girato a Los Angeles dopo il lockdown. Gran parte del film si svolge su Zoom e in diversi casi i personaggi sono soli negli ambienti, o al massimo con un’altra persona, oltre a contenere molte inquadrature di Los Angeles deserta. Quella di Songbird è una storia di fantascienza distopica, un thriller ambientato quattro anni nel futuro durante la pandemia da COVID-23, un’evoluzione del COVID-19, in un mondo che da quattro anni è in lockdown. Uscito nelle sale e sulle piattaforme (a seconda dei paesi), anche Songbird non è andato bene.
Commedia e paura sono stati inizialmente i toni più utilizzati per trattare l’argomento, sia per la semplicità di scrittura sia perché, non essendoci garanzie di un ritorno economico sufficiente, in molti avevano optato per due tra i generi che è più facile che funzionino anche con budget bassi.
Contemporaneamente a questi primi esperimenti, ne sono stati realizzati altri in tutto il mondo: in Francia per esempio è stato girato un film non diverso da Lockdown all’italiana, intitolato 8 Rue de l’Humanité, da Dany Boon, autore di Giù al nord.
Una parte della produzione cinematografica ha cercato di capire e trovare un modo per rappresentare, raccontare e quindi cominciare a elaborare la pandemia. Si tratta però di una parte largamente minoritaria della produzione di quegli anni. La maggior parte dei film, infatti, specialmente quelli più ambiziosi e costosi, hanno evitato e continuano a evitare ancora oggi sia il tema della pandemia sia la rappresentazione di personaggi che indossano le mascherine, preferendo far finta che non sia mai successo niente o cambiando le date nelle trame. È il caso di grandi film ma anche di produzioni come Era ora, successo italiano di Netflix con Edoardo Leo, che ha a che vedere con i viaggi nel tempo e che invece di terminare nel presente, come avviene di solito con questo tipo di film, finisce prima del 2020.
Tra le rare grandi produzioni che hanno riconosciuto nelle trame l’esistenza della pandemia c’è stata quella di Glass Onion, film di Netflix uscito anche al cinema, quasi tutto ambientato su un’isola prima di arrivare sulla quale i personaggi indossano mascherine e vengono testati per stabilire che non siano positivi al virus. Oppure Magic Mike: The Last Dance di Steven Soderbergh, nel quale il personaggio principale interpretato da Channing Tatum, già protagonista di altri due film di questa serie in passato, mette in discussione la sua vita dopo che il suo lavoro è entrato in crisi a seguito della pandemia.
La ragione per la quale la pandemia è stata più che altro evitata dalle grandi produzioni è che sembra non essere una particolare attrattiva per gli spettatori. Con l’eccezione dei documentari che ne parlano, come quello recentemente uscito in Italia, Le mura di Bergamo, le distribuzioni hanno sperimentato che difficilmente il pubblico vuole vedere raccontato esplicitamente ciò che ha vissuto. Per evitarlo c’è chi finge che non ci sia stata nessuna pandemia ma allo stesso tempo si tiene alla larga da argomenti che richiederebbero per forza dei riferimenti. Il rischio infatti è di ottenere l’effetto di Petrov’s Flu, film di Kirill Serebrennikov, pensato e girato prima della pandemia ma presentato a Cannes nel 2021, che racconta di un uomo che vaga in preda a una terribile influenza, tossendo ovunque senza mascherina e senza timori di contagio, cosa che dopo la pandemia suona implausibile e anacronistica alla gran parte del pubblico.
Il discorso è diverso se si parla di serie tv, che per loro natura sono sviluppate e girate più in fretta, e sono quindi in grado di reagire meglio ai cambiamenti. La quarta stagione di Dear White People, la miniserie Station Eleven o la seconda stagione di The Morning Show ad esempio hanno tutte integrato i lockdown e la pandemia nelle loro trame in maniera molto ordinaria, facendo della satira o semplicemente portando avanti le storie dei loro personaggi attraverso isolamento e quarantene. Questa maggiore reattività delle serie è una conseguenza sia della leggerezza della produzione per la tv, le cui storie più lunghe danno meno enfasi ai singoli eventi, sia dello status di cui ancora godono i film, anche i più leggeri e commerciali, sulle cui trame, specie quando si parla di rappresentazione della società e del proprio tempo, c’è maggiore attenzione e che quindi raramente possono permettersi una trattazione leggera o tangenziale di eventi importanti.
I film girati durante i lockdown
Nella gran parte dei casi non sono stati molto amati dal pubblico né considerati significativi dalla comunità cinefila o dalla critica. Si riconoscono perché hanno spesso pochi personaggi in uno o più interni, raramente nella medesima inquadratura per rispettare il distanziamento sociale, e sono frequentemente pensati intorno a storie di coppie. Negli Stati Uniti per Netflix si girò Malcolm & Marie, con Zendaya e John David Washington: una storia in cui una coppia discute per tutta una notte nella propria casa, svelando insicurezze e problemi di relazione. Dal Regno Unito è venuto Insieme, con James McAvoy e Sharon Horgan. In Italia Ivan Cotroneo ha scritto e girato Quattordici giorni, con Thomas Trabacchi e Carlotta Natoli che devono affrontare un tradimento mentre sono chiusi in casa.
Oltre a questo nei primi mesi è stata molto sfruttata la possibilità di far girare video autonomamente agli attori e poi montarli o di usare immagini di videoconferenze. Il regista Rob Savage ha realizzato due film così. Prima, nel 2020 Host, una storia dell’orrore quasi tutta via Zoom, e poi nel 2021 Dashcam, nello stile found footage (cioè con le immagini riprese dagli stessi protagonisti come nel più famoso The Blair Witch Project). Altri esperimenti simili sono stati distribuiti da Netflix, come Bo Burnham: Inside, uno spettacolo musicale realizzato da un uomo solo in casa, o Homemade, antologia di 17 cortometraggi girati da 17 persone famose (tra cui Paolo Sorrentino, Pablo Larrain e l’attrice Kristen Stewart), tutti rinchiusi in casa per il lockdown o in giro per le strade deserte, costretti ad inventare modi per raccontare storie senza la compresenza degli attori.
Sicuramente il film più elaborato e sofisticato girato a ridosso dei lockdown è stato Locked Down di Doug Liman. La storia rispetta molte delle convenzioni di questo genere di film, a partire dalla storia di una coppia in crisi confinata a casa. Gli attori sono Chiwetel Ejiofor e Anne Hathaway, isolati a Londra durante il lockdown, che faticano ad andare avanti e devono affrontare la fine della relazione, oltre alle consuete difficoltà della situazione. In reazione ai loro problemi finiranno per compiere un furto. Sono presenti apparizioni di altri attori via Zoom, come Ben Stiller che interpreta un personaggio in isolamento a casa con i figli (visto che era effettivamente in isolamento a casa con quelli che sono realmente i suoi figli), scene di città deserte e relazioni difficili e nervose con i vicini. Il film è scritto da Steven Knight, autore di Peaky Blinders e Locke, e ha anche tutta una parte d’azione e tensione quando i protagonisti decidono di sfruttare il lockdown per un colpo ai grandi magazzini Harrods.
Per poterlo girare il regista Doug Liman ha volato dal Massachusetts a Londra da solo a bordo di un aereo privato di cui era anche il pilota. Gli era stato caldamente sconsigliato di farlo ma il film presentava l’occasione unica di poter riprendere diverse scene dentro Harrods, e nel suo caveau, luoghi mai filmati prima perché la direzione non aveva mai concesso l’autorizzazione.
I film girati dopo i lockdown
Tra il 2021 e il 2022 sono usciti diversi film che hanno affrontato la pandemia in maniere più strutturate. Una distanza maggiore dagli eventi ha infatti portato maggiori consapevolezze riguardo alle implicazioni e alle conseguenze della pandemia sulle persone e sulla società. Tranne casi isolati però si è trattato anche questa volta di film piccoli o indipendenti e solo raramente di produzioni importanti. I grossi film che erano in lavorazione quando sono iniziati i contagi e che hanno ripreso dopo hanno generalmente fatto di tutto per evitare qualsiasi riferimento e far sembrare che la lavorazione non ne fosse stata influenzata.
Uno dei casi più noti è quello di Jurassic World: Il dominio, terzo film della serie che riprende la trilogia di film degli anni ‘90 iniziata con Jurassic Park di Steven Spielberg, le cui riprese iniziarono nel febbraio del 2020 per poi interrompersi e riprendere a luglio. Per riuscire a finire il film il cast e la troupe sono stati prima testati e poi isolati in un grande hotel in Inghilterra, dentro al quale venivano anche girate molte delle scene con grande uso di effetti visivi e sfondi finti. Questa soluzione è stata raccontata in un altro film del 2022, The Bubble di Judd Apatow, che prende in giro esattamente questo tipo di grandi produzioni strette tra esigenze economiche, cinismo commerciale e protocolli sanitari. In The Bubble il cast e la troupe di un film ad alto budget pieno di effetti speciali e parte di una grande saga vengono chiusi in un hotel e finiscono preda di odi, sotterfugi, fughe e sabotaggi.
Momenti o dettagli che non negano il fatto che sia esistita una pandemia si trovano invece in Borat – Seguito di film cinema. Nel film il protagonista interpretato da Sacha Baron Cohen coinvolge diverse tipologie di americani in complicate candid camera: ci sono anche degli attivisti di QAnon negazionisti della pandemia e per questo finisce per diventare il principale diffusore del COVID-19 nel mondo. Riferimenti come questi sono presenti anche in altri film statunitensi. In Recovery, due sorelle partono per un viaggio con l’obiettivo di far uscire la madre da una casa di riposo proprio all’inizio della pandemia. In I’m fine (Thanks for asking) una madre nasconde alla figlia piccola l’esistenza del virus dopo che le due sono rimaste senza una casa e lei fa la rider per una paga misera. Tutti questi casi sfruttano pretesti narrativi per dare modo ai propri personaggi di attraversare città e paesi cambiati dalla pandemia. Non è solo il racconto dei protagonisti a dire qualcosa su cosa sia successo, ma anche il complesso delle storie dei personaggi laterali e le particolarità dei contesti in cui si muovono.
In Italia ci ha provato Roan Johnson (regista dei film per la televisione della serie I delitti del BarLume) con State a casa, in cui alcuni giovani coinquilini bloccati dal lockdown capiscono di poter derubare il padrone di casa finendo in una storia più grande di loro. È una commedia con humor nero che da un lato, come molti film simili, mette in scena i problemi e le più comuni questioni sorte nella vite di tutti durante i lockdown, dall’altro, come molti altri film arrivati ben dopo i lockdown, ha l’obiettivo di rappresentare anche le conseguenze umane della pandemia su una piccola comunità di persone diventata più cinica, più disilllusa, più violenta.
Ad una conclusione simile arriva uno degli ultimi film di questo tipo usciti negli Stati Uniti (ma non ancora in Italia) intitolato Sick e scritto da Kevin Williamson, il creatore di Scream. È un film dell’orrore dalla struttura convenzionale in cui due ragazze passano la quarantena isolate nella casa di montagna di una delle due e scoprono che qualcuno è entrato in casa e le vuole uccidere. In Sick c’è grande enfasi sulla paura del contatto e sulla diffidenza verso gli altri.
I film che parlano della pandemia fingendo di parlare d’altro
I film che sono usciti più di recente sono quelli che per trattare le medesime questioni e problemi elencati fin qui usano l’allegoria o creano una situazione di fantasia. È quello che è capitato in tempi recenti anche con gli attacchi terroristici dell’11 settembre. A fronte di alcuni film girati subito dopo (come l’antologia collettiva di cortometraggi intitolata 11 settembre 2001) e altri venuti poco dopo ma molto attenti a mostrare le cose per come si sono svolte al netto dell’enfasi cinematografica – come United 93 e World Trade Center nel 2006 – sono stati poi film di fantasia come Cloverfield, del 2008, a rappresentare traumi e paure dell’evento attraverso mostri e apocalissi.
Un film che parla di pandemia trattando d’altro è Kimi, ancora una regia di Steven Soderbergh, uscito nel 2022 e girato nel 2021, in cui un’informatica che lavora da casa scopre un audio che testimonia un crimine e questo la mette in situazioni pericolose e d’azione. La protagonista vive in casa per via della pandemia ed è agorafobica, cioè è terrorizzata dagli spazi aperti, sensazione che per alcuni ricorda la paura di uscire che ha accompagnato molti durante i primi mesi di lockdown.
Un esempio italiano invece è Siccità, film di fantascienza distopica di Paolo Virzì, che immagina uno scenario in cui non piove da tre anni e la città di Roma è ad un passo dalla fine delle scorte d’acqua. Quello che avviene rispecchia in parte quanto abbiamo visto succedere durante la pandemia, con gli idrologi al posto degli immunologi. Riprende alcuni elementi dei film distopici, ma attingendo da riferimenti, atteggiamenti e reazioni che nessuno aveva immaginato prima che si verificassero durante la pandemia e che ora invece riconosciamo.
Un caso ancora diverso è quello di Don’t Look Up, probabilmente il più costoso e importante film di questo genere. È stato scritto nel 2019 e le riprese erano previste per l’aprile del 2020, i molti rinvii della lavorazione e il diverso ambiente in cui poi il film è uscito (anziché nelle sale, su Netflix, nel 2021), hanno allargato la sua metafora. La storia è quella di due scienziati che scoprono che un meteorite colpirà la Terra, l’umanità è quindi sicuramente condannata all’estinzione a meno che non si agisca tempestivamente, ma perché questo accada tutti devono essere convinti della effettiva gravità e realtà della minaccia. Disinformazione, scarsa tendenza a credere a notizie catastrofiche, incapacità della classe dirigente, malafede, corruzione e dibattiti su mezzi di informazione vecchi e nuovi erano state scritte per raccontare le battaglie di chi spiega l’emergenza climatica globale, ma si sono ben adattate anche alle difficoltà di chi ha raccontato i pericoli del contagio o la necessità dei vaccini senza essere creduto.