Che cosa fu la “legge truffa”
Settant'anni fa la Democrazia cristiana fece approvare una legge elettorale con un grosso premio di maggioranza, dopo un lunghissimo iter e un gran caos nelle aule parlamentari
Il 31 marzo del 1953, settant’anni fa, l’allora presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, firmò una legge elettorale molto contestata, sulla quale il governo aveva posto la questione di fiducia. Il presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi, leader della Democrazia cristiana (DC), che si intestò politicamente quella legge, passata alla storia con il nome di “legge truffa”.
Comunisti e socialisti la criticarono subito perché, attribuendo automaticamente il 65 per cento dei seggi alla lista o alla coalizione che avesse ottenuto più del 50 per cento dei voti, ricordava la “legge Acerbo”, che nel 1924 consentì al Partito Nazionale Fascista di avere facilmente una forte maggioranza parlamentare. Entrambi i partiti, il Partito comunista (PCI) e il Partito socialista (PSI), fecero una dura opposizione. Nelle aule della Camera e del Senato ci furono risse, mentre fuori la polizia manganellava i manifestanti. Pietro Ingrao rientrò in aula sanguinante e Giulio Andreotti si mise in testa un cestino della carta straccia come elmetto. Alle elezioni del 7 giugno successivo, però, il listone governativo della DC e di altri partiti di centro mancò l’obiettivo: si fermò poco prima di raggiungere il 50 per cento, e l’anno dopo la “legge truffa” fu abrogata.
Il 18 aprile del 1948 in Italia si erano svolte le prime elezioni politiche della storia repubblicana: le prime dopo la Seconda guerra mondiale e l’entrata in vigore della Costituzione, in cui si scontrarono principalmente la Democrazia Cristiana, che vinse nettamente, e il Fronte Popolare, formato da socialisti e comunisti. La legge elettorale di quelle prime votazioni era stata introdotta dopo la fine del fascismo: era stata concepita nel 1946 per le elezioni dell’Assemblea Costituente previste per il successivo 2 giugno e, con alcuni correttivi, fu recepita come normativa elettorale anche nel 1948. Era una legge proporzionale, e il sistema proporzionale strutturò il funzionamento delle elezioni politiche italiane da quel momento in poi, fino al 1994. Con un’unica eccezione: quelle del 1953.
La “legge truffa” fu voluta da De Gasperi dopo i risultati delle elezioni amministrative del 1951 e del 1952 che portarono a un crollo del consenso elettorale del suo partito: i comunisti avevano tenuto, ma la DC aveva perso voti sia a sinistra che soprattutto a destra, verso i liberali, i monarchici e il Movimento sociale italiano (MSI). L’idea di un premio di maggioranza venne proprio dopo quei risultati: se si fossero ripetuti alle elezioni nazionali, il centro avrebbe probabilmente ottenuto una maggioranza strettissima in parlamento e sarebbe stato costretto, contro socialisti e comunisti, a cercare alleanze a destra, come d’altra parte auspicavano le associazioni cattoliche e il Vaticano.
L’esigenza politica era poi quella, come disse lo stesso De Gasperi, di avere uno «Stato forte», di dare cioè alla maggioranza assoluta espressa dal voto una base di governo solida.
L’abbandono del proporzionale venne deliberato, non senza discussioni interne, dalla DC nel Consiglio nazionale di Anzio a giugno del 1952. E il 21 ottobre dello stesso anno, su proposta del ministro dell’Interno Mario Scelba, il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge intitolato “Modifiche al testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei Deputati, approvato con decreto presidenziale 5 febbraio 1948, n.26”. La nuova legge, su cui si trovarono poi d’accordo anche il Partito socialista democratico, il Partito liberale e il Partito repubblicano, introduceva un premio di maggioranza consistente poiché assegnava automaticamente il 65 per cento dei seggi della Camera (corrispondenti a 380 deputati) alla lista o al gruppo di liste che avesse superato il 50 per cento dei voti validi. Altrimenti, i seggi sarebbero stati ripartiti sulla base del sistema proporzionale in vigore.
A fine ottobre il disegno di legge Scelba fu sottoposto all’esame preliminare della commissione Interni della Camera, che durò un mese. E da subito ebbe inizio l’opposizione di comunisti e socialisti, che scelsero di farla non tanto organizzando mobilitazioni di piazza, ma facendo ostruzionismo in parlamento. Come scriverà più tardi Pietro Ingrao, allora direttore dell’Unità e deputato del PCI:
«Non si trattava di decidere se e come avere un po’ più o un po’ meno di parlamentari, né solo la funzionalità o meno di alcune tecniche di selezione politica. Fu in dubbio la forma della politica. E noi avvertimmo pesantemente che combattevamo non per qualche deputato in più o in meno, ma sul volto e i poteri dei partiti e del Parlamento (…).
Lo facemmo trascinati da due impulsi: la memoria tragica di ciò che aveva significato per l’Italia e per l’Europa prima la crisi, e poi il soffocamento di quelle forme politiche, e la coscienza sofferta, dolorosamente maturata del valore che la democrazia politica aveva nel processo di emancipazione».
L’obiettivo dell’ostruzionismo era prendere tempo e rendere impossibile l’approvazione della legge entro la fine della legislatura, a cui mancavano solo cinque mesi. PCI e PSI fecero ricorso a maratone oratorie, a cavilli dei regolamenti parlamentari e ad atti di sabotaggio (un deputato comunista rovesciò le urne che contenevano le palline bianche e nere per le votazioni). Dall’altra parte, il presidente democristiano della Camera, Giovanni Gronchi, usò il regolamento per stabilire un limite alle discussioni della commissione, fissandolo al 3 dicembre, mentre i deputati della DC presentarono la proposta, poi accolta da disordini in aula, che la Camera lavorasse tutti i giorni, compresi i festivi, fino al 23 dicembre, in modo da procedere per quella data alla votazione del disegno di legge.
La discussione generale iniziò domenica 7 dicembre, non prima che venissero respinte dalla commissione quattro pregiudiziali di incostituzionalità presentate dalle opposizioni. Fu a quel punto che la legge venne soprannominata “legge truffa”, ma sulla paternità dell’espressione ci sono diverse teorie. Alcuni dicono che fu di Piero Calamandrei, fondatore del Partito d’Azione, altri del comunista Giancarlo Pajetta. Altri ancora la attribuiscono al leader dei socialisti Pietro Nenni che, durante il suo intervento alla Camera, disse:
«Orbene la spiegazione meno vile che si può dare di questa legge è che essa sia stata suggerita all’attuale gruppo dirigente della Democrazia cristiana dalla intenzione di sfuggire alla necessità di una scelta tra la sinistra e la destra. (…) Il prezzo che la Camera dovrebbe pagare all’immobilismo centrista è il premio di maggioranza. E forse in tutto ciò vi è anche un elemento comico, giacché – assai probabilmente – la legge non è necessaria; non è cioè detto che la Democrazia cristiana, per governare, abbia bisogno di ricorrere a trucchi e a truffe elettorali».
Comunque sia andata, quel nome rimase appiccicato alla legge. Venne usato dalle sinistre nella lunga e dura campagna elettorale fino al giorno del voto, e «finì per diventare di uso corrente anche su giornali dello schieramento governativo», come ricordò Ingrao.
La discussione alla Camera proseguì con fatica attraverso la presentazione di centinaia di ordini del giorno, migliaia di emendamenti e di controemendamenti. Nel frattempo, fuori dai palazzi delle istituzioni e per le strade di Roma ci furono diverse manifestazioni di protesta contro la legge. Pietro Ingrao vi rimase coinvolto e si presentò sanguinante in aula:
«Già c’erano stati nei giorni passati scontri durissimi, cortei rabbiosi. Affiorava una certa stanchezza. Consapevoli delle deboli forze, i compagni avevano adottato la tattica di irrompere dai vicoli e poi ritirarsi. La polizia era esasperata, e quando acciuffava un manipolo picchiava selvaggiamente, con insulti e una violenza che oggi apparirebbe impossibile, ma che allora noi conoscevamo bene.
Al crocevia del Tritone, proprio sotto le stanze del Messaggero, una squadra di polizia era riuscita a stringere un piccolo nucleo di manifestanti e menava duro. Mi intromisi protestando. A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino di deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa. Non era nulla di grave. Ma il manganello toccò un punto del cuoio capelluto molto irrorato, quindi il sangue veniva giù copiosamente.
Tra le urla e i fischi, mentre una compagna gentile con un fazzoletto cercava di fermare il sangue sulla mia zucca, e stretto da un piccolo gruppo di manifestanti, mi mossi per tornare a Montecitorio. In aula stava parlando un compagno: aspettai in Transatlantico che finisse, rinviando a più tardi il medico della Camera accorso premurosamente. Poi entrai in aula con quel fazzoletto insanguinato sulla fronte a raccontare ciò che accadeva in quella cupa notte romana. Questi erano i riti, i modi anche elementari con cui tentavamo di mandare messaggi al Paese».
Il 14 gennaio, dato che continuavano a essere presentati altri emendamenti, il ministro Scelba chiese di sospendere la seduta e venne presa la decisione di proporre alla Camera dei deputati di votare l’ammissibilità della questione di fiducia. Cominciò una “seduta fiume”, che durò tre giorni e tre notti, fino al primo mattino di mercoledì 21 gennaio. Ebbe poi inizio la votazione sulla questione di fiducia, che passò. Comunisti e socialisti, che si erano astenuti, al momento della proclamazione dell’esito lasciarono l’aula cantando l’inno di Mameli e quello dei lavoratori. Subito dopo fu votato a scrutinio segreto tutto il disegno di legge: 332 favorevoli, 17 contrari.
Dopo 45 giorni e varie risse si concluse alla Camera la prima parte dell’iter della nuova legge elettorale, che continuò al Senato. Anche qui le sinistre tentarono di ostruire il procedimento, a partire dalla discussione in commissione. La discussione vera e propria, in aula, iniziò l’8 marzo. De Gasperi chiese subito la parola e dichiarò di voler porre la fiducia su tutto il testo già approvato dalla Camera spiegando che «circostanze straordinarie e particolari» rendevano inevitabile quella scelta.
Il presidente del Senato, il liberale Giuseppe Paratore, non era d’accordo: per motivi di salute si dimise e venne sostituito da Meuccio Ruini, iscritto al gruppo Misto. Era il 26 marzo, l’approvazione sembrava vicina ma quella seduta, invece che durare poche ore si trascinò fino al pomeriggio del 29 marzo, domenica delle Palme (la dichiarazione di voto del comunista Cerruti durò oltre otto ore).
Quel giorno i senatori democristiani lasciarono a turno l’aula per andare a messa, e tornarono portando ramoscelli di ulivo da offrire ai colleghi. Dopo quasi settantasette ore, Ruini respinse la richiesta di voto segreto e i senatori di maggioranza votarono protetti fisicamente dai commessi, visti i tentativi dell’opposizione di impedire materialmente il voto. Poco prima delle quattro di quel giorno, Ruini annunciò che il Senato aveva approvato la legge.
«Mentre il presidente Ruini proclamava i risultati del voto» ricorderà ancora Ingrao, «volò una tavoletta che lo colpì alla fronte. Contemporaneamente vidi il senatore Negarville – un compagno incline irresistibilmente alla sottigliezza ironica e ai ragionamenti più disincantati anche sulle cose sacre del comunismo – arrampicarsi sui bordi della tribuna presidenziale con una furia gattesca, mentre Ruini si precipitava verso l’uscita, e l’emiciclo bolliva. Tutto era assurdo e naturale».
Dai banchi volava giù di tutto. Il governo abbandonò l’aula, rimase solo il sottosegretario Giulio Andreotti che, in piedi sui banchi del governo, si mise un cestino sulla testa per proteggersi. Scapparono anche i funzionari, e nel verbale finale della seduta vi furono di conseguenza varie cose che non tornavano, come il voto a favore della legge di un deputato comunista che era stato invece uno dei suoi maggiori oppositori.
I comunisti proclamarono per il lunedì seguente uno sciopero generale, ma sul ricorso alle dimostrazioni di piazza non tutti erano d’accordo. Lo sciopero fallì, un gruppo di
senatori di sinistra andò al Quirinale per chiedere al presidente della Repubblica, Einaudi, di non promulgare la legge perché nella seduta del 29 marzo non era stato rispettato il regolamento. Il 31 marzo Scelba presentò a Einaudi la legge, che la firmò. Quello stesso giorno venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
Le elezioni vennero fissate per i successivi 7 e 8 giugno, e la strategia dei comunisti di fare una battaglia parlamentare piuttosto che nelle piazze si rivelò alla fine vincente. La maggioranza uscì frammentata dall’approvazione della legge, si crearono piccole formazioni tra cui Unità popolare, che ebbe un ruolo decisivo nell’esito finale del voto. Il listone della DC con altri partiti alla fine mancò l’obiettivo: si fermò al 49,85 per cento, senza superare la soglia che avrebbe fatto scattare il premio di maggioranza. La DC perse circa 2 milioni e 800mila voti rispetto alle elezioni del 1948, mentre la sinistra ne guadagnò oltre 1 milione e 426mila e la destra 2 milioni e 326mila. Racconterà Ingrao:
Alle 10 di quel martedì mattina [martedì 9 giugno, ndr] ero in tipografia a preparare l’edizione straordinaria del giornale (…). Sentii a un tratto levarsi un urlo lungo nella sala. Non so chi aveva dato la notizia delle dichiarazioni di Scelba: per 57.000 voti la “legge truffa” non era passata.
Il 25 giugno del 1953 ebbe inizio la seconda legislatura. E venne subito annunciato un progetto di legge, firmato da Pietro Nenni, che diceva: “Abrogazione della legge 31 marzo 1953, n.148”. Fu approvato l’anno dopo.