L’Ocean Race oltre Capo Horn
La regata in equipaggio intorno al mondo ha superato il punto più importante della sua tappa più lunga
di Gabriele Gargantini
A quasi un mese da quando hanno messo i piedi a terra l’ultima volta, tutti gli equipaggi delle quattro barche a vela ancora in gara nella Ocean Race hanno superato Capo Horn, il punto più celebre e insidioso della sua terza tappa, la più lunga di sempre.
La tappa era iniziata il 26 febbraio da Città del Capo, in Sudafrica (con una partenza modificata a causa dell’avvistamento di alcune balene) e finirà tra qualche giorno a Itajaì, in Brasile: in mezzo ci sono oltre 23mila chilometri di navigazione verso est; il superamento di Capo Leeuwin, nel sud dell’Australia; settimane di navigazione in acque fredde e insidiose; il passaggio dalle parti di Point Nemo, il punto al mondo più lontano da qualsiasi costa terrestre; e il superamento di Capo Horn, nell’estremo sud del Sudamerica, che fa da simbolico spartiacque tra l’oceano Pacifico e l’oceano Atlantico, con tutto quello che comporta, per delle barche, uscire da uno ed entrare nell’altro.
Al momento, con più di 20mila chilometri alle spalle e un paio di migliaia ancora da fare, sembra che per la vittoria della tappa sarà una sfida scafo a scafo tra la barca tedesca del Team Malizia e la svizzera Holcim-PRB, passate da Capo Horn a circa un’ora di distanza. Ma la Ocean Race è una regata intorno al mondo con barche monoscafo che percorrono oltre 1.000 chilometri in 24 ore, con record di velocità che in questi giorni sono stati più volte stabiliti e battuti; una regata in cui al termine della seconda tappa le barche erano arrivate, dopo giorni, con pochi minuti di differenza l’una dall’altra: può davvero succedere ancora di tutto prima dell’arrivo finale, previsto per giugno, a Genova.
La Ocean Race di quest’anno – la quattordicesima della storia, a cinquant’anni dalla prima, e la prima dall’inizio della pandemia – era partita a gennaio da Alicante, sulla costa mediterranea della Spagna. È scesa verso Capo Verde, lo stato insulare al largo della costa senegalese, e poi ancora più a sud verso il Sudafrica. Dopo questa terza tappa, che ha visto l’attraversamento di tre quarti del sud del pianeta, le barche andranno fino a Newport, negli Stati Uniti, e poi da lì in Danimarca per poi tornare nel Mediterraneo.
Le barche in gara sono degli IMOCA 60. “IMOCA” è l’acronimo di International Monohull Open Classes Association e “60” è la lunghezza in piedi, pari a poco più di 18 metri. Sono barche foiling perché hanno due foil o “ali mobili”, che a determinate condizioni permettono di sollevare in aria lo scafo e ridurre quindi l’attrito con l’acqua.
Le barche al via in questa categoria erano cinque, ma in Brasile arriveranno in quattro perché una si è ritirata. Su ogni barca ci sono cinque persone, che per settimane fanno una vita parecchio difficile. Si dorme poco (spesso meno di un paio d’ore per turno) e piuttosto male. Si lavora parecchio, si mangiano cibi disidratati (non c’è una cucina e serve risparmiare peso complessivo) e per quello per cui in genere si usa un gabinetto ci si arrangia con un secchio. Per livello di generale isolamento – e spesso lontananza fisica – da altri esseri umani, oltre che per ristrettezza di spazi, gli equipaggi della Ocean Race sono spesso paragonati a quelli della Stazione Spaziale Internazionale.
La classifica della Ocean Race è a punti, non a tempo. Per ora Holcim-PRB è prima con 15 punti, seguita da 11th Hour Racing Team a 10, Malizia a 9 e Biotherm a 8. Ogni tappa assegna 5 punti al primo, 4 al secondo e così via. Vista la lunghezza e le avversità, la terza tappa ha avuto inoltre un traguardo intermedio dalle parti della Tasmania.
Per le barche gli ultimi giorni prima di Capo Horn sono stati segnati da forti venti di burrasca con raffiche a oltre 80 chilometri orari e onde fino a 8 metri d’altezza, e con luoghi in cui la temperatura dell’acqua arrivava perfino sotto gli zero gradi.
Alle barche era impedito scendere oltre una certa latitudine e superare la cosiddetta zona di esclusione, così da evitare i pericolosi banchi di ghiaccio, soprattutto per barche veloci ed estreme come gli IMOCA 60 della Ocean Race.
Nelle ultime settimane ogni equipaggio ha avuto la sua quota di problemi: Guyot Environnement-Team Europe ha ritirato la sua barca per un’avaria dello scafo; Team Malizia avrebbe rischiato di fare la stessa fine se un membro del suo equipaggio non si fosse arrampicato sull’albero alto 28 metri per fare una riparazione d’emergenza; altri hanno avuto problemi ai timoni e ai foil, e poco prima di Capo Horn l’olandese Rosalin Kuiper, co-skipper di Team Malizia, si è ferita alla testa cadendo nel sonno dalla cuccetta (ma non ha perso conoscenza ed è stata soccorsa dal resto dell’equipaggio).
Gli equipaggi hanno definito «piuttosto violenti» i loro IMOCA, capaci talvolta di «raggiungere velocità da multiscafo» e hanno parlato di come nelle ultime settimane «sia le barche che le persone a bordo siano andate al massimo e si siano spinte fino al loro limite».
Nonostante i non pochi problemi, Team Malizia, il cui skipper è il tedesco Boris Herrmann, ha comunque superato Capo Horn prima di tutti, 27 giorni e 17 ore dopo aver lasciato il Capo di Buona Speranza, in Sudafrica. Ha così vinto il Trofeo Roaring Forties, assegnato alla barca più veloce nell’attraversare i cosiddetti “quaranta ruggenti”, chiamati così per le difficoltà incontrate navigando oltre il 40° parallelo sud. È ricavato da un pezzo di albero rotto e rappresenta un albatro in volo su acque agitate.
«Un breve momento nel grigio sud» ha detto Herrmann dopo aver superato il Capo: «L’Horn era bellissimo e dopo pochi minuti è scomparso di nuovo nella nebbia grigia».
Capo Horn è l’ostacolo finale di una complicata e lunga navigazione fatta senza mai vedere terra, è il punto che segna «la fine delle condizioni del Sud, dove profondi sistemi di bassa pressione si susseguono uno dopo l’altro, senza essere ostacolati da masse terrestri, con venti di burrasca che creano mari imponenti e spaventosi». A Capo Horn cambiano i venti, cambiano i fondali, si innalzano le onde e crescono i pericoli.
Capo Horn fu doppiato per la prima volta nel 1616 e si chiama così in riferimento a Hoorn, la città olandese di cui era originario chi la doppiò. È il promontorio roccioso più meridionale dell’isola Hornos, che è parte dell’arcipelago della Terra del Fuoco. Non è davvero il punto più a sud dell’America del Sud (che è invece nelle isole Diego Ramírez), ma è tuttavia il punto di riferimento per quello storico passaggio navale, che da oltre un secolo ha perso rilevanza commerciale per l’apertura del Canale di Panama ma che mantiene quella velistica. Molti velisti sono morti in quelle acque per naufragi e affondamenti e chi è riuscito a superarlo in barca a vela è noto come cape horner.
L’Ocean Race ha scritto che «il passaggio di Capo Horn è un momento fondamentale nella vita di un regatante oceanico e un’esperienza che i velisti non dimenticano mai. I fortunati velisti che doppiano l’Horn alla luce del giorno e con buon tempo possono scorgere il piccolo isolotto roccioso, alquanto infausto. Quelli che lo doppiano di notte devono accontentarsi di intravedere il faro di Homos Island o, in caso di maltempo, di non vedere affatto il punto di riferimento più famoso delle regate oceaniche».
Dopo aver doppiato Capo Horn le quattro barche in gara ora stanno procedendo a coppie, con le prime due che sono a una manciata di chilometri l’una dall’altra e hanno alcune centinaia di chilometri di vantaggio sulle seconde due: tutti gli equipaggi hanno scelto comunque di salire verso nord restando a ovest delle isole Falkland (o Malvinas), procedendo quindi più vicine alla costa sudamericana. «Spesso si pensa che una volta passato Capo Horn le cose diventino più facili», ha detto Christian Dumard, esperto meteo della Ocean Race: «Ma non è ancora accaduto».
Da Itajaì, grande città portuale nel sud del Brasile dove l’arrivo è previsto per domenica, l’Ocean Race ripartirà il 23 aprile, dopo alcuni giorni di pausa che serviranno a rimettere in ordine sia le barche che i rispettivi equipaggi.
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